L’attore sammaritano Francesco Russo come Cesarino Rossi, una vera scoperta nel film su Mussolini alla Mostra di Venezia

«Io sono l’uomo più disobbedito della storia» Benito Mussolini

M

di Marco Giusti

Dagospia

Eia Eia Baccalà! Che bomba questo M – Il figlio del secolo, pur schifato nella ridicola Sala Casinò, serie in otto puntate diretta da Joe Wright (L’ora più buiaAnna Karenina), fotografato da Seamus McGarvey (due candidature agli Oscar), prodotta da Lorenzo Mieli per Sky-Fremantle, sceneggiata da Davide Serino e Stefano Bises.

Tratta dal primo dei tre libri di Antonio Scurati sull’ascesa di Benito Mussolini e del fascismo in Italia, cioè dalla Fondazione dei Fasci di combattimenti a Milano nel 1919 all’omicidio di Giacomo Matteotti nel 1924, ha un cast che vede Luca Marinelli come Mussolini, Barbara Chichiarelli come Margherita Sarfatti, Francesco Russo come Cesarino Rossi, una vera scoperta, ottimo anche per il biopic di Genny Sangiuliano, Benedetta Cimatti come Donna Rachele, Gaetano Bruno come Matteotti.

Una bomba in tutti i sensi. Perché non è certo una serie, se volete un film, che si fermi solo alla ricostruzione storica del passato, ma tocca un fascismo reale e ben presente nel paese e in Europa (“Siamo ancora tra voi” dice all’inizio un Mussolini mai-morto), tocca il berlusconismo già nel trucco di M, tocca il trumpismo (con la caduta di tono della battuta Make Italia Great Again), tocca la voglia di presidenzialismo e di finirla con elezioni e democrazia.

Perché la messa in scena di Joe Wright, col continuo sfondare la quarta parete del suo protagonista, che ammicca, provoca, gioca col pubblico, mentre il video si riempie di repertori e effetti teatrali è bombastica, grottesca, pop, rock, piena di techno, le musiche che non ti lasciano mai sono di Tom Rowlands dei Chemical Brothers e amalgamano anche le canzoncine fasciste.

E perché ogni episodio, ogni capitolo è pieno di morti ammazzati con eccessi di schizzi di sangue, di torture, di soprusi su gente inerme come in nessun film sul fascismo (Novecento escluso) mi sembra di aver mai visto. E ci riporta dritti alla brutalità odiosa dei tempi di Vecchia guardia di Blasetti, il film sulla nascita del fascismo più odiato dal regime, perché osava parlare di violenza e di temi che era meglio non toccare.

Perché Luca Marinelli fa di Mussolini una sorta di Penguin, di Al Capone alla De Niro, di Zingaro alla Jeeg, di Catenacci bracardiano che può anche toccare costantemente la commedia con il suo braccio destro Cesarino Rossi di Francesco Russi, può toccare la maniacalità sessuale berlusconiana con la Margherita Sarfatti di Barbara Chichiarelli (un filo troppo Melato-Vanoni), ma sexy e intelligente al punto giusto, può perfino rovesciare ogni volta genialmente azzardi e rovesci di fortuna a suo favore, ma rimane sempre un mostro senza cuore, senza amici, senza sentimenti che vuole solo arrivare al potere e prendersi tutto.

E che non riesci mai a salvare, a volte nemmeno nello sdoppiamento attoriale quando ti guarda in macchina. Non c’è il minimo spazio, insomma, malgrado spesso faccia ridere, per la commedia, che aveva modo di insinuarsi perfino in Roma città aperta (la padellata di Fabrizi, do you remember?) e spesso domina i film italiani del Dopoguerra sul fascismo per farteli digerire, da Il federale a La marcia su Roma.

Se c’è commedia è una black comedy legata all’orrore degli eccessi di violenza e di brutalità, alle battute sulla stupidità degli amici camerati, quella del De Bono di Maurizio Lombardi, o alla fisicità dei nemici, dal Re di Vincenzo Nemolato a Nitti, al tradimento continuo di tutto e di tutti. Ma quelle che circolano sono spesso battute più alla Fusco che alla Buttafuoco (“Gli arditi ardiscono non ordiscono”), mentre lascia avvolto in una sorta di rispetto, sarà contento Giordano Bruno Guerri, la figura di D’Annunzio, interpretato ancora una volta e benissimo, da Paolo Pierobon, durante l’impresa di Fiume.

Si sa da tempo che, per la nuova narrazione della cultura di destra al potere (come pesa quella scritta sui titoli “Ministero della Cultura”, perbacco), si dovrebbe arrivare solo ai Futuristi qui ridicolizzati (“Marinetti fammi una pugnetta!”) o al massimo al D’Annunzio superdotato (“Ma che si è messo lì, una melanzana?”), e non dovrebbe quindi esserci spazio per una lettura o rilettura del fascismo e, ovviamente, dell’antifascismo, del Dopoguerra e della cultura italiana “di sinistra” del Novecento.

E allora una serie forte, fracassona, popolare, di grande potenzialità e visibilità internazionale, cattiva come questa che fa di Mussolini e delle Camicie Nere dei vilain da film della Marvel, senza darci un buono al quale attaccarci, non può che essere un bel pugno nell’occhio per Sangiuliano e Buttafuoco, coronato, come se non bastasse, dall’eterno ritorno dell’omicidio Matteotti e dalla presenza fantasmatica della vedova, interpretata da Elena Lietti, star delle serie Fremantle più avanzate.

Ora. E’ chiaro che non tutto torna nelle otte puntate dell’M di Joe Wright, e che la bella frenesia delle prime un po’ si perde in quelle successive, con un M-Marinelli sempre più gonfio e ebbro di potere ma vanno riconosciute al regista e alla produzione una cura, una ricchezza, un’attenzione scenografica, visiva (gli effetti sono strepitosi) che non si trovano di solito nelle nostre serie.

E la presenza di un regista internazionale adatto ai grandi racconti storici o alla teatralizzazioni estreme dei classici ha reso quel che vediamo qualcosa di esplosivo, come la bombetta che Mussolini e la Sarfatti continuano a far roteare sul tavolo. Bravi. In onda su Sky dai primi di gennaio 2025.

Marco Giusti