Giornali, il primo amore: è la stampa, (che) bellezza…

Quelle riviste trafugate dalla borsa di papà – Le scoperte di un ragazzo. Il “Borghese” era l’evoluzione della lussuria e “L’Espresso” uno scrigno di curiosità

28 Agosto 2024

Il mio incontro fatale con la carta stampata nasce da un divieto e da una tentazione, che poi sono la stessa cosa. Ricordo mio padre che rientrava all’ora di pranzo lasciando all’ingresso il pacco dei giornali stipati in una borsa marrone, e guai ad avvicinarsi. Vivevo una normale, perturbata adolescenza e approfittavo del paterno sonnellino pomeridiano per assaporare con destrezza quei frutti proibiti. Il mio sfoglio preferito era Il Borghese, ma non per i caustici articoli di Gianna Preda che avrei apprezzato in età adulta. I cultori della materia sanno che quel settimanale, piuttosto nostalgico del trascorso Ventennio, celava nelle pagine interne un meraviglioso inserto fotografico teso a testimoniare, in modo plastico, la decadenza dei costumi indotta dalla sopravvenuta e molle democrazia. Immagini, soprattutto, della nuova classe dirigente democristiana e affine, “forchettona” (un Cafonal ante litteram), colta nell’atto di ingurgitare avidamente cibarie di varia natura: indimenticabile il primo piano mostruoso di un tale onorevole socialdemocratico Lupis, provvisto di adeguato gemello. Una ridanciana fustigazione che si alternava a inebrianti foto di signorine scollacciate, impegnate in attività notturne, definite nella titolazione “peripatetiche”, espressione che nella mia fregola giovanile si associava a pratiche innominabili e dunque irresistibili.

Se il Borghese rappresentava l’evoluzione iconografica della lussuria (dopo le sbirciatine piuttosto insoddisfacenti sulla Treccani di certe tribù discinte), la presenza dell’Espresso nel magico scrigno di cuoio mi suscitava la stessa ardente curiosità dei nativi Arawak al momento dello sbarco di Colombo nelle Americhe. Quando, dopo molto tempo, tornerò a sfogliare quella rivelazione formato lenzuolo confesso di essere andato alla ricerca di certe reminiscenze e sapidi sapori. Be’, un po’ ci restai male poiché, nello specifico, l’ebdomadario delle origini mi apparve invece pervaso da una certa austerità bacchettona che, al tempo, impegnato a trafugare zozzerie, non avevo colto. Con l’eccezione, se ricordo bene, della fantastica foto cronaca dello spogliarello “improvvisato” dalla procace ballerina turca Aiché Nana al Rugantino. No, forse ricordo male poiché lo scoop di quella notte turgida si deve allo Specchio diretto da Giorgio Nelson Page (un nome avventuroso che immaginavo sbarcato da una bananiera battente bandiera liberiana). Un Dagospia del Pleistocene che virava in un elegante bianco e nero la cronaca dissoluta delle notti romane. A queste prelibatezze si aggiungevano le gambe tornite della signora Hilda Carrajo, che alzando vezzosamente la gonna “guada una strada allagata di Mc Allen (Texas)”. Nella mia acerba infatuazione pensavo che se il giornalismo era davvero quello a tempo debito non avrei esitato a scappare di casa per naufragare in quel mare di delizie, a quanto mi dicevano ben retribuito.

A parte il lato godereccio non è che la mia adolescenza fosse priva di un afflato etico, che poi le due cose, educato in un collegio gesuitico, andavano di pari passo. A proposito di quel primo numero (dell’Espressondr), la foto di copertina mi sarebbe rimasta impressa come il più espressivo ritratto del razzismo eterno di ogni epoca e luogo. Didascalia: “J.W. Milam e sua moglie in posa a Sumner, Mississippi, dopo l’assoluzione”. Il tizio era stato accusato del linciaggio di Emmett Till, un ragazzo di colore giunto da Chicago in vacanza e ignaro della oppressiva e ottusa discriminazione esistente nel Sud. La sua colpa: aver fischiato d’ammirazione al passaggio di una donna bianca. Una giuria, composta di soli membri della razza suprematista, giudicherà le prove insufficienti ed ecco Milam, tronfio e impunito che se la gode assaporando un grosso sigaro con la sua degna signora che lo stringe orgogliosa e gli fa le fusa. A pagina 3, il reportage di Gian Carlo Fusco sull’Argentina del dopo Perón, pezzo di grande letteratura. “Cento coccarde per Evita”: un titolo che canta, come si dice in gergo, uno stile già modernissimo nella stesura dei pezzi e nella loro confezione che unisce sintesi e sostanza e che la scuola dell’Espresso ha insegnato alla stampa italiana, sottraendola al formalismo elzevirista. Perfino superfluo enumerare le firme, pietre angolari di quell’Illuminismo liberale dei “quattro gatti“ che inoculerà vaccino laico nell’Italia incolta e bigotta: Alberto Moravia, Bruno Zevi, Lionello Venturi, Massimo Mila, Manlio Cancogni. E, ça va sans dire, Eugenio Scalfari il cui talento per il giornalismo di relazione già si dispiega promettente: come nel colonnino encomiastico (anonimo ma inconfondibile) dedicato all’“economista silenzioso”, Guido Carli, futuro governatore di Bankitalia.

Del resto, in quel primo Espresso che pubblica il “Diario di un’insegnante”, a firma Antonio Segni, ex uomo di scuola ma soprattutto presidente del Consiglio in carica, emerge il profilo di un giornalismo che, sebbene non antisistema, possiede tuttavia una visione critica, pedagogica e qualche volta saccente. Immaginate quale folgorazione poté suscitare lo sfoglio di quelle pagine in un giovanotto cresciuto in un ambiente piuttosto, diciamo così, tradizionalista. Parecchi anni più tardi approdato nelle stanze della palazzina rosa di via Po respirerò quel profumo di trasgressione intelligente perché il giornalismo è una cosa troppo seria per essere noiosa. E che, per dirla con Tom Wolfe, un mese senza una bella rissa con qualcuno, è un mese buttato via.

FONTE: