Erba di Gianluigi Nuzzi La Stampa

In fondo, è solo una questione di alleli, di quelle forme con cui un gene può presentarsi a livello cromosomico. Frammenti di Dna che possono decidere le sorti di un imputato per strage. Perché la verità su Erba si gioca soprattutto sulla scienza, aldilà delle nebulose suggestioni e verità monche che da anni vengono irradiate. Bisogna dunque tornare al giorno di Santo Stefano del 2006 a due settimane dalla strage di via Diaz, quando a tarda sera, il brigadiere Carlo Fadda su disposizione del suo comandante esegue «accertamenti tecnici urgenti» sull’utilitaria grigia Seat Arosa di Olindo Romano, posta sotto sequestro.

È un martedì, il giorno dopo Natale, Olindo alle 23 è lì con il sottufficiale nel garage della caserma dei carabinieri di Como. Fadda ha l’ordine di verificare se può isolare tracce o materiale biologico utili all’indagine. Innanzitutto, ispeziona l’auto a occhio nudo non rilevando nulla di particolare, ottenendo lo stesso risultato con le luci forensi che non evidenziano alcunché. Fadda procede quindi a un esame più approfondito alla ricerca di tracce allo stato latente che appunto le luci forensi non consentono di individuare. E questo spiega un presunto mistero che aleggia da anni e cioè perché le macchie non vennero viste né dai carabinieri durante la prima ispezione subito dopo la strage, né da Rosa e Olindo. Nessuno le notò perché semplicemente non si potevano apprezzare a occhio nudo.

Altra critica, Fadda dimentica di firmare il verbale prima di consegnarlo, alimentando retropensieri di ogni genere. Di certo è un errore ma per ipotizzare il dolo della frode processuale ci vuole ben altro. Anche perché Fadda, avendo poi confermato ogni parola da lui scritta quando venne sentito in aula, gli ultimi dubbi si azzerano: è noto che la prova si forma durante il dibattimento. Al contrario se avesse voluto accreditare dati falsi – come alcuni ipotizzano – avrebbe firmato malamente il verbale per poi riservarsi di confermarlo o disconoscerlo a tempo opportuno.

Ma torniamo sempre a Fadda che proseguì con la nebulizzazione del luminol e cioè disperdendo nell’abitacolo un composto chimico che reagisce all’emoglobina, sviluppando appunto la classica luce azzurro-bluastra visibile se l’ambiente è al buio. L’aspersione del luminol provocò quattro aree distinte: sulla portiera sinistra tra la maniglia e la griglia del diffusore sonoro, sulla maniglia che regola il sedile, sul battitacco del conducente e sulla porzione sinistra della seduta lato passeggero anteriore. Per repertare questi materiali Fadda prese della carta da filtro sterile – una specie di carta assorbente – con la quale tamponò le tracce, fece asciugare i quattro foglietti di carta per poi metterli in altrettante buste per chiuderle e indicare sulle stesse ogni specifico contenuto.

Il brigadiere avrebbe dovuto scattare le foto solo a conclusione della reazione del luminol ma non lo fece. Una scelta errata che però non incise né sulla qualità delle tracce stesse né sul tracciamento, la sequenza dell’operazione compiuta, tutta documentabile. E questo smonta altri dubbi. Il primo: c’è chi sosteneva che in assenza di foto delle tracce bisogna fare una sorta di “atto di fede” nei confronti del brigadiere, ma nei processi è stato ricostruito ogni passaggio e ritenuto vero e credibile. Altrimenti bisognerebbe sostenere che Fadda ha manomesso una delle prove regine senza però alcun elemento certo al riguardo. Si rischia cioè una significativa alterazione della prospettiva: si è colpevolisti con gli inquirenti che avrebbero ordito una falsa verità contro due disgraziati e si diventa innocentisti con i condannati, piallando ogni oggettivo elemento che, al contrario, ha portato all’ergastolo in ogni grado.

Altro punto: c’è chi osserva che la tamponatura delle tracce presenta le stesse assai grandi e quindi visibili a occhio nudo. Ma quelle impresse sulla carta da filtro sterile si presentano sempre maggiori rispetto alla realtà per l’effetto naturale di dilatazione compiuto dalla stessa tamponatura. Passano un paio di giorni e il venerdì successivo il pubblico ministero Massimo Astori manda l’appuntato Spagnolo dal dottor Carlo Previderé, genetista forense dell’Università di Pavia, con i quattro reperti chiusi in altrettanto missive. Costui le riceve, non solleva alcuna obiezione e dispone gli esami.

Purtroppo, delle quattro tracce soltanto una si rivela di natura ematica e quindi meritevole di essere sottoposta all’esame del Dna. E l’analisi attribuisce quel sangue a Valeria Cherubini, una delle vittime di via Diaz. Anche qui da più parti si è posto un dubbio sul lavoro di Previderè asserendo che se le tracce non sono evidenti, avranno dimensioni così ridotte da impedire l’estrazione del dna. Ma è un rilievo respinto dagli esperti del settore, medici e genetisti: si può ottenere parecchio Dna e quindi per giungere all’identificazione di un soggetto, anche da una piccola traccia di sangue che non si vede senza apparecchiature. Le difese di Rosa e Olindo e alcuni innocentisti hanno allora ventilato la possibilità che l’auto possa essere stata contaminata proprio dai carabinieri che erano prima intervenuti sulla scena del crimine ma il fondatore del Ris, il generale Luciano Garofano, a più riprese, anche di recente a Quartogrado, ha escluso ciò: «Coloro che nell’immediatezza operarono una perquisizione a carico dell’autovettura del Romano non si erano recati in quella località, così come è da escludersi che possano essere stati i due coniugi, il cui accesso a quell’area era loro inibita. Peraltro, se quel Dna fosse stato il risultato di una contaminazione, il profilo ottenuto dal dottor Previderé non sarebbe stato così netto ma avrebbe esibito la presenza di frammenti di Dna (alleli) appartenenti a tutte le vittime o avrebbe mostrato una quantità inidonea alle analisi genetiche, vista anche la diluizione operata dai vigili del Fuoco per spegnere l’incendio».

E invece proprio quegli alleli non c’erano, significa che l’attribuzione del Dna era chiara, priva d’interferenze. Quel sangue sull’auto di Olindo è della Cherubini. Il caso è chiuso. Anzi no, ora si riapre per richiudersi, da una parte o dall’altra, per sempre.

Gianluigi Nuzzi

Erba Libero

«Una delle consulenze che è stata depositata è a mia firma». La criminologa Roberta Bruzzone è una dei 57 consulenti di parte di Rosa Bazzi e Olindo Romano. È anche una che non molla, Bruzzone. Testarda (forse), determinata (sicuramente): sul caso della strage di Erba lavora dal 2009 e lo fa senza ricevere indietro un euro.

Dottoressa Bruzzone, c’è l’ok all’udienza di revisione del processo. Come ci siete riusciti?

«Abbiamo seriamente messo in discussione tutto. Dalla micro-traccia sul battitacco che a nostro modo di vedere è stata acquista con modalità non accettabili anche per l’epoca, alla testimonianza di Mario Frigerio resa in ospedale che è frutto di una rielaborazione successiva, fino all’impossibilità della signora Cherubini di gridare, col tipo di lesioni che aveva, e che invece è stata sentita chiedere aiuto sei o sette volte. Io mi sono occupata di mettere a confronto quello che i due coniugi hanno riferito nelle sgangherate confessioni con ciò che le tracce hanno restituito…».

…E?

«Emerge proprio una versione dei fatti priva del benché minimo riscontro. Mi creda, ognuno di noi ha lavorato su tanti aspetti.

Ci sono elementi testimoniali nuovi, ci sono delle piste nuove che abbiamo indicato, elementi in più. È chiaramente una lettura diversa di quella già esaminata. Abbiamo testimoni che dicono che dentro quella casa, quel giorno, non c’erano Rosa e Olindo ma qualcun altro».

Senta, lei ha iniziato a lavorare sulla strage di Erba quasi quindici anni fa… Cosa si ricorda di allora?

«Eravamo nel processo d’appello: dire che quei due non fossero stati sulla scena mi è costato veramente tantissimo».

In che senso?

«Sono stata aggredita in tutti i modi, trattata come cialtrona, mistificatrice. Me ne han dette di tutti i colori, hanno trattato tutto il collegio difensivo come dei banditi. Adesso posso dire che, evidentemente, i banditi non eravamo noi. Lo abbiamo fatto esclusivamente per amore di verità e giustizia: nessuno aveva voglia di buttarsi in una storia di questo tipo per motivi di notorietà o altro genere. L’abbiamo fatto anche mettendo in discussione la nostra reputazione professionale perché siamo convinti di aver scritto cose vere, sensate e scientificamente inattaccabili».

Ora?

«Non sarà una passeggiata di salute, la vera battaglia inizia adesso. Ma già aver passato il vaglio di ammissibilità ci dà molta energia nell’affrontare il resto».

Se si ribaltasse la sentenza saremmo davanti a un errore giudiziario enorme, un po’ come quello di Enzo Tortora…

«La fermo. Qui siamo oltre Tortora. Per il tipo di gravità dell’accusa, tanto per cominciare, e per la lettura totalmente distorta degli elementi probatori. Ma il problema grosso, laddove si arrivasse davvero a un ribaltamento, cosa che ci auguriamo, non è soltanto legato al sistema giudiziario in sé, bensì anche al modo in cui dovremmo ripensare il ruolo del consulente tecnico. Questo è un processo estremamente tecnico. Dovesse accadere il ribaltamento, avrebbe delle ripercussioni trasversali su qualsiasi aspetto del processo penale».

Però la procura di Milano, a luglio, ha dato parere negativo alla riapertura delle indagini. Cambia qualcosa questo con Brescia?

«Dal nostro lato non pregiudica nulla. A Milano è stato dato un parere negativo, è vero, ma l’istanza di revisione doveva essere trasmessa. Poi è arrivata la nostra e i giudici, adesso, serenamente, faranno le loro valutazioni in totale autonomia».

Lei si è convinta subito dell’innocenza di Rosa e Olindo?

«Guardi, chiariamo una cosa: il mio non è un convincimento dovuto a simpatie o antipatie. Quando mi hanno contattato per occuparmi del caso non volevo neanche prendere la consulenza. Ero convinta, a livello mediatico, che questi due fossero stra-colpevoli. Mi sono fatta convincere a dare un’occhiata alla scena e alle dichiarazioni. Sono partita da lì: e lì mi sono convinta che Rosa e Olindo non c’entravano niente con la strage».

A marzo cosa succederà?

«Torniamo a parlare di tutto quello che è stato depositato nell’istanza. È un processo, a tutti gli effetti».

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