Sanità e monopoli: che fine ha fatto la “buona salute”?* di Vincenzo D’Anna*
“E’ più facile rompere un atomo che un pregiudizio”, sosteneva Albert Einstein. Un’espressione, la sua, che ben si attaglia alla sanità italiana ed a quell’immarcescibile idea che lo Stato debba avere il monopolio assoluto delle cure. Il pregiudizio nasce e si afferma da una colossale menzogna, incartata nella legge di riforma n. 833 del 1978: una norma ambiziosa e per taluni versi intrisa di demagogia, che promette tutto a tutti con tanto di corredo di una vita lunga ed in buona salute. Tale legge fu il frutto della precarietà politica in cui versava la maggioranza parlamentare di quegli anni: erano infatti quelli i mesi del quarto governo Andreotti formato dopo il rapimento dello statista democristiano Aldo Moro e la sua barbara uccisione da parte delle Brigate Rosse. Quell’esecutivo si teneva in piedi con il meccanismo della “non sfiducia” e l’appoggio esterno del Pci. Era dunque debole e precario. Solo un’entità del genere in fondo avrebbe potuto licenziare un atto cosi presuntuoso, generoso e dispendioso, la cui impronta era iper statalista e si basava sulla tesi che in sanità il profitto dovesse essere abolito perché funge da ostacolo alla realizzazione di una superiore etica dei fini. Un marchio tipico del marxismo che non perora né difende i principi di merito, efficienza ed economicità di una sana competizione tra pubblico e privato. Al contrario, con quella legge si puntava sul monopolio statale della salute come unica, apodittica garanzia della “buona sanità”. Chi se non lo Stato poteva garantire la gratuità e l’universalità delle cure e della prevenzione delle malattie dalla culla alla bara? Eppure la precedente legge Mariotti aveva recepito il dettato costituzionale alla lettera garantendo comunque le cure ai malati ed agli indigenti ma costando molto meno all’erario statale. La nuova riforma introduceva invece il fantastico proposito di prevenire le malattie, curarle per recuperare oppure mantenere in buona salute psico fisica chiunque e gratuitamente. Il risultato sono i soldi spesi per la sanità del Belpaese: 135 miliardi all’anno con un sistema che di giorno in giorno dà sempre più chiari segni di implosione!! Con l’improvvida riforma del titolo V della Costituzione, voluta dal governo di centrosinistra di Massimo D’Alema, le Regioni hanno esautorato i poteri del Ministero della Salute vedendo moltiplicati i centri di spesa e, con essi, la gestione politico-clientelare ed affaristica della sanità territoriale e delle varie aziende sanitarie locali. Tuttavia, la cantilena che la cosiddetta “sanità pubblica” fosse garantita solamente con il monopolio statale, continua a far ancora presa sulla gente comune. Quella stessa gente che poi, di fronte alle chilometriche liste di attesa, alla disorganizzazione, ed alla sciatteria generalizzata, si trova costretta a mettere mano alla tasca per avere accesso a prestazioni più adeguate ed efficaci!! Non si capisce quindi perché mai resista in sanità questo convincimento nel mentre in tanti altri comparti e servizi, gli stessi cittadini (e la politica) invochino sistemi nei quali la competizione e la misurazione dell’efficienza siano criteri indispensabili. Per capirci: perché i trasporti, le poste, le aziende energetiche, le autostrade, le acciaierie, le assicurazioni, la telefonia, l’informatica e la telematica, per poter funzionare meglio ed essere competitivi, nell’interesse degli utenti, possono misurarsi con i privati accreditati per erogare quei servizi ed in sanità ai cittadini viene praticamente negata la stessa possibilità di libera scelta del professionista o del luogo di cura? Perché a costoro si dice di mangiare quella minestra oppure di saltare dalla finestra? Perché i vantaggi della concorrenza non possono essere goduti anche dai malati? Inutile sottolineare che i miliardi a pioggia sono un formidabile argomento in favore del monopolio statale (oltre che per la politica) e che la demagogia programmatica, il posto fisso e l’identico stipendio per tutti, sono fattori di sperpero e disaffezione!! In fondo la fuga dei medici verso il comparto accreditato, seppur vessato e limitato dai tetti di spesa annuali (oltre che pagati a tariffa e DRG e non a piè di lista come invece avviene nell’analogo comparto statale), rappresenta il segnale più evidente di come, su quel versante, c’è qualcosa che non va!! Lo stesso espatrio dei tanti “camici bianchi” verso altri paesi europei è un altro dato eloquente di quanto bacato sia quel sistema organizzativo !! Eppure il “ Moloc” statale non si accontenta: continua a rifondere denaro e pretende finanche di gestire il monopolio della formazione dei sanitari, contingentando le scuole di specializzazione e le connesse borse di studio che, si badi bene, non vengono concesse agli specializzandi “non medici”. Peccato però che il programmatore statale non abbia previsto, quello che non potrà mai prevedere come il libero arbitrio delle persone, che il quaranta percento di quei posti non riescono ad essere coperti perché i medici sono diventati pochi e certe professioni ritenute molto rischiose e poco attrattive economicamente. In fondo, per quale motivo un medico che lavora al “pronto soccorso” del Cardarelli di Napoli, dove magari anche sedie e scrivanie sono state occupate per accogliere i malati gravi in attesa di cure, dovrebbe percepire l’identica retribuzione di un dermatologo che opera in un più tranquillo ospedale di provincia? Perché le strutture accreditate, le uniche verificate e certificate per i requisiti richiesti e senza liste di attesa (!), possono avere, dopo anni di tagli, solo il 2% di aumento dei tetti di spesa? Perché non si chiudono nosocomi che sono ben al di sotto dell’indice di occupazione dei posti letto stabilito dalla legge? Semplice: perché la sanità pubblica del Belpaese è una grande mangiatoia che procura voti e qualche volta soldi ai politici!! Peccato che di converso ai malati assicuri ben altro che non la promessa ed auspicata buona salute!!
*già parlamentare