*L’uomo che voleva fermare il declino* di Vincenzo D’Anna*

Correva l’anno 1978. Era il 9 maggio quando, in via Caetani, a pochi passi da Palazzo Cenci Bolognetti, storica sede della Dc ed a non molta distanza da via delle Botteghe Oscure, “quartier generale” del Pci, fu rinvenuto il corpo senza vita di Aldo Moro. Il commando di brigatisti rossi che lo aveva rapito, trucidando i cinque uomini della sua scorta (i carabinieri Oreste Leonardi, Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Domenico Ricci e Giulio Rivera), il 16 marzo di quello stesso anno, in via Fani, aveva eseguito la sua macabra sentenza di morte affidandola al carnefice Prospero Gallinari. Innanzi a quell’epilogo tanto temuto, lo sgomento, unito al cordoglio ed all’allarme democratico, raggiunse il proprio acme. Furono quelli anni durissimi, in cui, auspici i “cattivi maestri” che predicavano nelle università e nelle fabbriche la lotta armata contro il sistema capitalistico, l’ideologia della rivoluzione proletaria contro i valori borghesi dell’Occidente, si era data alla “macchia” per combattere lo Stato. Avevano cominciato quasi tutti come militanti della sinistra extraparlamentare: una frangia di esaltati ed invasati che intendeva applicare cinicamente i dettami di un’ideologia che si prefiggeva di azzerare le consuete forme di democrazia e di governo della nazione. Il tutto come nelle peggiori tradizioni laddove si era tentato di edificare alla lettera il modello leninista, perdendo ogni freno sia umanitario che politico. Succedeva questo ovunque trionfasse la pseudo lotta di liberazione del proletariato dallo sfruttamento, nell’ottica ottusa quanto semplice di immaginare tutto il mondo occidentale e le sue regole socio-economiche raffigurando le parti in lotta come quella degli sfruttatori da una parte e quella degli sfruttati dall’altra. I secondi avrebbero dovuto eliminare materialmente i primi abbattendo il sistema delle libere istituzioni politiche e quello economico e sociale che, nel loro farneticare, erano giudicate unicamente espressione dell’imperialismo economico e della sopraffazione. Un brodo assurdo di “cultura”, maturato durante il post ’68, nei cortei in cui si inneggiava a Marx, Lenin, Mao Tze Dong, Ho Ci Min ed al generale Vo Nguyen Giap, eroi della “cacciata” degli occidentali dal sud est asiatico. Eppure in Cambogia e nel Laos, altri regimi dittatoriali erano andati costituendosi con la regia occulta della Cina rossa promotrice di una rivoluzione che, al pari di quella sovietica, aveva mietuto milioni e milioni di morti per carestia, fucilazioni, stenti e prigionia. Come dimenticare il regime cambogiano dei “Khmer Rossi”, capitanati da Pol Pot, che, prendendo alla lettera la teoria dell’eliminazione fisica dei nemici della classe operaia, ne passò per le armi a decine di migliaia, mostrandone poi al mondo i macabri resti affastellati gli uni sopra gli altri? Questi i prodromi politici di una gioventù traviata ideologicamente in Italia dai cultori di quelle tesi sanguinarie. Da questo humus vennero fuori i gruppi extra parlamentari e le bande armate che seminarono il caos nel Belpaese. In Italia Aldo Moro, la testa più brillante nel panorama democristiano, già da tempo aveva capito il rischio che correva la nostra democrazia, bloccata dalla mancata alternanza al potere a causa della presenza del più forte partito comunista europeo. L’intento perseguito dall’ex premier fu quello di “unire”, con la forza del dialogo, le due maggiori forze popolari del tempo – quelle cattoliche e quelle laico socialiste – promuovendo la cosiddetta strategia dell’attenzione verso il Pci guidato, allora, da Enrico Berlinguer. Quest’ultimo, a sua volta, si era messo alla ricerca di una “terza via” tra il socialismo ed liberalismo europeo, liberandosi sia dai soldi che affluivano da Mosca sia dalla dipendenza del PCUS, proprio nel tentativo di dare vita a quel “compromesso storico” tra le forze anti-fasciste, voluto ed immaginato da Moro.

Lo scopo, più o meno dichiarato, era quello di rinnovare le consuete formule politiche secondo le cosiddette “convergenze parallele” sbloccando, una volta e per tutte, la dialettica tra gli “avversari” di un tempo. Un tentativo che non trovò dunque facile sponda nella Dc ma che finì per allarmare anche gli ambienti extra parlamentari e finanche quelli degli alleati Americani, che vedevano come il fumo negli occhi quel tentativo. Tuttavia il progetto prese piede e lo si capì proprio il giorno del rapimento di Aldo Moro quando il governo presieduto da Giulio Andreotti (definito il governo della “non-sfiducia”) vide la luce con l’astensione dei comunisti. Fu quel “non voto”, verosimilmente, a sancire la condanna a morte del grande statista pugliese, perché molti, a sinistra, si sentirono potenzialmente “lesi” da quell’anomala formula politica e gli americani traditi. Moro fu ritenuto pericoloso da più parti, dunque punito dai terroristi rossi per il suo sforzo di fermare il declino della politica italiana. Una politica che, in buona sostanza, ripeteva le vecchie formule imposte in Italia ed in Europa dalla “guerra fredda” tra Usa e Urss, dalla cortina di ferro che separava Oriente ed Occidente, quella delle due superpotenze che allora si spartivano il mondo. Un’idealità, forse un miraggio, che pagò con la vita, come sempre accade alle persone vere e nobili. Ed a questi sentimenti ci inchiniamo nel solenne ricordo.

*già parlamentare