*L’errore di De Gasperi, un monito per Giorgia*

di Vincenzo D’Anna*

Che la politica italiana sia caduta in basso ce lo siamo detti più volte. Lo stesso vale per i partiti del Terzo Millennio assimilati e gestiti come fossero ditte personalizzate. La cosiddetta “Seconda Repubblica”, nata dalle ceneri di Tangentopoli e della partitocrazia imperante e corrotta, ci ha indicato, in buona sostanza, una via sbrigativa della democrazia partecipata, cancellando sia la dimensione popolare della politica sia l’esercizio della democrazia interna per governare la vita dei partiti e la selezione della classe dirigente. Fino a quando il sistema elettorale utilizzato era di tipo maggioritario (leggi Mattarellum), questa metamorfosi non si era notata appieno in ragione del fatto che a misurarsi nel gran segreto dell’urna toccava alle coalizioni politiche. In quel caso a prevalere era la sintesi tra più forze diverse costrette a “fare gruppo” per aggiudicarsi la battaglia del voto. Contava insomma l’insieme delle alleanze che si fronteggiavano più che i singoli addendi che le componevano, a prescindere se fossero piccoli o grandi. Da questi presupposti era nata la valorizzazione della figura del leader, ossia colui che di quella coalizione incarnava l’immagine ed attraeva il consenso. A nessuno più interessava la composizione specifica del “cartello”, quanto colui che la rappresentava nel suo insieme determinandone le sorti. Il leaderismo berlusconiano fece scuola a suon di vittorie e la configurazione manageriale e verticistica di Forza Italia fu considerata ottimale per vincere. Tanti piccoli “capi” crebbero sull’esempio del Cavaliere e ciascuno sovrappose la propria identità a quella dei valori diffusi e condivisi che pure costituivano il nerbo dei partiti politici di un tempo. Senza più distinzioni ideologiche e programmatiche scomparvero i punti di riferimento con il risultato che la personalizzazione dei partiti fu fine a se stessa. Ma tant’è!! Se la politica è l’arte del divenire essa non può avere soluzioni di continuità, perché bisogna comunque governare ed amministrare la società. Quindi, piaccia o meno, si procede con quello che c’è. Ancorché sul piano politico e culturale il paragone tra Alcide De Gasperi e Giorgio Meloni appaia improponibile, esistono comunque dei punti di similitudine tra loro, almeno a livello storico. Entrambi infatti sono convinti anti comunisti, certi della collocazione atlantica dell’Italia, chiamati a governare il Paese in un delicato momento di transizione della società e dei sui valori etici. Entrambi sono alle prese con un quadro economico interno eternamente in bilico tra statalismo e liberal-liberismo, vocati a riformare il pregresso che hanno ereditato, ad operare dentro crisi internazionali dall’esito incerto per la pace in un’Europa indeterminata, incompleta ed insicura. De Gasperi affrontò con piglio sicuro e determinazione il dopo guerra, la “guerra fredda” tra i due blocchi creati dalle superpotenze Usa e Urss, risollevò l’economia con a fianco Luigi Einaudi, ricostruì sulle macerie morali e materiali lasciate dal fascismo. Il compito di Giorgia è meno drammatico ma parimenti arduo. Lo statista trentino durò fino a quando coloro che aveva accolto nella Dc non lo defenestrarono perché incompatibili con il modello del liberalismo e del libero mercato cui preferivano i monopoli statali. De Gasperi commise l’errore di abbandonare la visione liberal popolare di Luigi Sturzo e la profonda diffidenza verso lo Stato onnipotente. A tanto lo indussero i “professorini” come Dossetti, La Pira, Lazzati, Moro e Fanfani che presero il sopravvento sui popolari originari come Gonella, Grandi, Rodino’, Scelba, Merzagora, Segni. I primi erano stati partigiani e vedevano il fascismo come un male assoluto non come un male storico, quindi guardavano a sinistra per inclinazione. Facevano prevalere il solidarismo ad oltranza contro le leggi dell’economia e del buon senso perché adoratori dell’apparato pubblico. Il popolarismo liberale fu così sostituito con l’ibrido catto-socialista, pauperistico- assistenziale. Insomma, per capirci: De Gasperi imbarcò chi si sarebbe dovuto iscrivere, semmai, nel Psi oppure nelle fila della sinistra Cattolica di Adriano Ossicini e Franco Rodano. Sciagurata fu la definizione Degasperiana della DC come partito di centro che guarda a sinistra. E la Meloni? C’entra perché l’attuale premier rischia di incappare negli stessi errori, circondandosi di statalisti e di cripto socialisti, oppure dei nostalgici dello Stato forte ed autorevole retaggio della Destra dei tempi bui. Una virata per poter competere con la Schlein sul piano della lotta sociale, accettandone in tal modo la visione di fondo del ruolo dello Stato e dell’economia, con buona pace dei conservatori e dei borghesi. Se però la leader di FdI guarderà (saggiamente) al futuro allora potrà emulare De Gasperi, mettendo però Sturzo, Einaudi, Prezzolini, Gentile nel suo nuovo pantheon e non certo….. Vannacci!! Se invece baderà al contingente, alle querelle che quotidianamente le propongano, rischierà di diventare uno dei tanti presidenti del Consiglio. Quelli, per intenderci, che a Palazzo Chigi sono inutilmente transitati, lasciando le stesse tracce di una prora che solca il mare…

*già parlamentare