L’INTERVISTA

Carceri, il procuratore Ardita: “Il regime delle celle aperte ha dato le prigioni ai boss”

EX DG DEL DAP (DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA) – “Telefonini e armi in cella? Da 10 anni vige il caos dell’autogestione”

21 MARZO 2024

Droga, armi e telefonini che entrano nei penitenziari italiani come se fossero il mercato rionale o, più propriamente, la piazza di spaccio del quartiere. Uno spaccato, quello esposto martedì dal procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, su cui Il Fatto ha realizzato ieri un ampio approfondimento, che pone seri dubbi sullo stato di salute dei penitenziari italiani. Per il procuratore aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita, già direttore generale del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) tra il 2002 e il 2011, “emerge oramai da anni un controllo da parte di esponenti mafiosi rispetto alla vita nelle carceri. Una sorta di autogestione affidata alle élite criminali grazie al regime delle celle aperte, che dà libera circolazione ai detenuti. Così da dieci anni lo Stato arretra rovinando la vita di tutti: agenti e normali detenuti. E anche il fatto che il recente tentativo del Dap di tornare a un regime più consono per i mafiosi stia trovando enormi difficoltà, ne è la dimostrazione. Chi conosce questo mondo sa bene il motivo.

Sembrano esserci numerose falle nei controlli, considerato l’uso frequente di smartphone dentro le celle. Come è possibile?

È possibile quando gli uomini dello Stato non possono svolgere il loro ruolo, quando gli ambienti sono disordinati e senza controllo e si occulta di tutto, costringendo chiunque a fare la volontà di chi comanda. Le questioni che si agitano attorno a questo mondo – disagio dei detenuti, suicidi, violenza, atti di governo criminale – sono tutte collegate e conseguenza di una generale disumanizzazione. In tutto ciò la contrapposizione tra detenuti e agenti è uno strumento che serve a quanti ingaggiano da tempo questa lotta contro lo Stato, dove mafia e strumentalizzazioni ideologiche cominciano a viaggiare insieme. Se nei penitenziari lo Stato è presente con le sue regole, c’è innanzitutto umanità, poi c’è anche sicurezza e rispetto tra tutti.

C’è anche il problema del sovraffollamento.

Dove vige il caos dell’autogestione, chi ne fa le spese sono in primo luogo i detenuti più deboli, costretti a fare squadra tra loro, ad assecondare la volontà dei capi e farsi strumentalizzare contro la polizia penitenziaria. La maggior parte di chi entra preferirebbe stare in pace dentro una cella. Molti vorrebbero solo privacy e non conflitti con la polizia penitenziaria, ma con le celle aperte devono sottostare a chi comanda.

Spesso la penitenziaria è finita al centro di critiche, tra episodi di connivenza con i detenuti e atti di violenza. Cosa non funziona?

Manca un’analisi su come siano possibili fatti del genere con tale frequenza. Spesso le violenze stanno in frammenti di video che ci impongono di indignarci e di dare un giudizio senza attenuanti. Ma per dare un giudizio completo sul pianeta carcere, il film dovrebbe essere proiettato tutto. Se ogni giorno un agente onesto deve scegliere tra essere picchiato, usare violenza a propria volta o trovare un accordo con i mafiosi per stare tranquillo, una soluzione sarebbe quella di dare le dimissioni. Ma se ciò non avviene, dovremmo chiederci se un incentivo alle devianze non lo abbia dato chi è rimasto cieco per anni dinanzi a questa realtà.