*Elezioni Usa, il segno del declino?* di Vincenzo D’Anna*

Inutile girarci troppo intorno con analisi complesse sulla pochezza politica dei due candidati alla Casa Bianca. Sia a Kamala Harris che a Donald Trump mancano infatti le stigmate del leader che guarda lontano e che è capace di riportare l’America ai fasti di un tempo. Quelli in cui gli States erano il paese delle libertà individuali, dell’uguaglianza delle opportunità, del sogno che apre le porte del successo ai capaci, agli intraprendenti ed ai meritevoli. Un paese che nella sua storia ha sempre soccorso i popoli la cui libertà era minacciata ed aiutato, anche finanziariamente, gli Stati cosiddetti “amici”. Per mantenere il primato mondiale (supremazia economica, tecnologia evoluta, stili di vita emancipati ed opulentia nel reddito pro capite), gli Usa hanno sempre potuto fare affidamento sull’operato di professionisti illuminati e politici navigati. Tuttavia quella che è diventata la nazione più ricca e potente del mondo e che non ha mai smesso di credere nel capitalismo e nel libero mercato di concorrenza, non appare perfetta agli occhi degli europei i quali la ritengono colpevole di fare molto poco sul piano del sostegno sociale ai meno abbienti. La spinta individualistica e libertaria non lascia infatti molto spazio agli svantaggiati. Tuttavia si tratta di mera mentalità non di avidità o mancanza di solidarietà. L’America in fondo è piena di fondazioni, enti di beneficienza, università private gratuite. I ricchi finanziano opere caritatevoli e si spendono non poco per i ceti più bassi. Pensate, si calcola che di sola beneficenza vengano spesi ogni anno, centinaia di miliardi di dollari. Ben oltre la percentuale di spesa statale dell’Italia. La classe numericamente dominante è quella media, frutto di un intreccio di razze che, nel corso dei secoli, sono via via giunte in quella nazione. Un tempo povere, poi pienamente inserite nel consesso sociale. Attenzione: qui non si tratta di tessere le lodi né di esaltarne i pregi senza evidenziarne le contraddizioni ed i difetti, quanto di mettere in risalto la grande complessità della gestione dei cinquanta stati federati degli Usa e degli oltre 320 milioni di abitanti. La struttura costituzionale dell’America assegna al presidente la massima delle potenzialità decisionali e delle responsabilità. Insomma, lo scaricabarile finisce nella sala ovale della “White House” senza rimbalzi di responsabilità e sovrapposizioni di poteri. Basta già tutto questo per comprendere quali e quante qualità debba avere chi assume il ruolo di uomo (o donna) più potente del mondo e comandante in capo dell’esercito più forte. Certo per quei poteri sono previsti i necessari contrappesi costituzionali e politici ma alla fine chi decide è sempre il presidente: è lui il “numero uno”. L’elezione diretta col voto popolare gli conferisce l’esercizio di facoltà vaste e decisive secondo l’originario principio ispiratore di quella nazione. In questo contesto, a ben guardare la nomination dei due concorrenti sembra limitata. O, per meglio dire, quel che passa il convento sembra essere la scelta tra il meno peggio. Di Trump sono noti le bizzarrie caratteriali, il qualunquismo delle idee e l’approssimazione. Stiamo parlando di un personaggio che con la politica non ha mai avuto dimestichezza e che durante la sua presidenza non ha dato segni di particolare eccellenza. Il peggio però il “tycoon” americano lo ha mostrato dopo aver perso le elezioni contro il rivale democratico Joe Biden, prima contestando l’esito del voto, poi alimentando un vasto movimento di protestata fondato sui più svariati pseudo problemi: dal ruolo degli Usa sullo scenario mondiale all’agnosticismo sui vaccini durante il Covid, fino a culminare nell’assalto di una variegata accozzaglia di “trumpiani”, da lui stesso incoraggiata e forse finanziata, a Capitol Hill, sede del Senato. Delle sua antagonista, l’attuale vicepresidente Harris sapevamo poco: i “numeri due” in fondo, non fanno molto testo né ombra al primo inquilino della Casa Bianca, neanche se questi si chiama Joe Biden ed è deteriorato nel fisico. In una recente intervista però, l’avvocato americano ha snocciolato il suo programma “progressista” sul piano del sostegno al ceto medio, alla famiglia, nel voler regolare l’immigrazione senza soluzioni drastiche ed inumane, sugli alloggi a basto costo per gli indigenti. Tanto le è bastato per buscarsi da Trump l’appellativo di “pericolosa marxista”. Per entrambi la campagna elettorale è stata, finora, tutto un susseguirsi di giustificazione per le gaffe del passato: niente di eccezionale. Solo roba per bocche buone: equilibrismo su Israele e Palestina, aiuti all’Ucraina, lotta contro il cambiamento climatico, fino ad arrivare alla celebrazione patriottica di Trump nel cimitero militare di Arlington. La donna attualmente è data in vantaggio nei sondaggi, sia pure di qualche punto, ma l’impressione è che alla fine della contesa, nella patria che ha come stemma un’aquila saettante, la lotta sia tra due…pennuti da cortile che tentano di spiccare il volo!! Che sia questo il segno dell’inizio del declino?

*già parlamentare