Scampia&C. le colpe sociali degli architetti

26 Luglio 2024

Abbasso gli architetti che disegnano le Vele e poi se la battono in motoscafo. Il magnifico saggista e poeta Hans Magnus Enzensberger scrisse negli Anni ‘70 che “gli architetti dovrebbero essere condannati a abitare nelle loro opere”. Splendida utopia viste le mille discariche sociali che hanno disegnato nelle periferie di ogni città dell’Est e dell’Ovest. A volte sostenuti dalla cattiva ideologia (da sperimentare sulle vite altrui) altre dal semplice profitto. Scampia a Napoli – come il Corviale a Roma, lo Zen a Palermo, le Coree a Milano e Torino – hanno incorporato nelle loro strutture a forma di formicaio, alveare, campi di concentramento per famiglie e cemento, l’idea a basso costo di trasformare i cittadini più deboli in deportati a disposizione (un tempo) delle fabbriche a alta intensità lavorativa, oggi in moltitudini prigioniere del disagio globale, dell’esclusione, del sotto mondo governato dalla criminalità, l’unica che offra reddito e identità.

L’architetto delle Vele di Scampia si chiamava Francesco Di Salvo. La sindaca di Napoli, Rosa Russo Jervolino, un giorno del 2001, dichiarò: “Non so chi le ha disegnate, ma lo fucilerei”. Era il 2001. Di Salvo era già morto da più di vent’anni. Prudentemente in una bella casa di Parigi.

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