*Autonomia differenziata, una tigre di cartapesta* di Vincenzo D’Anna*
Il teatrino della politica di casa nostra ci propone uno spettacolo unico: quella dell’autonomia differenziata e dell’incipiente pericolo che essa potrebbe comportare per l’unità nazionale. Insomma, detto con altre parole: la devoluzione dallo Stato alle Regioni di ulteriori materie che prima erano in regime concorrenziale, secondo scettici e contrari, rischierebbe di avvantaggiare ulteriormente gli Enti territoriali più ricchi in danno di quelli più poveri. I toni di quanti si schierano contro la misura approvata dal governo di centrodestra sono allarmistici se non addirittura drammatici soprattutto se provengono dalle forze di opposizione. Abbiamo già scritto che la secessione non avverrà e che il vero problema consisterà, semmai, nel definire equamente e correttamente i previsti livelli essenziali di prestazioni (LEP), ossia cosa potranno o non potranno gestire ulteriormente le Regioni che ne facciano richiesta al Governo e ne diano successivamente applicazione. Ora, che questo possa tradursi in una frattura tra le diverse aree dello Stivale, francamente, appare di dubbia possibilità. Innanzitutto perché si tratta di una legge che disciplina i rapporti tra l’apparato centrale e quello locale sulla base (e con i limiti!) di quanto previsto dall’articolo 102 della carta Costituzionale. E poi, a voler essere più precisi: la norma in questione risale al 2001. Quella approvata di recente ne rappresenta solo una linea guida attuativa. Abbiamo anche già scritto, sempre su queste stesse colonne, che in quanto legge ordinaria, quella sull’Autonomia è perfettamente costituzionale e dunque non può essere sottoposta a referendum confermativo. Come se non bastasse, lo stesso atto ha anche approvato, in altri articoli, la legge di Bilancio dello Stato e come tale, dunque, rientra tra quelli non assoggettabili a consultazioni elettorali secondo i dettami della Magna Carta. Quindi chi si affanna a raccogliere firme referendarie ed a darne enfatico conto ogni giorno, potrebbe veder vanificato il proprio sforzo con la sentenza che emetterà inevitabilmente la Corte Costituzionale. Ma c’è di più. Il principale argomento utilizzato dai contrari è quello che si basa sul presupposto che la disparità di ricchezza e di risorse esistenti tra Nord e Sud dell’Italia si accentuerebbe ulteriormente con l’applicazione dell’Autonomia, perché le Regioni più facoltose tratterrebbero più risorse finanziarie per realizzare l’attuazione dei LEP. Cosa che non accadrebbe in quelle più povere. Tuttavia anche questa obiezione è del tutto sballata. La legge in questione, infatti, non va confusa con il federalismo fiscale che regola il contributo al fondo comune statale che ciascune Ente si obbliga a versare. In soldoni: le Regioni non potranno imporre altre tasse né sottrarsi alla gestione, da parte del Ministero dell’Economia, della ripartizione delle entrate statali, che resteranno identicamente ripartite così come accadeva in passato. Si otterrà tutt’al più un maggiore margine di manovra sulle modalità di erogazione dei servizi e dei LEP. Insomma la tragedia di un’insanabile sperequazione e di una catastrofica quanto insanabile frattura tra ambiti territoriali diversi, appare un’emerita fesseria. Innanzi a tali evidenze c’è da chiedersi se coloro che organizzano banchetti per la raccolta delle firme, adunate e finanche tentativi di nuove sintesi politiche sull’abbrivio della comune lotta referendaria ( il così detto campo largo) , siano stati resi edotti dai loro consulenti e dai professoroni di identica fede politica!! Dubitarne è lecito, oltre che logico, vista l’evidenza dei fatti e delle norme li disciplinano la materia legislativa. Millantare che scuola, sanità e trasporti possano peggiorare, atteso che sono già nelle mani dello Stato e delle Regioni (per la parte che riguarda queste ultime), è un’inesattezza bella e buona. Se i poteri di distribuzione finanziaria restano in mano allo Stato la cosiddetta piramide fiscale non ne sarà assolutamente scalfita, con essa la divisione statale delle risorse finanziare. Il vero problema sulle disparità esistenti dipende semmai dal PIL (prodotto interno Lordo), che ciascuna regione produce. Un esempio viene dal servizio sanitario nazionale, laddove il relativo riparto del fondo Sanitario Nazionale definito dalla Conferenza Stato Regioni ha indici di peso iniqui ed anacronistici perlopiù basati sul riparto storico delle risorse disponibili . Il che, come si può facilmente dedurre, finisce per favorire il Nord che da tempo è più avveduto, organizzato e finanziato, per quanto concerne il numero e la complessità delle strutture di alta qualità di cui è dotato. Al Sud, invece, il clientelismo ha ampliato le piante organiche e moltiplicato i plessi ospedalieri, trasformandoli in poco più che decenti astanterie. Tale pletorica ed approssimativa organizzazione porta certi maggiori consensi elettorali, non certo servizi sanitari migliori ai malati. La gestione della Aziende e’ di tipo politico, il personale male utilizzato oltre che scarso e scarsamente retribuito, mancano le tecnologie, la disciplina e la valorizzazione delle competenze meritocratiche. Nei luoghi sanitari, ove manca una sana concorrenza professionale, vige la regola del comparaggio politico e del familismo. Questi sono i veri pericoli di una frattura che, seppur non esplicita, da decenni affligge le regioni più povere. Altro che scissione, altro che unità in pericolo. L’autonomia differenziata, quando vedrà veramente la luce, rischia al massimo di rivelarsi una…tigre di cartapesta che la politica politicante porta allegramente al guinzaglio fingendo di ignorare quali siano le reali vere diseguaglianze, le quotidiane mortificazioni subìte delle genti del Meridione!!
*già parlamentare