*Israele, alla resa dei conti con barbe e turbanti* di Vincenzo D’Anna*
Di citazioni famose sul ripetersi della Storia e sul quanto sia vana la ricerca della verità, se ne potrebbero fare a decine. Da quella, forse più nota, di Giambattista Vico sui “corsi e ricorsi storici ” a quella di Albert Einstein “nel campo di coloro che cercano la verità non esiste autorità umana. E chiunque tenti di fare il magistrato viene sommerso dalle risate degli dei”. Ne consegue che in Medio Oriente, ove ormai divampa una guerra cruenta che si è allargata anche al Libano ed in qualche misura alla Siria, le cose da un lato si ripetono rispetto al passato e dall’altro appaiono sempre meno prevedibili. L’invasione del “paese dei cedri” da parte dell’esercito di Israele, nominalmente limitata alle zone meridionali di quello Stato, ricorda, per similitudine, la guerra dei “sei giorni” che Tel Aviv combattè, vittoriosamente, nel 1967, per difendersi dall’attacco congiunto di Egitto, Siria e Giordania, supportati militarmente ed economicamente da una dozzina di altre nazioni arabe. Le truppe della stella di David, con una fulminea offensiva che anticipò i raid nemici, conquistarono numerosi territori appartenenti agli aggressori. Fu così per le alture del Golan, per parte del Sinai, della Cisgiordania e di Gerusalemme stessa. Anche allora gli aggressori uscirono con le ossa rotte al cospetto di truppe ben armate, appoggiate dagli Stati Uniti, che combattevano per la sopravvivenza delle proprie famiglie e delle proprie case. Così finora è stato dopo la vile aggressione di Hamas, il 7 ottobre del 2023, costata la morte di oltre mille persone. Israele ha praticamente raso al suolo Gaza e lo Stato palestinese, finito nelle mani di Hamas, per poter smantellare la complessa e vasta rete di strutture messe in piede dai gruppi terroristici. Così sta facendo ora contro gli Hezbollah libanesi che da mesi la martellano con armi e missili forniti dagli Ayatollah sciiti Iraniani e così si sta facendo con gli Uti dello Yemen, anch’essi longa manus di Teheran. E’ facile prevedere che, come per i fanatici di Hamas e per i loro complici politici palestinesi, anche gli Hezbollah e gli Uti saranno ben presto ridotti ai minimi termini e che molti dei territori nei quali questi gruppi paramilitari hanno finora operato indisturbati, potrebbero, in qualche misura, finire sotto il controllo diretto di Tel Aviv. Insomma, come nella “guerra dei sei giorni”, anche stavolta i pifferi di montagna etero-diretti dai teocratici governanti dell’Iran sembrano destinati a rimanere suonati. Quali i fattori determinanti di questo scenario che incombe come prospettiva ultima della guerra mediorientale? In primis la tenacia, la determinazione del popolo ebreo, dove ogni cittadino lotta per la sopravvivenza futura e diventa soldato della propria patria senza eccezioni di sorta. A seguire, c’è poi la potenza dell’esercito di uno Stato che conta solo dieci milioni di persone, ma che possiede l’atomica ed un arsenale bellico di altissimo profilo, finanziato dalle potenti lobby finanziarie ebraiche sparse nel mondo. Tuttavia il fattore determinante risulta essere lo spirito di sacrificio di gente che utilizza un portato storico tremendo, fatto di deportazioni e di persecuzioni patite nel corso dei secoli fino allo sterminio nazista della Shoah. Quel popolo sa che fuori dal proprio Stato lo aspetta una sorte terribile e l’antisemitismo, tuttora presente nel mondo, lo conferma come presago di certe e future sventure. La vera partita, in ogni caso, si gioca sulla direttrice tra Tel Aviv e Teheran, sulla sconfitta dei barbuti governanti che oggi governano i territori dell’antica Persia e che fomentano uno spietato conflitto di religione con le sure del Corano in mano inneggiando alla “jihad” islamica, alla guerra santa contro gli infedeli. In cosa consiste questa sfida? Quali i costi per i due contendenti? Semplice: per Israele si tratta di un ulteriore sforzo bellico stavolta in grande stile, ingaggiato con armi sofisticate come missili, sistemi anti-missili, aerei, contraerea, guerra elettronica e di intelligence. Per gli Ayatollah invece, oltre alle bombe, quello che si profila è uno sforzo ben più grande non solo di tipo militare. Un costo a dir poco esoso, che i “preti” con il turbante temono più di ogni altra cosa perché potrebbe portare alla destabilizzazione di un sistema interno al paese che si regge sul fanatismo ma ancor di più sulla repressione. Una guerra del genere, infatti, darebbe modo al fronte dell’opposizione interno in Iran, che pur esiste e si è mobilitato più volte portando in piazza migliaia di studenti ed esponenti della società laica, di rialzare la testa!! Durante il conflitto, oltre agli orrori propri della distruzione, alla tragica conta dei morti, dei feriti, degli sfollati ed all’eliminazione dei leader religiosi (divenuti essi stessi bersaglio privilegiato), si allargherebbero le maglie del controllo e della repressione a mezzo dei “ pasdaran”, le famigerate truppe religiose scelte del regime per reprimere ogni dissenso, e sempre pronti a fare la voce grossa. Si profilerebbe però, in tal caso, lo spettro di una rivolta popolare, attizzata anche da una crisi economica sia per i costi della guerra sia per le vittime innocenti. In pratica la stessa rivolta che nel 1979 cacciò l’ultimo scià di Persia Reżā Pahlavī consentendo all’ayatollah Ruhollah Khomeini di instaurare il regime teocratico. Una partita, per dirla tutta, che le barbe ed i turbanti temono di giocare e questo Israele lo sa benissimo.
*già parlamentare