Il vizietto a stelle e strisce*

di Vincenzo D’Anna*

Prima o poi gli storici, quelli veri si intende, ci arriveranno: basterà che passino quei cinquant’anni indicati come lasso di tempo necessario per poter valutare a fondo e con serenità le vicende della cronaca trasformandole in mera e spassionata analisi. Sarà così anche per i fatti politici di casa nostra maturati nel periodo di Tangentopoli, l’epopea giudiziaria che caratterizzò la fine della Prima Repubblica, la morte dei partiti politici di massa e la loro capillare, nonché costosa, organizzazione territoriale. Un apparato mastodontico messo in piedi nel dopoguerra allorquando la geopolitica dei blocchi ideologici contrapposti tra Occidente liberale ed Est comunista, rendeva necessario un simile apparato. Comunque sia, la verità verrà a galla e nulla resterà nascosto agli occhi di quanti guardano alla “maestra di vita” come presupposto per comprendere il presente approfondendo la conoscenza del passato. Solo allora potremo spiegarci completamente e compiutamente il più grande fenomeno politico che ha attraversato la storia politica del Belpaese. E potremo farlo serenamente, senza piegare, cioè, l’interpretazione di quegli eventi agli interessi contingenti dei giorni nostri. Ora, fino a quando la cortina di ferro e la logica politica di dover arginare l’espansione comunista a Ovest rimasero in piedi, tutto faceva gioco e comodo ed ancor di più in una nazione come l’Italia, che si trovava geograficamente e politicamente a svolgere un ruolo di frontiera e di interposizione tra sovietici ed americani. In quegli anni turbolenti una fitta rete di finanziamenti occulti veniva garantita ai partiti di area ideologica similare a quelli che dettavano legge nelle due super potenze, sopratutto verso il Pci da parte del Pcus, il partito comunista russo mentre, sul fronte opposto, Washington garantiva l’ombrello protettivo della Nato e risorse adeguate ai partiti di governo dei paesi occidentali. Dc in primis. Una realtà, quella dei finanziamenti internazionali, che durante Tangentopoli non fu mai adeguatamente chiarita e men che meno indagata dai magistrati inquirenti. Eppure tale forma di finanziamento nacque proprio dalla precisa esigenza di fronteggiare il nemico ideologico, di preservare un’identità socio-economica dall’inquinamento dell’avversario politico (e storico). Certo a scoperchiare la pentola maleodorante della diffusa corruzione, perpetrata in quel contesto permissivo come per stato di necessità, fu anche la fine del regime dei Soviet (e del comunismo reale) che cancellò l’imperativo amorale e la necessità di realizzarlo anche attraverso quelle fonti di sovvenzionamento. In ogni caso sono ancora tutti da spiegare sia il contesto, sia gli scopi ultimi per i quali quella stagione moralizzatrice prese vita, pur limitandosi a perseguire le corruttele nazionali e non a fare luce sui fiumi di rubli e dollari che pure attraversavano, da est ad ovest, il Vecchio Continente. Fiume che peraltro continuò a scorrere per il Pci anche dopo Tangentopoli, sgorgando da ciò che rimaneva dell’Unione Sovietica e fino alla fine di quel sistema a Mosca. Non amo le teorie che richiamano complotti, le tesi che affacciano ipotesi fantasiose quanto insinuanti, armamentario molto spesso utilizzato dai partiti e dalla stampa di sinistra. Resto tuttavia in attesa che la storia chiarisca quello che non si è saputo né voluto finora accertare in sede giudiziaria. Nel frattempo ci dovremmo preoccupare se quelle ingerenze esterne, anche sotto altra forma che non sia il vil denaro, possano essere ancora praticate in talune circostanze. Ad esempio se determinati apparati paralleli, i potenti centri di ascolto e di intercettazione militari, i servizi segreti, la stampa internazionale, la diplomazia sotterranea, non possano di nuovo operare per destabilizzare il nostro Paese, nel momento in cui certe scelte ed azioni di governo arrivino a dar fastidio ai grandi poteri politici ed economici internazionali. Se, insomma, nel gioco delle parti, non si possa configurare una forma di destabilizzazione della politica. Un chiaro esempio, in tal senso, viene da un articolo del New York Times che attacca ferocemente l’esecutivo di Giorgia Meloni reo, a dire di quel foglio americano, di voler indebolire la legislazione anti-tortura, di aver asservito la Rai alla propria propaganda, di star lavorando per determinare un blocco di potere in grado di emarginare le forze di opposizione. Per dirla in altre parole, il solito vecchio allarme lanciato contro lo stereotipo, ormai stantio, di un fascismo incipiente, realizzato però con i “guanti bianchi” ed in gonnella. Perché un giornale così prestigioso sforna tante supposizioni campate sulle illazioni se non sul nulla? Saranno l’attivismo internazionale della Meloni e il piglio non subalterno della premier nel trattare gli affari e gli interessi italiani nel mondo a dare fastidio all’establishment statunitense? Sarà l’ascolto che ella ottiene? Sia come sia, è il vecchio vizietto a “stelle e strisce” di preferire i subalterni ai partner che torna a fare capolino. Deja vu!! Prima di Giorgia, gli States lo fecero con leader del calibro di Giulio Andreotti e Bettino Craxi, quando alzarono la testa. E tanto basta per mettersi in guardia.

*già parlamentare

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