*Debito pubblico: tra Roma e Sagunto* di Vincenzo D’Anna*
Fu lo storico romano Tito Livio a narrare le vicende della seconda guerra punica, quella che vide contrapporsi Roma e Cartagine e che, nelle fasi iniziali del sanguinoso scontro, vide l’Urbe sul punto di soccombere innanzi all’armata di Annibale. Il generale cartaginese aveva deciso di invadere la penisola italiana scendendo attraverso le Alpi passando per la Spagna e il Sud della Francia. Per scatenare il casus belli pensò bene di attaccare la città iberica di Sagunto alleata dei capitolini. Il Senato romano discusse a lungo se mantenere fede al patto di difendere quella lontana città oppure evitare un nuovo scontro con il nemico africano. Tito Livio coniò così la famosa frase: “mentre Roma discute, Sagunto muore” che sarà citata nei tempi futuri per descrivere tutte le situazione in cui si innescano inutili o pretestuose discussioni nel mentre sarebbero state necessarie azioni concrete per affrontare e risolvere un urgente questione. Ora, se al posto della minaccia punica provassimo ad inserire, come inderogabile, quella che proviene dal pauroso debito pubblico accumulato dallo Stato italiano, ci renderemmo subito conto di quanto bene si attagli al caso di specie la considerazione dello storico romano. Per chiarire le idee al lettore occorre indicare le cifre di questa autentica tragedia che minaccia molto da vicino il Belpaese, nella generale e scellerata sottovalutazione della questione sia da parte di chi ci governa, sia da parte degli stessi governati. In parole povere, dobbiamo fare piena luce sull’entità del disastro economico fin qui prodotto dallo statalismo, ossia il perpetuo uso del danaro pubblico e del debito pubblico crescente come leva per governare il Paese. Un disastro che costa all’erario la bellezza di cento miliardi di euro all’anno di solo interessi passivi (!!) sul debito accumulato. Interessi, sia chiaro, da riconoscere a tutti coloro i quali hanno comprato titoli e obbligazioni emessi dallo Stato stesso. Ancor più dannosa è l’atarassia, il disinteresse generale, verso questo problema che rischia di portare al fallimento il sistema socio economico italiano e con esso la rete di protezione sociale ed assistenziale destinata ai cittadini ed ai loro bisogni primari. Un dato esemplare su tutti: il giorno in cui i nostri titoli di Stato immessi sul mercato non venissero più acquistati dagli investitori, non si potrebbero più pagare né stipendi e né pensioni. Peggio ancora: la si finirebbe finanche di garantire i servizi pubblici essenziali. Tuttavia di tutto si discute con esasperante cinismo sulle tavole del teatrino della politica e negli organi di informazione, che riportano fedelmente le varie quotidiane querelle politiche, tranne che di questa enorme montagna di debito. Insomma, siamo giunti a cifre stellari: il rapporto tra debito e prodotto interno lordo viaggia al 7.4 % contro il 3% fissato dall’Unione Europea. La cosa si complica se si considera che il debito raggiunge il 137% del prodotto interno lordo. Nonostante questo il governo ha annunciato di voler prorogare gli sgravi contributivi disposti nel 2023 (fiscalizzazione degli oneri sociali, accorpamento delle aliquote IRPEF) che pure erano stati finanziati, inizialmente, per un solo anno. Tenendo conto di queste e di altre spese obbligatorie, l’aggiustamento dei conti pubblici richiesto a partire dal 2025 assume dimensioni importanti: circa 30 miliardi, sicuramente non facili da realizzare. Una situazione ben più grave di quella evidenziata dalla recente procedura d’infrazione di cui Bruxelles ci ha fatto segno per eccesso di debito, insieme a Polonia, Belgio, Ungheria, Slovacchia e Malta. Non è dato sapere come e dove Palazzo Chigi ed il Parlamento intenderanno reperire i miliardi da tagliare. Certo aumenteranno i costi dei servizi e quelli delle tasse, con il corollario che aumenteranno anche le furbizie del povero contribuente, ossia le erosioni e le evasioni fiscali. Compito non semplice per uno Stato che si poggia su una burocrazia parassitaria e che non riesce a riscuotere un miliardo di tributi né ad assicurare i pagamenti ai propri fornitori se non in tempi biblici. Ci si affanna e si litiga su riforme, anche sacrosante, come quelle della giustizia, del premierato e dell’autonomia differenziata. Le opposizioni, parimenti colpevoli per le loro gestioni in passato, fanno finta di niente continuando a chiedere al governo, bonus ed incrementi delle spese e delle elargizioni statali. Eppure sarebbe sufficiente introdurre, vincendo le resistenze sindacali e le pastoie politiche, criteri di concorrenza e stipendi in parte indicizzati su produttività ed efficienza. Non ci vuole un illuminato statista per comprendere che i servizi più efficienti sono quelli che dipendono dal gradimento degli utenti, di quei cittadini, cioè, che avendo possibilità di libera scelta decretano il successo oppure il fallimento di un’azienda, anche se a gestione statale. Insomma: la concorrenza come presupposto per migliorare l’offerta. Ma a Roma si discute di altro e si litiga mentre Sagunto cade…
*già parlamentare