Stragi, delitti, mafie e canari: è Nera la musa degli scrittori
FENOMENI – Da “Rosy” a “Yara”, da Erba al Circeo, la narrativa rilancia il non-fiction novel, il romanzo ispirato alla cronaca efferata, sulle tracce del maestro Capote (e di Saviano)
Il cambio di prospettiva è che a guadagnare dignità letteraria sono ora alcuni tra i più celebri fatti di sangue della cronaca recente. Sebbene già logorati dai media, sono raccontati di nuovo nell’ambizione di illuminare quei dettagli utili a reinterpretarli. Modello subliminale è forse Gomorra di Roberto Saviano perché chi scrive si qualifica nella doppia veste di romanziere e di testimone, di soggetto e di oggetto della narrazione. Nicola Lagioia è il primo di questo nostro circoscritto panorama a rinverdire il true crime con La città dei vivi (Einaudi, 2020). Nelle sue pagine è sviscerato l’efferato omicidio di Luca Varani, torturato a Roma nel 2016 da due trentenni intossicati da alcol e droga. Un libro archetipico perché l’autore barese svela di essere stato anni prima anch’egli a un passo dal commettere un delitto gratuito. Christian Raimo e Alessandro Coltré riapprodano nella Colleferro del 2020, cittadina nella quale il ventenne Willy Monteiro resta vittima di un brutale pestaggio da parte dei fratelli Bianchi, coetanei coatti e spacciatori. Willy. Una storia di ragazzi, uscito lo scorso anno per Rizzoli, smonta il mito della mala movida e mostra quanto una periferia non più operaia, allentata la coesione sociale, diventi terra di nessuno e dunque di intolleranza.
In una periferia lombarda si consuma invece nel 2006 la cosiddetta strage di Erba. Lo spazzino Olindo Romano e la domestica Rosa Bazzi vengono imputati di avere ucciso quattro vicini di casa. Rosy di Alessandra Carati, fresco di stampa per Mondadori, racconta la donna nelle sue fragilità psichiche: il disprezzo degli anziani genitori, il rapporto morboso con il marito, il ritardo mentale che le inibisce lucidità ed eloquio, gli anni di detenzione passati a ferirsi per reclamare attenzione. L’autrice nel corso dei suoi incontri con Rosa comprende che le incongruenze della vicenda processuale coincidono con l’impossibilità di brandire un santino del male: “Stavo dall’altra parte della barricata e mi sentivo superiore, anzi, in salvo, perché scampata al suo destino. E non intendo il carcere, la condanna, intendo l’ignoranza, la povertà, la solitudine”. Giuseppe Genna si finge testimone sul campo per trascinare i propri lettori in un concorso di colpa. Yara, uscito pochi mesi fa per Bompiani, è centrato sulla tredicenne Yara Gambirasio, “il sorriso con l’apparecchio”, ritrovata assassinata nel febbraio 2011 a distanza di tre mesi dalla sua scomparsa a Brembate. Lo scrittore milanese ricostruisce “la caccia al Dna più vasta e profonda dell’intera storia investigativa mondiale” fino all’arresto del muratore Massimo Bossetti. Ma il suo movente, consapevole che “non esiste droga migliore della realtà”, è dimostrare – tra gli estremi della morte di Yara e della morte dei contagiati di Covid in quello stesso lembo di territorio bergamasco – che la nostra eterna postura di telespettatori ha assorbito pietà e senso dell’orrore. La tragedia è anestetizzata per sempre in un’Italia dove “la massaia italiana ha il suo gusto nel crimine, la sua enigmistica prediletta si esercita sui morti altrui, il suo cruciverba puzza di cadavere e di stufato”.