*I nichilisti del terzo millennio*
di Vincenzo D’Anna*
Uno dei limiti che si rinfacciano al liberalismo è quello del relativismo etico, ossia la libertà concepita in senso assoluto, quella cioè che libera l’uomo e la società dai vincoli della morale in quanto figlia dei tempi e come tale soggetta al cambiamento perpetuo. In estrema sintesi: le conquiste scientifiche, le maggiori conoscenze del creato, lo sviluppo tecnologico incipiente determinerebbero una continua modifica della scala dei valori che orienta il nostro mondo liberandolo sia dai dogmi della fede, sia dalle cosiddette verità assolute ed immutabili. Un umanesimo in perpetuo divenire, per dirla con altre parole. Un progredire senza sosta verso la frontiera dell’ignoto, metamorfosi esistenziale che rifiuta le certezze etiche e comportamentali dei singoli individui. Insomma: è l’uomo indotto a credersi Dio, a credere di avere nelle mani le chiavi della natura nonché della sua stessa vita – dal concepimento alla morte – senza doversi porre limiti, riflessioni e cautele. Procurasi la morte a piacimento, selezionare e scartare embrioni, impiantarli in uteri artificiali; produrre organi e tessuti, tagliare e ricucire il DNA a proprio piacimento; progettare organismi viventi con l’ausilio di tecniche che sfruttino anche l’intelligenza artificiale; indagare sulle origini, dimensioni e leggi che governano l’immenso universo, rappresentano i presupposti di questa ambizione sfrenata. Un essere umano autoctono, ovvero generato da se stesso, che denega ogni creazione se non quella che promana dalle leggi chimico-fisiche e matematiche, non può che trascinare l’umanità verso il nichilismo reale. Quest’ultimo inteso come convincimento della nullità dei valori eternati, delle credenze religiose e della verità pregressa, per poter far posto a nuovi valori e credenze. La conquista dello spazio e degli astri più prossimi alla terra, l’osservazione di lati oscuri del cielo, con mezzi sempre più potenti, ci illude ed al tempo stesso ci sgomenta innanzi alla vastità incommensurabile della realtà dell’universo. E tuttavia per l’uomo sono più momenti di esaltazione della propria potenza che quelli del timore di poter incorrere nella fatale presunzione che porta a sostituire il Dio creatore con le teorie astrofisiche del “Big Bang”, elevando il poco che conosciamo a certa cognizione del tutto. Discorsi, quelli appena accennati, nati forse solo dalla speculazione e dal ragionamento filosofico? Nossignore! Solo una semplice evidenza di dove ci stanno portando la libertà senza responsabilità, la potenza della tecnica e la dipendenza dalla medesima, l’abiura della fede sotto forma di apostasia verso il credo nella scienza e nella tecnica, nella possibilità che non vi sia più nulla oltre la vita. I social network e la telematica a portata di mano per chiunque pensi di avere cose da dire senza però avere cognizioni di causa, hanno disvelato una società dedita alla venalità ed al potere del materiale sullo spirituale: siamo alla decadenza dei costumi ed alla ristrettezza dei saperi presenti su vasta scala. C’è però tanta gente in giro, avveduta ed istruita, che si lamenta ponendosi però solo generiche domande. Quesiti epidermici sul degrado morale, sull’impoverimento culturale, sulle mode strampalate, sulla violenza preponderante in ogni contesto sociale e professionale. Costoro sono tutti dei “laudator temporis acti”, vale a dire dei lodatori dei tempi passati, vecchi nostalgici, ottusi conservatori, retrogradi che non sono al passo dei tempi? Oppure sono parte di una società che ne ha le scatole piene di tanto squallore, dell’avventurismo sociale, dell’inurbanità diffusa, dell’elevazione dell’avere al posto dell’essere, di chi vuole credere nel trascendente, non solo per fede ma anche per la constatazione che senza un altro fine e scopo della vita essa sia solo una grande delusione. Non credo che queste riflessioni siano assimilabili alle classiche paturnie di un anziano, alla scontrosa e supponente ritrosia nel volersi aprire alle novità sociali, al non volersi rassegnare ad essere gente che evita di lasciarsi spogliare di quello in cui crede e spera in quello che ha imparato in tutta la vita. Hanna Arendt affermava che la società educata dalla televisione, ritenuta al passo con i tempi, non chiede di poter pensare e conoscere ma solo di potersi svagare. Seppur io creda che la forza della parola, oppure di uno scritto, non valgano a cambiare le cose di tutti, penso tuttavia che siano capaci di confortare le certezze dei pochi. E seppure queste certezze fossero limitate ad un ristretto novero di individui non ne cambierebbe sicuramente il valore. Quando si muore si muore da soli e la vita, dice Eduardo de Filippo, è fatta di storie diverse che hanno una stessa chiusa, un unico finale rappresentato dall’ineluttabilità della morte. Questa parola, temuta ed esorcizzata da coloro che rinunciando a pensare ed a comprendere l’esistenza di orizzonti di prospettiva molto più vasti e trascendenti, spaventa l’uomo tecnologico senza mitigarne la presunzione. Albert Camus, nel mito di Sisifo, ci istruisce sull’impossibilità che la vita, tanto breve, possa aver la pretesa di essere esauriente. Ed a cosa sarebbe servita quella vita se dopo la morte non c’è niente altro da attendere? Se non un’inutile beffa.
*già parlamentare