LIBRI

Stragi, delitti, mafie e canari: è Nera la musa degli scrittori

FENOMENI – Da “Rosy” a “Yara”, da Erba al Circeo, la narrativa rilancia il non-fiction novel, il romanzo ispirato alla cronaca efferata, sulle tracce del maestro Capote (e di Saviano)

DI CROCIFISSO DENTELLO
19 MARZO 2024
Ultime all’appello Silvia Avallone e Chiara Valerio. La prima con Cuore nero (Rizzoli) segue le vicende di una trentenne che tenta di riscattarsi dopo un omicidio commesso da adolescente. La seconda con Chi dice e chi tace (Sellerio) si converte al romanzo di genere per raccontare la morte misteriosa di una donna in un microcosmo di provincia. Due nuovi “delitti di carta” che si aggiungono idealmente alla già nutrita famiglia dei gialli di ieri e di oggi.Se l’immaginario è plagiato dalla fiction, è altrettanto vero che è alimentato da quella cronaca nera, per dirla con Buzzati, “straordinario specchio dell’Italia”. La novità più rilevante è che a fagocitare sulla pagina i crimini “mediatici”, avvitati sulla disfida tra colpevolisti e innocentisti, è sempre più la narrativa d’autore. Del resto la genealogia contempla un classico seminale del non-fiction novel come A sangue freddo di Truman Capote (1966), che ricostruisce lo sterminio di una famiglia del Kansas negli anni 50. Sul fronte di casa nostra un censimento, sia pure parziale, annovera Giancarlo De Cataldo con Romanzo criminale sulla banda della Magliana; Paolo Sortino con Elisabeth sul padre austriaco che sequestrò la figlia in un bunker; Andrea Tarabbia con Il giardino delle mosche sul serial killer sovietico Andrei Cikatilo; Vincenzo Cerami che in Fattacci torna sulla “vendetta del canaro” nella Roma anni 80; Edoardo Albinati con il romanzo premio Strega La scuola cattolica che riesuma il delitto del Circeo del 1975.

Il cambio di prospettiva è che a guadagnare dignità letteraria sono ora alcuni tra i più celebri fatti di sangue della cronaca recente. Sebbene già logorati dai media, sono raccontati di nuovo nell’ambizione di illuminare quei dettagli utili a reinterpretarli. Modello subliminale è forse Gomorra di Roberto Saviano perché chi scrive si qualifica nella doppia veste di romanziere e di testimone, di soggetto e di oggetto della narrazione. Nicola Lagioia è il primo di questo nostro circoscritto panorama a rinverdire il true crime con La città dei vivi (Einaudi, 2020). Nelle sue pagine è sviscerato l’efferato omicidio di Luca Varani, torturato a Roma nel 2016 da due trentenni intossicati da alcol e droga. Un libro archetipico perché l’autore barese svela di essere stato anni prima anch’egli a un passo dal commettere un delitto gratuito. Christian Raimo e Alessandro Coltré riapprodano nella Colleferro del 2020, cittadina nella quale il ventenne Willy Monteiro resta vittima di un brutale pestaggio da parte dei fratelli Bianchi, coetanei coatti e spacciatori. Willy. Una storia di ragazzi, uscito lo scorso anno per Rizzoli, smonta il mito della mala movida e mostra quanto una periferia non più operaia, allentata la coesione sociale, diventi terra di nessuno e dunque di intolleranza.

In una periferia lombarda si consuma invece nel 2006 la cosiddetta strage di Erba. Lo spazzino Olindo Romano e la domestica Rosa Bazzi vengono imputati di avere ucciso quattro vicini di casa. Rosy di Alessandra Carati, fresco di stampa per Mondadori, racconta la donna nelle sue fragilità psichiche: il disprezzo degli anziani genitori, il rapporto morboso con il marito, il ritardo mentale che le inibisce lucidità ed eloquio, gli anni di detenzione passati a ferirsi per reclamare attenzione. L’autrice nel corso dei suoi incontri con Rosa comprende che le incongruenze della vicenda processuale coincidono con l’impossibilità di brandire un santino del male: “Stavo dall’altra parte della barricata e mi sentivo superiore, anzi, in salvo, perché scampata al suo destino. E non intendo il carcere, la condanna, intendo l’ignoranza, la povertà, la solitudine”. Giuseppe Genna si finge testimone sul campo per trascinare i propri lettori in un concorso di colpa. Yara, uscito pochi mesi fa per Bompiani, è centrato sulla tredicenne Yara Gambirasio, “il sorriso con l’apparecchio”, ritrovata assassinata nel febbraio 2011 a distanza di tre mesi dalla sua scomparsa a Brembate. Lo scrittore milanese ricostruisce “la caccia al Dna più vasta e profonda dell’intera storia investigativa mondiale” fino all’arresto del muratore Massimo Bossetti. Ma il suo movente, consapevole che “non esiste droga migliore della realtà”, è dimostrare – tra gli estremi della morte di Yara e della morte dei contagiati di Covid in quello stesso lembo di territorio bergamasco – che la nostra eterna postura di telespettatori ha assorbito pietà e senso dell’orrore. La tragedia è anestetizzata per sempre in un’Italia dove “la massaia italiana ha il suo gusto nel crimine, la sua enigmistica prediletta si esercita sui morti altrui, il suo cruciverba puzza di cadavere e di stufato”.

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