di Valentina Stella

Il Dubbio, 15 gennaio 2024

Fughe di notizie, processi sui giornali prima di andare in aula, distrazione di massa usando nomi di terzi non indagati, norme che vengono aggirate: ne parliamo con Oliverio Mazza, Ordinario di Diritto processuale penale all’Università degli studi Milano.

Professore, l’altro giorno Repubblica ha pubblicato una intera informativa dei carabinieri che ha gettato un’ombra nera sulla figura di Mario Vanacore, 64 anni, figlio di Pietrino, portiere dello stabile di via Poma a Roma, dove il 7 agosto 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni, e suicidatosi il 9 marzo 2010, qualche giorno prima della sua testimonianza nel processo a carico dell’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, assolto definitivamente. Su circa 120 righe dell’articolo, solo dieci sono dedicate all’archiviazione, il resto è tutta la ricostruzione, ritenuta priva di fondatezza dalla pm, dell’omicidio della giovane ragazza da parte di Vanacore Junior che avrebbe prima tentato di abusare di lei e poi l’avrebbe uccisa. Non sappiamo ancora che sia stato violato il segreto istruttorio ma quanto nuoce questo tipo di racconto alle persone coinvolte? Molto probabilmente la posizione di Vanacore verrà archiviata ma nella mente del lettore rimarrà la narrazione dei carabinieri e quel terribile dubbio…

Siamo arrivati alla versione grottesca del “non processo” mediatico. Un processo abortito dalla richiesta di archiviazione si trasforma in un atto d’accusa mosso direttamente dalla polizia giudiziaria che non potrà mai essere emendato dalle decisioni dei magistrati. Non siamo in uno Stato di polizia e non è ammissibile che la stampa valorizzi i meri sospetti contenuti in una informativa dei Carabinieri che lo stesso pm ha evidentemente ritenuto congetturale e priva di fondamento. Il “non processo” mediatico mi ricorda i tè del cappellaio matto, un “non sense” che non potrà mai trovare nemmeno parziale compensazione dall’esito favorevole all’imputato del processo reale.

Qualche giorno prima La Verità, rispetto all’inchiesta Anas-Verdini Junior, aveva pubblicato alcune intercettazioni in cui si faceva riferimento ad una consulenza effettuata dal figlio, completamente estraneo all’inchiesta, del presidente della Repubblica Mattarella. Quel nome non si trova né nell’ordinanza né nella richiesta del pm. Non crede che si sia superato il limite, usando un nome importante per sviare dall’inchiesta?

La strumentalizzazione del nome altisonante è tipica di una stampa scandalistica e sensazionalistica che nulla ha a che vedere con il diritto di informare e di essere informati. Siamo dinnanzi a condotte puramente illecite che non trovano alcuna giustificazione e come tali andrebbero sanzionate. Andrebbe introdotto anche nel nostro Paese il modello dell’azione legale intrapresa dal principe Harry nei confronti dei tabloid britannici. Per una reale deterrenza basterebbe una sentenza pilota ed esemplare, di condanna a un risarcimento milionario o a serie misure interdittive per le testate giornalistiche.

Professore è chiaro che spesso, nonostante ci siano delle norme, assistiamo a delle fughe di notizie, soprattutto forse da parte della polizia giudiziaria. Come si può arginare il fenomeno?

Paradossalmente l’argine più forte sarebbe la legittima disponibilità degli atti che, tra l’altro, otterrebbe il risultato di spezzare il circolo vizioso fra inquirenti e giornalisti e porrebbe questi ultimi in condizioni di parità nell’accesso alle informazioni giudiziarie. Tuttavia, temo che non sia ancora maturata una cultura del processo e della presunzione d’innocenza tale da consentire questa soluzione. Rimanendo nell’attuale sistema, la sanzione per la rivelazione del segreto d’ufficio c’è, ma i responsabili di questo delitto sono destinati a rimanere sistematicamente ignoti fin quando le indagini verranno svolte dagli stessi uffici di procura da cui sono fuoriuscite le notizie. La pubblicazione arbitraria configura, invece, una contravvenzione risibile, oblabile con un centinaio di euro, e non è un caso. Questo reato ha sempre un autore noto, ma non lo si vuole punire. Un legislatore che volesse seriamente contrastare il fenomeno dovrebbe prevedere che la competenza investigativa sulla rivelazione del segreto d’indagine sia attribuita al PM di un diverso distretto, mentre la pubblicazione arbitraria dovrebbe essere sanzionata con pene pecuniarie rapportate al bilancio della testata giornalistica e, nei casi di recidiva, con l’interdizione temporanea dall’attività imprenditoriale.

Secondo lei il combinato disposto tra la legge di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza e l’emendamento Costa riusciranno a mantenere in equilibrio il diritto all’informazione con quello del rispetto del diritto degli indagati? Dove si ferma il primo diritto e dove inizia l’altro?

Temo di no, il divieto di pubblicazione testuale dell’ordinanza cautelare è misura insufficiente e, forse, controproducente, nel senso che i contenuti reinterpretati dai giornalisti potrebbero essere addirittura peggiori del testo del provvedimento. È come guardare il dito e non vedere la luna. Il problema non è la pubblicazione, ma l’atto, ossia l’immoralità insita nel privare della libertà personale un presunto innocente. Anche per i giornalisti sarebbe quasi impossibile convincere l’opinione pubblica che la custodia cautelare non sia un’anticipazione della pena, è un concetto contro-intuitivo consentire tale forma di coercizione per finalità processuali diverse dalla punizione. Il problema, dunque, sta a monte ed è la mancanza di una vera cultura delle garanzie tanto nella magistratura quanto nel legislatore. L’abuso della custodia cautelare si può fronteggiare solo con scelte radicali, diverse dalla inutile politica degli aggettivi e degli avverbi finora seguita. Bisogna confinare le misure coercitive nei soli casi eccezionali in cui l’imputato abbia dimostrato, con il suo comportamento in costanza del procedimento, il concreto e attuale pericolo di violenze. Solo un rigoroso sbarramento all’applicazione della custodia cautelare sarebbe in grado di dare un preciso significato alla presunzione di non colpevolezza.

Il dottor Eugenio Albamonte sostiene che molto spesso sono anche gli avvocati a passare le carte ai giornalisti per distrarli dal nome del proprio assistito e offrirgli qualcosa di più succulento. Ammettiamolo, avviene anche questo. Allora, al di là delle norme che spesso vengono aggirate, occorre solo una operazione culturale collettiva per arginare la gogna mediatica e auspicare che l’interesse ricada sul processo dove si forma la prova e non sulle indagini?

Mi sembra difficile anche solo ipotizzare una violazione del segreto investigativo da parte di un avvocato, in quanto la segretezza viene meno proprio quando gli atti di indagine sono conosciuti dalla difesa, e una volta caduta la segretezza interna tali atti divengono pubblicabili, quantomeno nel loro contenuto. Ma se ciò accadesse, pensiamo alla divulgazione di un atto noto alla difesa e segretato dal pm, sono convinto che la motivazione dell’avvocato sarebbe ben diversa, agirebbe solo nell’interesse del suo assistito e non certo per ingraziarsi i giornalisti o per dare lustro alla sua persona. Non dobbiamo, quindi, confondere le situazioni: un conto è la gogna mediatica indotta, ammettiamolo, dai comportamenti degli inquirenti, un conto sarebbe la legittima difesa di chi cercasse di ottenere un riequilibrio dell’informazione a favore