Rosaria Capacchione racconta epopea e crollo di Sandokan Schiavone: “È morta la camorra? No, non ancora”

Francesco “Sandokan” Schiavone, superboss del cartello dei Casalesi, si è pentito dopo 26 anni di carcere. Rosaria Capacchione racconta la sua ascesa e il “marchio” che rappresentava.
A cura di Rosaria Capacchione

La giornalista Rosaria Capacchione. Sullo sfondo la scheda segnaletica di Schiavone “Sandokan”

Il boss che era rimasto solo si è arreso. In un incerto mese di marzo, a ridosso del suo settantesimo compleanno, quarantadue anni dopo il suo ingresso trionfale ai vertici di un clan, quello di Antonio Bardellino. Fino a quel giorno, il 24 marzo 1982, era stato un giovane di malavita, svelto di mano e di cervello, un guardaspalle destinato a far carriera ma solo con il tempo. Poi si intestò la strage in due atti della famiglia Simeone, mediatori di terreni legati a Raffaele Cutolo, il massacro di Ponte Annechino, e per tutti diventò Sandokan, come l’eroe di Emilio Salgari, come il capo partigiano della colonna sonora di “C’eravamo tanto amati”.

Francesco Schiavone il vendicatore, Francesco Schiavone il camorrista, spietato e violento, cinico stratega, avido allievo di Bardellino, con lui e dopo di lui traghettatore della sua gente dalla mafia rurale a quella dei grandi affari.

Neolatifondista e generale di un esercito che nella sua guerra di conquista ha lasciato centinaia di morti, tantissimi innocenti, e una provincia corrotta sin dalle sue fondamenta.

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Schiavone rimasto muto per 26 anni al 41bis
Era rimasto muto per quasi ventisei anni, nello sprofondo di una cella destinata ai criminali più pericolosi, nell’isolamento permanente dei detenuti al 41 bis. Dall’11 luglio 1998, quando fu arrestato nella sua Casal di Principe, in una grotta di tufo, quelle che un tempo venivano utilizzate come cantine naturali.

Silenzio interrotto dai sempre più rari interventi nel corso dei processi e dalle sporadiche visite della moglie e dei figli, che avrebbe voluto lontani dalle cose di malavita e che invece aveva visto – i cinque maschi – tutti in carcere o comunque invischiati in processi: Nicola, condannato all’ergastolo e poi collaboratore di giustizia, Valter, Carmine, Ivanhoe, Emanuele. Una disfatta.

Non sappiamo cosa lo abbia convinto alla resa. Forse proprio il suo fallimento di padre. O forse ancora lo stesso senso di rivalsa e di delusione che nel 1984 spinse Tommaso Buscetta al pentimento: la morte dei figli e di tutti i suoi parenti ma, ancora di più – così aveva raccontato don Masino a Giovanni Falcone sin dal suo primo interrogatorio – per la delusione. La Cosa Nostra in cui aveva creduto non esisteva più, era diventata un’altra cosa: solo droga e soldi, soldi e droga per fare altri soldi.

Non sappiano cosa abbia pensato, Schiavone, nei suoi ultimi giorni da sepolto vivo, a Opera e Parma, ma immaginiamo che possa essere andata proprio così, come fu con Buscetta: la trovata consapevolezza che al di fuori del carcere, nel mondo reale, nulla era più – se mai era stato – come l’aveva immaginato; che alla favoletta del codice d’onore dei mafiosi non credeva più nessuno; che il carcere e gli ergastoli non erano più la minaccia spuntata di uno Stato non credibile ma una realtà concreta e tangibile.

E poi i suoi figli, un disastro, sempre sull’orlo del baratro. E poi i suoi complici di una volta, i soci d’affari che lo hanno via via rinnegato ricreandosi una verginità di facciata resistente alla giustizia degli uomini e al trascorrere del tempo.

