OPERAZIONE FERTILIA, FERMATA LA RINASCITA DEL GRUPPO CAMORRISTICO DI PICCA LEGATO AI CASALESI. CAMORRA ESTORSIONI DROGA, 42 MISURE TRA CARCERE, DOMICILIARI E DIVIETI DI DIMORA. IN TOTALE 55 INDAGATI. PICCA IN CARCERE AD AGRIGENTO HA RICEVUTO LA NOTIFICA DELL’ARRESTO.

Era uscito dal carcere nel 2020 all’età di 64 anni e, tre anni dopo, era stato accusato di una tentata un’estorsione nei confronti di un farmacista e di un imprenditore edile ma, contrariamente agli anni in cui nessuno denunciava e dove la tecnologia non era ai livelli di oggi, era scattato l’arresto. Condannato lo scorso gennaio in abbreviato a 5 anni e quattro mesi (ridotti a 4 anni e mezzo senza appello in virtù della legge Cartabia) per l’inchiesta sul «pizzo di Pasqua», per Aldo Picca ex capozona del gruppo Bidognetti dei Casalesi – operante Cesa, Carinaro e Teverola, nel Casertano – ieri è arrivata un altro arresto e una sfilza di accuse che hanno colpito a vario titolo 42 persone, tra cui i suoi stretti sodali. A Picca, l’ordinanza cautelare gli è stata notificata ad Agrigento dove è attualmente detenuto. Associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, intestazione fittizia di beni, riciclaggio, autoriciclaggio, detenzione di armi, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti. Sono questi i reati contestati dalla Procura antimafia di Napoli al clan Picca-Di Martino cosca «riemersa» dopo la scarcerazione di Picca, attivo con il suo gruppo soprattutto tra la fine degli anni Ottanta e Novanta nell’agro aversano. In questi ultimi tre anni, era riuscito a mettere su un gruppo criminale che nel settore dello spaccio di stupefacenti – in particolare cocaina venduta tra Caserta e Napoli – aveva introdotto per i clienti-assuntori anche la possibilità di pagare la droga anche con carte di debito e del reddito di cittadinanza. L’organizzazione malavitosa è stata sgominata ieri dai carabinieri di Caserta e dalla Direzione distrettuale antimafia con 42 misure cautelari: 32 arresti in carcere, 3 ai domiciliari e 7 divieti di dimora in Campania. I militari del nucleo investigativo hanno sequestrato il dispositivo portatile, a disposizione di uno spacciatore il quale, con la compagna romena, vendeva cocaina a domicilio utilizzando una Jeep Renegade e soprattutto la partita Iva di un negozio di abbigliamento riconducibile all’uomo. Lo spaccio (che riguarda due distinti gruppi di spacciatori, uno costituito dal clan Picca-Di Martino, l’altro a quest’ultimo legato) avveniva anche in presenza dei rispettivi figli minori. Alla fine risultava che erano stati acquistati indumenti. E a chi non pagava venivano sequestrati patente e documenti che tornavano indietro solo dopo il saldo del conto. Nell’inchiesta, oltre ad alcuni parenti e figlie di Picca, destinatario di una condanna complessiva di 61 anni (scontando poi il cosiddetto trentennale sceso a 19), figura anche Nicola Di Martino, 54 anni, suo alter ego, anch’egli condannato a gennaio scorso. Gli affari di Picca e dei suoi affiliati non si basava solo sulla droga: accanto allo spaccio c’erano soprattutto le estorsioni che, come ha spiegato ieri il procuratore di Napoli Nicola Gratteri con il comandante provinciale dei carabinieri di Caserta, Manuel Scarso e ad altri ufficiali, non risparmiava nessuno, anche perché solo così poteva marcare il territorio «così come fa il cane con la sua pipì». La vittime, intimorite ed alcune poco collaborative, erano le più disparate: farmacisti, titolari di pompe funebri, commercianti, imprenditori e anche semplici cittadini, come il professore preso di mira per avere preso in affitto un terreno sul quale il clan intendeva realizzare un inceneritore. Tra i reati contestati, a vario titolo, dalla Dda (procuratore aggiunto Michele Del Prete) figura anche il riciclaggio, attuato dal clan infiltrandosi nel tessuto economico della zona grazie all’acquisizione di diverse tipologie di esercizi commerciali: durante la pandemia, grazie a un bar, sono stati ripuliti circa 900mila euro «sporchi». I carabinieri oltre agli arresti hanno anche notificato un decreto di sequestro, anche questo emesso dal gip di Napoli Marco Carbone, riguardante beni immobili (bar, anche con sala giochi, tavola calda, appartamenti, terreni e box auto) ubicati in una strada principale di Aversa. Tra gli affari del clan, è emerso anche l’interesse per il settore della vigilanza privata: ad alcuni ristoranti, pizzerie, bar lungo la strada statale 7 bis di Teverola – ai quali erano stati già proposti videogiochi – il gruppo di Picca avrebbe indicato di sottoscrivere contratti con un determinato istituto di vigilanza dal quale poi ricavavano percentuali, cercando di contrastare altre società di guardania con sede legale fuori la provincia di Caserta che si sarebbero accaparrati appalti di vigilanza nell’area industriale di Teverola. In totale, sono 55 gli indagati mentre sono 23 i destinatari della misura cautelare che si trovavano già in carcere, tra cui lo stesso Aldo Picca che sarà interrogato in videoconferenza. Per gli arrestati i primi interrogatori di garanzia sono previsti tra oggi e domani. L’operazione dei carabinieri coordinati dalla Dda è stata battezzata Fertilia, una particolare zona dell’agro aversano tra Teverola e Casaluce che fu parte della provincia di Napoli dal 1929 al 1945 per poi passare alla provincia di Caserta.

