1911 – Sorrento – Sedotta, abbandonata e incriminata di infanticidio assieme alla zia ma la Corte l’assolse dopo la magistrale arringa di Giovanni Porzio (*)

di Ferdinando Terlizzi

                 

 

Il fatto, semplice ed umano, si desume agevolmente dalla lettura di que­sta limpida e commossa arringa, che cinquanta anni or sono procurò all’Oratore un indimenticabile successo. Una povera fanciulla diciannovenne, Rosa Cesarano, s’innamorò d’un giovane che, dopo averla a sè avvinta con subdole arti, la sedusse, la rese incinta e, quindi, l’abbandonò, soffiandole nell’orecchio, all’atto della ignobile fuga, un pravo consiglio: l’aborto. La famiglia di lei, gelosa custode dell’onore familiare, appreso il fatto, scac­ciò, senz’altro, da casa, la ragazza, contro la quale fu implacabile anche in se­guito, durante la di lei prigionia ed il conseguente processo. L’infelice sedotta, sperduta, da tutti vilipesa e abbandonata, riparò in uno sperduto casolare di campagna, presso una vecchia zia, ove, più tardi, dette alla luce una creatura, che la levatrice, accorsa, constatò morta per soffocamento. La Rosa Cesarano fu arrestata e rinviata dinanzi la Corte d’Assise di Napoli, unitamente alla zia: la prima, sotto l’imputazione di infanticidio; la seconda, quella di favoreggiamento. Il processo fu trattato nel 1911. Il Pubblico Ministero sostenne l’accusa, concedendo la ragione d’onore, ma la Corte, in perfetto accoglimento della tesi difensiva, mandò completamente assolute la Rosa e la zia di lei. Ecco un breve stralcio della magistrale arringa di Giovanni Porzio. “… a diciannove anni, tradita ed abbandonata dal fidanzato, scacciata dai suoi, accolta segretamente da una vecchia parente – smarrita, disperata, in catene, ora, innanzi a voi, monotonamente ripete quello che ha sempre detto, che ha dichiarato tante volte – Non So, non so come; non ricordo più nulla: la mia creatura me la son trovata accanto morta, soffocata….  Il Pubblico Ministero, ieri, ha creduto addirittura sorpren­derla, vederla cautamente intenta a sopprimere la creaturina appena nata… Penso, con Quintiliano, che non v’è eloquenza di cose false. E l’eloquenza di questa pagina d’arte mi pare, ora più che mai, profonda. E’ di Bojer.  Descrive la corsa disperata d’una povera giovane sedotta resa madre. Essa avea abbandonata la propria creatura nell’Ospizio dei trovatelli. Ma, diventata poi ricca, non ebbe che una smania: ricercarla. E corse, la madre, allora, di paese in paese; ne campagne, nelle città, per anni, profondendo danaro, invocando figlio abbandonato che non ritrovava più… E così la ragione sì spense, e la vita le venne meno. La maternità soffocata, Signori, insorge, grida il suo, diritto e il suo strazio. Non è letteratura. Despine, il grande psicologo, nella sua opera insuperata, narra ancora d’una ragazza che, dopo aver partorito, gettò il suo bimbo in un pozzo. Lo riportarono a lei, vivo. Ed essa lo prese, lo scaldò, a sè stretto lo tenne, baciandolo con furiosa passione. Non volle staccarsene più. Che rappresentano, Signori, pochi o molti anni di reclusione di fronte alla cruda sorte di costei, dannata ad una pena perpetua a chiamare disperatamente ed invano…Pensate. Il delitto d’una donna assai spesso è da ascriversi un uomo colpevole che resta, invece, impunito. Assolvetela, adunque. E ditele che, nella vita, non tutto è perfidia, inganno, implacabilità, infamia.

 

 

(*) Fonte: Giovanni Porzio – Arringhe – Jovene Editore – 1963