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UNA PAROLA AL GIORNO: Scerbare scer-bà-re (io scèr-bo) SIGNIFICATO Togliere le erbacce, specie a mano
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ETIMOLOGIA dal latino exherbare ‘togliere via le erbe’, derivato di herbare, da hĕrba ‘erba’, con prefisso ex-.
«Sto scerbando tutte le bordure, voglio riseminare.»
La continuità è uno dei tratti più stupefacenti che possiamo trovare in una parola. Splendidi i complessi significati forgiati in termini aulici, meravigliosi i recuperi a distanza di secoli da lingue trapassate, carismatici i prestiti prestigiosi fra lingue correnti. Ma quando ci accorgiamo che una parola, con la mera alterazione di usura e restauro, è passata di bocca in bocca senza soluzione di continuità in un’esperienza plurimillenaria (magari trascurata dalla lingua nazionale e dalla letteratura), l’impatto è sempre forte. Ed è un’esperienza culturale a cui si deve fare grande attenzione — specie in Italia, luogo dal passato così ipertrofico — perché è parte del modo in cui passato e presente sono compresenti.
‘Scerbare’ ha un significato semplice: togliere le erbacce, liberare le coltivazioni dalle infestanti. Deriva direttamente dal latino exherbare, un ‘togliere via le erbe’, che ribalta l’herbare, un ‘essere, diventare erboso’ con il prefisso ex-, nel senso di ‘fuori’. Più precisamente è un togliere le erbacce a mano, o al massimo sarchiando (cioè grattando il terreno in superficie).
Certo che però quando si parla di togliere erbe però abbiamo un altro verbo simile e molto più potente, no?
Il diserbare. Il diserbare ha il prefisso dis-. Dis- è un prefisso separativo molto serio, che nel diserbare ci dà subito l’idea di una portata agronomica dell’azione — una prospettiva d’azione scientifica, che infatti ci rimanda con la mente a prodotti specifici, diserbanti. Difatti ‘diserbare’ è un verbo costruito ai tempi dell’Illuminismo (le prime attestazioni, per dire, sono dei corsi di agricoltura di Marco Lastri, fra fine Settecento e inizio Ottocento). Lo scerbare invece, a dispetto della sua continuità e della sua particolare forza nell’alveo popolare toscano, ha destato poco interesse fino alle porte del Novecento — quando se ne capisce la forza peculiare. Tant’è che per buona parte del secolo se la gioca col diserbare.
La dimensione di pazienza e anche di fatica che dà a quest’azione, la rusticità del suono la distinguono con forza dal diserbare — ancor più nella nostra esperienza diretta. Diserbo il viottolo d’ingresso col minor sforzo possibile, ma il tempo che passo a scerbare i filari dell’orticello è tempo meditativo; è momento di cura ricco di prospettiva quello che passo a scerbare l’aiuola, lasciando le spontanee armoniose e togliendo il resto — mentre se diserbo faccio il deserto.
C’è un discernimento evidente, nello scerbare, che non ha il carattere impositivo calato dall’alto del diserbare — è più, come dire?, sul campo. E forse, anche se è un verbo in recente disgrazia, anche se non ha maturato usi figurati, è un verbo d’esperienza che circostanzia il come in alto, così in basso dell’antica tradizione ermetica. Trascegliere le erbacce fuori rispecchia un trascegliere quelle dentro.
Certo la prospettiva è un po’ più leziosa, rispetto a quella del lavoro contadino, ma c’è un motivo se la coltivazione di un giardinetto e di un orticello sono diventate aspirazioni comuni.
La continuità è uno dei tratti più stupefacenti che possiamo trovare in una parola. Splendidi i complessi significati forgiati in termini aulici, meravigliosi i recuperi a distanza di secoli da lingue trapassate, carismatici i prestiti prestigiosi fra lingue correnti. Ma quando ci accorgiamo che una parola, con la mera alterazione di usura e restauro, è passata di bocca in bocca senza soluzione di continuità in un’esperienza plurimillenaria (magari trascurata dalla lingua nazionale e dalla letteratura), l’impatto è sempre forte. Ed è un’esperienza culturale a cui si deve fare grande attenzione — specie in Italia, luogo dal passato così ipertrofico — perché è parte del modo in cui passato e presente sono compresenti.
‘Scerbare’ ha un significato semplice: togliere le erbacce, liberare le coltivazioni dalle infestanti. Deriva direttamente dal latino exherbare, un ‘togliere via le erbe’, che ribalta l’herbare, un ‘essere, diventare erboso’ con il prefisso ex-, nel senso di ‘fuori’. Più precisamente è un togliere le erbacce a mano, o al massimo sarchiando (cioè grattando il terreno in superficie).
Certo che però quando si parla di togliere erbe però abbiamo un altro verbo simile e molto più potente, no?
Il diserbare. Il diserbare ha il prefisso dis-. Dis- è un prefisso separativo molto serio, che nel diserbare ci dà subito l’idea di una portata agronomica dell’azione — una prospettiva d’azione scientifica, che infatti ci rimanda con la mente a prodotti specifici, diserbanti. Difatti ‘diserbare’ è un verbo costruito ai tempi dell’Illuminismo (le prime attestazioni, per dire, sono dei corsi di agricoltura di Marco Lastri, fra fine Settecento e inizio Ottocento). Lo scerbare invece, a dispetto della sua continuità e della sua particolare forza nell’alveo popolare toscano, ha destato poco interesse fino alle porte del Novecento — quando se ne capisce la forza peculiare. Tant’è che per buona parte del secolo se la gioca col diserbare.
La dimensione di pazienza e anche di fatica che dà a quest’azione, la rusticità del suono la distinguono con forza dal diserbare — ancor più nella nostra esperienza diretta. Diserbo il viottolo d’ingresso col minor sforzo possibile, ma il tempo che passo a scerbare i filari dell’orticello è tempo meditativo; è momento di cura ricco di prospettiva quello che passo a scerbare l’aiuola, lasciando le spontanee armoniose e togliendo il resto — mentre se diserbo faccio il deserto.
C’è un discernimento evidente, nello scerbare, che non ha il carattere impositivo calato dall’alto del diserbare — è più, come dire?, sul campo. E forse, anche se è un verbo in recente disgrazia, anche se non ha maturato usi figurati, è un verbo d’esperienza che circostanzia il come in alto, così in basso dell’antica tradizione ermetica. Trascegliere le erbacce fuori rispecchia un trascegliere quelle dentro.
Certo la prospettiva è un po’ più leziosa, rispetto a quella del lavoro contadino, ma c’è un motivo se la coltivazione di un giardinetto e di un orticello sono diventate aspirazioni comuni.