NAPOLI – GRATTERI, TELEFONINI IN CARCERE, DICHIARAZIONI CONFERENZA. NECESSITA’ DI INIBIRE LE COMUNICAZIONI NEI PENITENZIARI

– «In un carcere girano mediamente 100 telefonini. I detenuti continuano a comunicare dal carcere, a mandare video di feste e compleanni, riescono a comunicare tra di loro e quando ho proposto di comprare i jammer (partcolari strumenti disturbatori di segnali di frequenza che costano ognuno dai 50mila ai 60mila euro) almeno nelle carcere di alta sicurezza, non sono stato ascoltato, mi hanno detto che fanno male alla salute». Lo ha detto ieri, con una punta di amarezza, il procuratore di Napoli Nicola Gratteri nel corso della conferenza stampa indetta per fare il punto sul blitz anticamorra dei carabinieri nel Casertano battezzato «Fertilia», che ha consentito di arrestare, come ha sottolineato il procuratore «trentadue presunti innocenti». «Mi è stato detto – ha aggiunto il procuratore di Napoli – che la penitenziaria deve comunicare con il telefonino, mi risulta invece che c’è un telefono con il filo per chiamare i superiori e gli uffici. Non avendo preso provvedimenti seri, per ora vengono usati in alcune carceri alcuni strumenti per inibire i droni, anche se poi nella realtà sono già state usate anche delle contromisure per inibire gli inibitori di droni». Un tema scottante quello dell’introduzione di telefonini e droga nelle carceri, come emerge anche da un passaggio dell’ordinanza cautelare. In alcuni casi, è emerso nei giorni scorsi, si è assistito addiritture a dirette «Tik Tok» da parte di detenuti. «Non penso che questo governo possa permettersi di pensare a un indulto, per motivi di consenso popolare ed elettorale», ha proseguito il procuratore Gratteri. In relazione alle criticità nelle carcere per Gratteri «bisognerebbe accelerare le procedure per spostare i giovani tossicodipendenti in nuove comunità terapeutiche e in nuove rems» realizzabili «utilizzando i beni confiscati che stanno cadendo a pezzi» in attesa di nuove carceri che si annunciano ma che non si realizzano: «ci vogliono sette anni ma se non inizia mai…». Non è la prima volta che il capo della Procura di Napoli affronta temi del genere. Ieri, nel corso della conferenza sulla maxi operazione, il magistrato ha allargato il campo delle sue osservazioni sul mondo delle carceri e sulla giustizia aggiungendo: «Sento parlare anche a livello parlamentare di indulti e amnistie, ma sono argomenti pericolosi. Uno dei motivi delle rivolte» nelle carceri «è che quasi quotidianamente c’è questo annunciare, parlare di cose che poi non si realizzeranno». L’ordinanza cautelare da circa seicento pagine sul clan Picca – De Martino si concentra molto anche su molti reati di droga oltre le estorsioni. Una zona, quella di Teverola e Carinaro dove sono in corso investimenti milionari ma non è chiaro se abbia sfiorato le attività imprenditoriali della zona industriale. «Quello che non c’è, quello che non vedete, quello che non c’è scritto: non c’è o non si può parlare», ha precisato il procuratore durante la conferenza stampa. Particolare dell’indagine, durata diversi mesi, è che nel periodo dal 2021 al 2023 l’ex boss di Teverola Aldo Picca circolava nella zona chiedendo il pizzo a commercianti benchè sottoposto ad una misura di sorvegliato speciale. Il gip Marco Carbone del tribunale di Napoli è il giudice che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare chiesta dal pubblico ministero antimafia Simona Belluccio. Centinaia le intercettazioni telefoniche e ambientali che hanno potuto mettere in luce l’attività del gruppo con attività criminali diversificate sul territorio di ‘competenza’ del gruppo Picca, intenzionato a ricostituire il suo gruppo.

