*Se è don Abbondio il vincitore…* di Vincenzo D’Anna*
In una bella intervista a Leonardo Sciascia, autore di capolavori come “Il giorno della civetta” e “A ciascuno il suo”, emergono considerazioni di grande pregio sull’indole degli abitanti del Belpaese. Lo scrittore di Racalmuto, con la grazia, l’acume, lo straordinario bagaglio culturale e la sensibilità tipica dei suoi grandi conterranei, riflette sul contenuto di quella grande opera manzoniana costituita dai “Promessi Sposi”. Ne trae un costrutto morale ed umano controcorrente, ossia ne contesta la rappresentazione scolastica che di quel celebre romanzo storico si è sempre data ai giovani studenti che lo dovevano leggere e commentare. Sciascia contesta la morale di fondo del fervente cattolico che fu Manzoni, ne cambia l’importanza degli eventi e degli stessi personaggi. Non crede che a rifulgere sia la provvidenza riparatrice dei torti e la grazia che essa diffonde sugli inermi e sui buoni vessati dal potere, come Renzo e Lucia, il cui matrimonio viene osteggiato dal prepotente don Rodrigo. Lo scrittore siciliano non sembra considerare nemmeno fra Cristoforo che pure si batte per aiutare i due sventurati protagonisti, né pare tenere in debita considerazione il pentimento amaro e doloroso dell’Innominato innanzi al cardinale Borromeo. Non lo colpisce neanche la tragedia umana di Gertrude, la Monaca di Monza che, sventurata, risponde al corteggiamento dello scapestrato Egidio. Nossignore. Per Sciascia il vero protagonista di quel romanzo è il furbo e vile don Abbondio, che resta quello che è nella sua pochezza di pavido e di prudentissimo prete, che soggiace alle minacce dei bravi, rifugiandosi nel suo “latinorum”. Alla fine, dopo non poche traversie, i promessi sposi riusciranno a convolare a nozze: si sposeranno ma dovranno emigrare. Nel frattempo la peste avrà colto buoni e cattivi, malvagi e prepotenti passando su tutto e tutti come una sorta di nemesi. Resteranno, in pratica, don Abbondio e le “grida” di Azzeccagarbugli come espressione dell’animo dei lombardi protagonisti di quel racconto. Lombardi ma anche Italiani. Quelli di oggi. Insomma: per Sciascia, quello di Manzoni non è un libro consolatorio bensì disperato, nel quale il bene trionfa ma non cambia l’essenza delle cose, la protervia del potere, l’innata capacità che è poi tipica degli abitanti dello Stivale, di piegarsi ai tracotanti che stanno “sopra” perché, sotto sotto, nel loro animo ambiscono a diventare anch’essi tali, con i rispettivi difetti di protervia e di comando, non appena la vita gliene avrà dato l’occasione. Ed in effetti in ogni segmento della società italiana la maggioranza è formata da aspiranti uomini di potere, da soggetti che appena investiti di un simbolo di comando, un orpello qualunque, vanno incontro ad una metamorfosi che li trasforma in ciò che essi denigrano ed esecrano allorquando fanno parte della cosiddetta gente comune. Nella mia attività politica ho assistito molte volte a tali trasformazioni, alla vigliaccheria del tradimento ed alla mediocrità dell’ingratitudine, alla cancellazione della lealtà . Un aforisma popolare recita “quando il pidocchio sale in gloria, caccia la scienza e perde la memoria”. Greve ma vero. Quante galline hanno spiccato il volo per volontà dei propri mallevadori salvo poi atteggiarsi ad aquile pugnalando alle spalle il loro mentore e benefattore? Insomma spesso si addebitano alla politica colpe non sue ed agli uomini che la bazzicano la tendenza a servirsi dei fedeli e degli sciocchi più che dei veramente capaci. Certo, chi naviga i mari procellosi di quelle vicende deve sapere anche come cautelarsi dalla ingratitudine. Tuttavia, se ai vertici delle istituzioni, al timone degli apparati politici e nei piani alti dei palazzi che contano si allocano, per tranquillità, mediocri ed ignoranti, non servirà poi dover correre ai ripari per difendersi. Quindi la garanzia viene dalla mediocrità dei delegati. Dalle nostre parti vigono anche ulteriori valvole di sfogo protettive come il nepotismo ed il familismo amorale, ossia l’abitudine di consegnare le insegne del potere ai propri figli o ai familiari, operando in tal modo non per il bene comune ma per le ambizioni e gli interessi di quanti fanno appartengono al “clan”. Questo modo di fare è una condizione che lascia scadere la qualità dell’agire politico, lo indirizza alle utilità personali ed a ritenere che lo scettro possa essere tramandato come in un regime che si perpetua nel tempo. Se i partiti sono diventati simulacri di quelli veri, intestati, come sono, a ditte personali, ecco che il familismo amorale diventa l’unica soluzione praticabile per mettere al sicuro la leadership. Continuare a sperare che la politica di oggi possa recuperare l’etica pubblica e la moralità personale di un tempo, innanzi alla lotta per il potere senza rielaborare la funzione, il ruolo ed i meccanismi interni di partiti e movimenti, è una mera illusione. In fondo, perché mai nessuno ne parla e tutti puntano il dito verso il proprio competitore senza mai individuare una soluzione di sistema che elimini alla radice il problema? Se vincono la furbizia e la pavidità di don Abbondio e la politica continuerà a rifugiarsi nelle “grida” di Azzeccagarbugli peraltro scritte in “latinorum”, non se ne uscirà mai, neanche attraverso la provvidenza del buon Dio!!
*già parlamentare