Con la resa di Sadokan crolla il clan dei Casalesi

Non sappiamo quanti soldi avesse accumulato nella sua lunga e prolifica carriera criminale, e quanto ne sia rimasto. Non sappiamo quanti omicidi abbia commesso e quanti ne siano ancora senza autore accertato; quanti morti abbia sepolto e di quanti possa far ritrovare qualche resto. Non sappiano neppure quanto, dei suoi racconti che verranno, potrà trasformarsi in indagine e contribuire a ricostruire verità processuali, o a smentire quelle che sinora abbiamo ritenuto accertate e definitive.

Ma di una cosa siamo sicuri, della data della morte del clan dei Casalesi: oggi, 29 marzo 2024, giorno dell’ufficializzazione della collaborazione del boss chiamato Sandokan.

Vuol dire che è morta la camorra? No, non ancora. Ma oggi, in un attimo, si è dissolta l’aura del clan che fu di Bardellino prima, di Francesco Schiavone poi. È morto il mito, è andata in frantumi l’idea stessa di una organizzazione mafiosa capace di esercitare il consenso con le armi, di proporsi ed essere mediatrice di conflitti e feudale erogatrice di benefici.

Una sorta di abdicazione in favore della legge, una resa che delegittima per sempre ogni pretesa di successione, ogni velleità di usurpazione del marchio mortale che da solo valeva un esercito armato. Una vittoria, Schiavone, l’ha ottenuta proprio ora: defenestrando i figli che ancora brigano per ricostituire il clan, estremo tentativo di ricondurli alla ragione e salvare loro la vita. Potranno farlo, ovviamente, se è quella la strada che vogliono percorrere, ma non saranno mai più camorristi in suo nome.

I “santi protettori” del clan, la mafia, la massoneria
Ma è altro ciò che interessa a chi non è magistrato, poliziotto, carabiniere, avvocato. Qualcosa che riguarda la cronaca e la storia: la ricostruzione di puzzle rimasti incompiuti, di interrogativi rimasti senza risposta e che difficilmente potranno essere autonoma materia per processi. Per esempio: che fine ha fatto Antonio Bardellino? Morto o sparito in Sud America? E chi erano i santi protettori, anche in divisa di alto rango, che agevolarono lunghe latitanze e clamorose assoluzioni?

E chi ha gestito almeno fino a dieci anni fa l’agenda dei contatti elevatissimi, non soltanto italiani, che garantirono i grandi affari internazionali di Bardellino e poi di Mario Iovine e Francesco Schiavone? Cosa è rimasto di quegli stessi contatti che per un periodo avevano condiviso con i siciliani di Bontade prima, dei Corleonesi poi? E di quelli con i Marsigliesi? E dei legami con la grande massoneria internazionale, che inviò uno dei suoi avvocati al Tribunale di Lione quando Schiavone (era il 1989) fu arrestato in Francia? E di quelli con i grand commis di Stato che hanno agevolato grandi appalti e forniture? E di quelli con la grande politica?

Oggi, dunque, si chiude un’epoca. Anche se domani dovessero arrendersi gli altri capi irriducibili del cartello casalese. Michele Zagaria e Francesco Bidognetti, la loro defezione – che pur sarebbe importantissima – non potrebbe mai avere la stessa portata storica, strategica, di sistema. Si chiude il conto con la storia tragica di Terra di Lavoro mentre è in corso l’ultimo processo che vede Schiavone come comprimario. È quello che ha tra gli imputati il cugino Nicola Schiavone, un tempo assessore a Casal di Principe, poi imprenditore di successo.

Una carriera avviata tanti anni fa grazie alla Scen, una società di cui era socio proprio Francesco Schiavone, e che lo aveva portato a diventare il dominus dei subappalti di Rfi, la rete ferroviaria italiana. Immaginiamo che sarà in quel processo che il boss farà il suo esordio da collaboratore di giustizia. Non sappiamo come andrà a finire, ma sarà interessante sapere come ricostruirà quella storia, il prequel di tutto il resto, che è anche un pezzo di storia italiana.