CASERTA – LA MAMMA CORRIERE DELLA DROGA. PORTAVA LA SOSTANZA IN CARCERE AL FIGLIO. DALL’INCHIESTA FERTILIA EMERGE UN INQUIETANTE SPACCATO DELL’INDAGINE CHE HA BLOCCATO IL SOGNO DELL’EX CAPO ZONA ALDO PICCA

Emerge anche la storia di una mamma che diventa «corriere» della droga per portare la sostanza stupefacente al figlio in carcere, dall’inchiesta della Dda battezzata «Fertilia», sfociata ieri con un’ordinanza cautelare della Dda a carico di 42 persone che, sostanzialmente ha congelato il sogno dell’ex capo zona della zona di Teverola, Aldo Picca. Ovvero quello di dare nuova linfa al clan che lui ha capeggiato tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90. Luisa Ventre, 55 anni, solo indagata, è stata sfiorata però dall’arresto (chiesto dal pubblico ministero ma negato dal gip) in quanto coinvolta come madre del detenuto Pasquale Menditto. Uno spaccato dell’indagine ha portato alla luce un complesso schema di spaccio orchestrato anche all’interno delle mura carcerarie. Dal 28 marzo al 15 maggio 2022, la Ventre è stata protagonista di ripetuti contatti con Francesco De Chiara, un affiliato a un’organizzazione criminale dedita al traffico di droga (arrestato ieri) per procurarsi sostanze stupefacenti destinate al figlio, rinchiuso nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Le intercettazioni telefoniche hanno svelato come Ventre, utilizzando espressioni criptiche come «magliette» e «scarpe», facesse esplicite richieste di droga a De Chiara, cercando di mascherare il reale contenuto delle conversazioni. De Chiara, noto per il suo coinvolgimento in attività illecite legate al traffico di droga nell’agro aversano, gestiva la distribuzione degli stupefacenti, spesso negoziando i prezzi e le modalità di consegna con i suoi contatti, tra cui lo stesso Menditto, che riusciva a comunicare con lui dall’interno del carcere. Un episodio chiave delle indagini si è verificato il 28 marzo 2022, quando Pasquale Menditto, detto Sciacallo, ha contattato De Chiara dal carcere utilizzando un telefono cellulare. Menditto ha chiesto una «mezza ricarica di cinquanta euro», un’espressione che i carabinieri hanno interpretato come la richiesta di un quantitativo di droga pari a mezzo panetto di hashish, negoziando successivamente il prezzo con De Chiara. Dopo l’accordo, Menditto ha informato De Chiara che sarebbe stata sua madre, Luisa Ventre, a occuparsi del ritiro della sostanza. La madre del detenuto, nel febbraio 2019, era già stata denunciata per il possesso di droga, occultata nel cavo orale durante un colloquio in carcere con il figlio Pasquale. Questo dettaglio, insieme al contenuto delle intercettazioni recenti, ha rafforzato l’ipotesi che Ventre stesse nuovamente agendo per rifornire il figlio di stupefacenti mentre era recluso. Tra il 16 maggio e il 6 giugno 2022, le intercettazioni hanno continuato a documentare richieste di droga fatte da Ventre a De Chiara, confermando un pattern di attività illecite. Il Pubblico Ministero ha contestato a Ventre e a De Chiara il reato di spaccio di stupefacenti, aggravato dal fatto che la droga fosse destinata a un detenuto, circostanza nota a entrambi gli indagati ma ha escluso l’aggravante camorristica. Le intercettazioni telefoniche e ambientali effettuate di militari dell’Arma, hanno rivelato il modus operandi dell’organizzazione. Emerge tra gli arrestati anche la figura di Luigi Abategiovanni, il quale, pur rispettando l’obbligo di rientro serale imposto dalle misure di libertà vigilata, riusciva a gestire ogni aspetto delle operazioni criminali attraverso una catena di comando ben definita. I suoi figli, erano particolarmente attivi nella gestione operativa, coordinando le attività degli spacciatori e assicurandosi che le consegne fossero effettuate puntualmente e senza intoppi. L’approvvigionamento della droga avveniva nel quartiere San Gaetano, a Napoli.

FONTE:  di Biagio Salvati da Il Mattino