Impagnatiello di Cesare Giuzzi / Corriere della Sera
«Non volevo essere umiliato, tenevo alla mia immagine sul posto di lavoro, alla stima che i colleghi avevano di me. Avevo una certa responsabilità con lo staff. A dicembre avrei preso una promozione, era già nero su bianco». Alessandro Impagnatiello ha la voce calma e quasi rassicurante.
Dice di voler esprimere «la reale verità». Perché «questo processo mi sta molto aiutando a mettere insieme dei tasselli che erano molto confusi nella mia testa». È quasi assertivo mentre i pm Letizia Mannella e Alessia Menegazzo lo travolgono con cinque ore di domande. Lui è lì, come se fosse dietro al bancone e non su quello degli imputati: «Sa, il mio lavoro è molto stressante, richiede di essere sempre perfetti». E allora racconta la storia della «maestra Annamaria» che alle elementari, quando lui era il primo della classe, gli diede il voto più basso: «Avevo sbagliato completamente la verifica. La classe era scioccata. Lei disse: “Alessandro non è dio, può sbagliare anche lui”».
Non è facile ascoltare un ragazzo di 30 anni che ha appena confessato impassibile di aver ucciso la compagna e di averla bruciata «per farla diventare cenere», che si commuove solo quando parla del padre («Avevamo un rapporto difficile, appeso a un filo») e della «maestra Annamaria».
«Ho scoperto dalla televisione delle 37 coltellate. Il numero dei colpi non sarà mai un dato a me disponibile», risponde con aria di distacco. Poi spiega di avere «costruito un infinito castello di bugie. Un mare di bugie in cui io stesso sono annegato». Nel racconto di Impagnatiello c’è un unico punto di vista, quello che per la procura è il segno di un «narcisismo patologico»: «Ho continuato ad alimentare questa doppia realtà nella mia testa». Dice di non sapere perché ha ucciso Giulia, di esserselo chiesto «migliaia di volte». Racconta che quando ha scoperto della gravidanza «è stata un’altalena di emozioni»: «Avevo paura che rovinasse il rapporto tra noi».
Parla del delitto. Ammette di aver colpito Giulia con il coltello «con cui lei tagliava i pomodori». «S’è fatta male, è andata in sala per prendere un cerotto. Mi sono messo alle sue spalle e appena si è girata l’ho colpita al collo». Nega di aver coperto il divano e spostato il tappeto: «Giulia lo aveva lavato la mattina». Ma la procura non gli crede. Come ha spiegato in aula il luogotenente dei carabinieri Giulio Buttarelli, esperto di Bloodstain pattern analysis (studio delle macchie di sangue), sulle pareti non c’erano schizzi. Come se il corpo «fosse stato avvolto da un asciugamano o un cuscino mentre veniva colpito». E il veleno per topi? «Glielo ho dato due volte, ai primi di maggio — risponde l’ex barman dell’Armani —. Le ho infilato in bocca un grano mentre dormiva». Ma per i medici l’avvelenamento risalirebbe a mesi prima. Come le ricerche sul web iniziate a dicembre. «Ho spostato più volte il cadavere, quasi speravo di essere scoperto dai vicini». Ma farà di tutto per sviare le indagini. Due giorni dopo il delitto va a mangiare a casa della madre: «Avevo il corpo di Giulia nel bagagliaio».
Cesare Giuzzi
Caravaggio