*La resa dei conti* editoriale

di Vincenzo D’Anna*

L’Italia può menare vanto di una lunga serie di fatti e circostanze che sono e restano tipicamente “nostrani”. Anche sotto il profilo semantico possiamo contare su esclusive divenute, nel tempo, linguaggio corrente. Parole come “mafia”, “impresentabili”, “questione morale”, ecc. ecc., sono entrate nel linguaggio comune assurgendo, grazie al lavoro dei media, a paradigma caratteristico di determinati momenti storici, politici e sociali. Veri e propri vocaboli guida, insomma, che, in una ricerca postuma, possono essere in grado di indirizzare il ricercatore verso fatti ed eventi ben determinati della vita della nazione. Si comincia con gli anni Novanta del secolo scorso allorquando scoppia lo scandalo di Tangentopoli, che si accompagna all’uso corrente di determinati neologismi, in parte mutuati da linguaggio tecnico giuridico ed in parte coniati dalla stessa stampa: tintinnio di manette, gogna mediatico giudiziaria, carcerazione preventiva, rito ambrosiano, concorso esterno in associazione. Queste parole diventano una specie di “lessico familiare” che si diffonde a poco a poco trasformandosi in un’arma contundente che finisce per abbattersi sulle spalle dei malcapitati ritrovatisi, loro malgrado, travolti dall’inchiesta di turno. Comincia in questo modo, per certi versi induttivo, il diffondersi di categorie di pensiero che annientano quanti ad esse vengono accostate. Prima di ogni altro giudizio, espresso nelle sedi proprie in cui si esercita la giurisdizione (con le garanzie costituzionali spettanti agli indagati), in barba al principio della presunzione di innocenza, si forma un vero e proprio pre-giudizio nei confronti dell’indagato. La narrazione dei fatti, la prospettazione che ne fa la stampa con l’uso di quegli stessi termini, trasforma, in altre parole, il processato in “reo a prescindere” costringendolo, così facendo, a scontare un anticipo della pena davanti alla pubblica opinione prima ancora che se ne decreti la colpevolezza o l’innocenza. Insomma: tutto fa brodo nel calderone della costante e perpetua critica scandalistica: dalle insinuazioni fino alla pubblicazione di veline che pure sarebbero coperte dal segreto istruttorio e che invece fanno la fortuna di determinati fogli e giornalisti. Se ci aggiungiamo che in molti casi è manifesto lo scopo perseguito da certi media politicizzati di delegittimare, screditare e, in ogni caso, “mascariare” l’avversario politico, ben si comprende come certe redazioni diventino le aule in cui si svolgono processi sommari dagli esiti prevedibili. Nasce in questo clima un’oggettiva reciprocità di interessi e di scopi tra taluni cronisti e determinati ambiti della magistratura inquirente. Il giudice diventa famoso ed in alcuni casi veste i panni dell’eroico difensore se non il depositario assoluta della pubblica morale: una specie di superman con la toga, che può travalicare anche le norme di garanzia essendo spinto dal consenso popolare a ricercare i colpevoli!! Più è grande lo scandalo, più altisonanti sono i nomi che vanno in pasto alla pubblica opinione, più notorietà e merito gli saranno ascritti. Al giudice ma anche a quel foglio di stampa che gli avrà fatto da megafono!! Si materializzano così le conferenze stampa degli inquirenti, organizzate nell’immediatezza dell’emissione di provvedimenti giudiziari a carico di soggetti noti oppure legati a centri di potere politico ed imprenditoriale. Ai media viene propinata, come verità, la tesi accusatoria dei pubblici ministeri accompagnata spesso da provvedimenti di carcerazione preventiva talvolta basati su delazioni di pentiti prive di riscontro e gestite, per le premialità da garantire al collaboratore di giustizia, direttamente dall’accusa!! Un ribaltamento bello e buono del basilare principio giuridico che obbliga chi punta il dito a dimostrare la fondatezza dei propri teoremi e che, in questo caso, si rovescia come onere direttamente sull’indagato, costringendolo a fornire la prova negativa di quanto viene asserito contro di lui. Per dirla con altre parole: siamo alla spettacolarizzazione senza filtri e cautele, di eventi giudiziari ancora ben lontani da una prima concreta verifica processuale. Per capirci: le ordinanze di custodia emesse dai pm, vengono sbattute in prima pagina, sbandierate come verità assolute in una gara di ostentazione della geometrica potenza delle procure!! Morale della favola: finiscono nel fango anche persone intercettate ed estranee alle fattispecie penali. Tutto, insomma, deve contribuire ad alzare toni e scandali in nome di un fantomatico diritto di cronaca che non conosce né verifica preventiva, né cautela, né rispetto alcuno. Ora, è notizia di questi giorni, il governo si appresta a proibire le pubblicazioni integrali di quelle ordinanze per tutelare tutti. Sissignore, tutti! Anche chi avrebbe l’obbligo di rispettare sia la notizia che i cittadini coinvolti. Si grida allo scandalo ovviamente. Ma si tratta solo di una “resa dei conti” per gazzettieri, politicanti e magistrati a caccia di consenso e notorietà.

*già parlamentare