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La lezione dei liberali di ieri e l’indifferenza degli illiberali di oggi
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La lezione dei liberali di ieri e l’indifferenza degli illiberali di oggi
di Donatella Stasio La Stampa, 7 ottobre 2023
Calamandrei metteva in guardia dall’invadenza della politica sulle sentenze e l’indipendenza dei giudici. Ora spuntano schedature di magistrati non allineati alla cultura delle destre e la nostra democrazia regredisce. Ci sono i liberali di oggi, imperturbabili di fronte a quel che sembra un “dossieraggio” sui magistrati (e non solo), usato dal vicepremier Matteo Salvini per spiarne le idee e magari i gusti nel vestire, come all’epoca di Berlusconi, e che si sentono invece minacciati dalle toghe “politicizzate”, ma solo se sono “rosse”. Ci sono invece i liberali di una volta, come Piero Calamandrei, che mettevano in guardia dall’incidenza del clima politico sulle decisioni dei giudici e sulla loro indipendenza, soprattutto quando “circolano liste di proscrizione contro magistrati sospetti di criptocomunismo”, e che avvertivano: “Quando nell’aria si respira il disfattismo costituzionale”, è più difficile che i giudici “riescano ad assumere su di sé il compito faticoso, e spesso pericoloso, di difendere la Costituzione contro gli arbitrii del governo”.
Ci sono i liberali di oggi, quelli che considerano un normale “commento” il tweet a caldo della presidente del Consiglio Meloni (dunque urbi et orbi), in cui non si limita a dirsi “basita per la sentenza del giudice di Catania” ma, con toni da assetto di guerra sostiene che quella decisione “si scaglia contro i provvedimenti di un governo democraticamente eletto” e annuncia: “Continueremo a fare quel che va fatto per difendere la legalità e i confini dello stato italiano. Senza paura”. E ci sono, invece, i liberali di una volta, che denunciavano il pericolo del “conformismo giudiziario, dell’indifferenza burocratica e della irresponsabilità anonima” del giudice; spiegavano che la sentenza “non è il prodotto di un’operazione aritmetica ma la conclusione di una scelta morale”; e ricordavano che il giudice deve essere indipendente, “solo con la propria coscienza”.
Si potrebbe continuare per misurare la distanza siderale tra i liberali di ieri e di oggi, non più argine politico e culturale all’esondazione dei poteri delle destre di governo rispetto ai giudici e, in generale, agli organi di garanzia. Non c’è bisogno di avere le squadracce lungo le strade per essere preoccupati; come se non bastasse quanto è già acceduto, ecco di nuovo spuntare schedature di giudici e di molti altri non allineati con la cultura delle destre. È capitato a tanti colleghi, ad esempio, e anche a me, qualche anno fa, e capiterà ancora se continua questa sorta di accondiscendenza verso la cultura illiberale che sta essiccando la nostra democrazia costituzionale. La parola d’ordine sembra essere: minimizzare la reazione del governo. Oppure accusare i giudici di fare politica come ai tempi di Mani pulite, un refrain stanco e vuoto, ma gravemente delegittimante, che non è utile nemmeno a una pur necessaria riflessioni critica su quegli anni ma solo a confondere i cittadini, facendo regredire, piano piano, la nostra democrazia nell’indifferenza generale. Che distanza dalle piazze di Israele, che per mesi si sono riempite contro la riforma della giustizia del governo Netanyahu e a difesa della Corte suprema! Le piazze non si sono riempite, invece, né in Polonia né in Ungheria, i paesi amici della nostra destra, dove i “governi democraticamente eletti”, come li chiama Meloni, hanno eroso indisturbati lo stato di diritto, proprio con l’attacco ai giudici, alle Corti e alla loro indipendenza.
Alla giudice di Catania si contesta di non essere stata imparziale. E la prova regina starebbe in un video spuntato ora, che la ritrae, seppure silente e vigile, in una manifestazione del 2018 per far sbarcare i migranti a bordo della nave Diciotti. L’imparzialità del giudice è un valore fondamentale da rispettare sempre, e non in modo formalistico. Bisogna essere, e apparire, imparziali, si raccomandava sempre Calamandrei. Proprio perché non esistono divieti che hanno a che fare, ad esempio, con la libertà di manifestazione del pensiero, spetta dunque al giudice valutare l’opportunità di alcuni suoi comportamenti. Ci vuole prudenza. Va pur detto, però, che nel terzo millennio, nella società in cui tutto finisce per essere pubblico, non si può pensare di chiudere in casa le persone e di trasformare l’imparzialità in una clava da brandire contro chi, paradossalmente, è più trasparente di altri nei comportamenti, peraltro legittimi, senza ipocrisie, consapevole che l’imparzialità, l’indipendenza e la terzietà sono un esercizio quotidiano di fronte alle vicende umane da giudicare.
Lo stesso Calamandrei ripeteva che il giudice deve essere un “uomo sociale”, immerso nella società e non chiuso in una torre d’avorio. Eppure, questi giudici vengono additati come “nemici” della nazione e della sicurezza, donne e uomini che vogliono mettere “paura” al governo “democraticamente eletto”. Parole obiettivamente improprie, toni bellicosi, ancora una volta incontrollati. E poiché è il tono che fa la musica, non ci si può non preoccupare di questi squilli di tromba. Per di più se poi, senza imbarazzi, si arruolano nel governo giudici di provata fede culturale, politica, religiosa, per svolgere incarichi di fiducia. Quale credibilità ha un governo che mette alla gogna la giudice di Catania, accusandola di non essere imparziale, ma che ha nei suoi ranghi, come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, un giudice di Cassazione con alle spalle anni di militanza politico-parlamentare nelle file di Alleanza nazionale? Nonostante questa fortissima identità politica, quel giudice è stato rispettato nella sua imparzialità, e giustamente, fino a prova contraria. Non è stato messo alla gogna. È il bello della democrazia costituzionale. Ma deve valere per tutti. “La democrazia è un impegno – diceva Calamandrei -. Noi non sappiamo che farcene dei giudici di Montesquieu, esseri inanimati fatti di pura logica. Vogliamo i giudici con l’anima, giudici impegnati, che sappiano portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia”.
Nel vuoto di cultura che sta soffocando il nostro paese, le parole di vecchi liberali come Calamandrei sono ossigeno. E così quelle di tanti altri “vecchi” che hanno fatto la storia politica, culturale e istituzionale dell’Italia. Per esempio le parole di un grande socialista, “Il combattente” lo chiama Giancarlo De Cataldo nel suo bel libro uscito per Rizzoli nel 2014, con il sottotitolo “come si diventa Pertini”, forse il presidente della Repubblica più amato dagli italiani. Nell’estate del 1984, ai vincitori del concorso in magistratura ricevuti come da prassi al Quirinale, Sandro Pertini diceva: “Non crediate di essere diventati chissà che cosa solo perché avete vinto un concorso. Vi attende un compito difficile. Siate estremamente attenti e rispettosi dell’uomo, della sua dignità. Si può e si deve rispondere sempre alla propria coscienza. Siate giudici immersi nella realtà. Non togliete mai a un uomo, anche al peggiore, la sua dignità. Io ho conosciuto la galera. E nella galera, persone eccezionali, di gran lunga migliori di quelle che ce le avevano spedite. Ricordate: c’è sempre un giudice a Roma”. E anche a Catania.