*Medio Oriente, guerra tra civiltà?* di Vincenzo D’Anna*

Il fragore delle bombe, la distruzione di interi quartieri e la morte di migliaia di civili inermi, rappresentano, ormai, il resoconto quotidiano della guerra che sta infuriando in Medio Oriente. Ancorché si ripetano le invocazioni per la pace, il teatro di questo tragico conflitto si sta allargando sempre più coinvolgendo, con Israele e la Palestina, anche il Libano, lo Yemen, la Siria e l’Iran degli Ayatollah, paese che da tempo fomenta ed arma tale scontro per odio religioso e politico contro gli ebrei. Ma guardiamo ai fatti: da un lato c’è chi ha aggredito Tel Aviv per cancellare la stato della “stella di David” dalla cartina geografica; dall’altro chi si sta difendendo ad oltranza, finendo per cadere, esso stesso, “in colpa” per l’eccessivo costo in termini di vite umane procurato da una forma eccessiva di risposta militare. D’altronde è più che risaputo che nel crogiolo della guerra si fondono ragione e diritto. E se i vivi sono portatori di quelle prerogative, i morti sono tutti uguali. E tuttavia non bisogna mai perdere di vista la distinzione tra chi la violenza la propone e chi, invece, è costretto a subirla. Non bisogna perderla in Ucraina ma anche in Medio Oriente se non si vuole smarrire l’orientamento per distinguere la ragione dal torto. Nel caso di Israele, quella perpetrata dallo Stato palestinese – di cui, al di fuori di ogni ipocrita infingimento, Hamas è la vera espressione politica e governativa – è solo l’ultimo di una lunga sequela di aggressioni e di attacchi sferrati contro gli ebrei dal dopoguerra ad oggi. Un conflitto lungo e sanguinoso, scatenato inizialmente dagli stati arabi di confine e poi, via via, portato avanti da sigle e gruppi terroristici di chiara matrice marxista e soprattutto islamista, quest’ultima intesa come degenerazione fideista del credo religioso islamico che opera attraverso la Jihād, la “guerra santa” contro gli infedeli.

Sia come sia, l’oggi non è diverso dallo ieri e la difesa di Israele deve necessariamente poggiarsi sull’azione militare rivolta verso quanti ne minacciano l’esistenza a causa di un radicato pregiudizio. La soluzione trovata, nel luglio del 2000, nel vertice di pace in Medio Oriente a Camp David tra l’allora presidente Usa Bill Clinton, il primo ministro israeliano Ehud Barak, ed il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Yasser Arafat, quella dei due popoli per due Stati, non ha evidentemente retto nel tempo. Nel secolo scorso le aggressioni contro Israele avevano motivi ideologici e politici; le monarchie assolute, le satrapie degli emirati arabi, congiuntamente ai paesi retti da dittature di stampo marxista (legati all’Urss), vedevano, in quel paese, un nemico, un corpo estraneo, magari etero-diretto dagli States. Una nazione di tipo occidentale e dunque costituzionale e parlamentare con tutto il corollario di diritti civili e politici che questo comporta. Uno stridente esempio per i regimi autocratici ed autoritari, arcaici ed illiberali, di cui Israele rappresentava semmai l’antitesi. Oggi questa componente ideologica pare affievolita e circoscritta: molte nazioni con il simbolo della mezzaluna infatti hanno riconosciuto Israele intessendo normali rapporti commerciali con Tel Aviv.

Fa eccezione la componente religiosa di Hamas (palestinesi), ma anche quella degli Hezbollah (libanesi filo iraniani), degli Uti (Yemen) e della Siria di Baššār al Abbas, corroborati da una forte matrice anti americana e filo socialisteggiante. Quello che oggi muove l’odio non è dunque solo l’antisionismo (odio politico) bensì l’antisemitismo (l’odio religioso) vero e proprio. Un qualcosa che trova il suo motore nella teocrazia iraniana, nella latente e sempre eterna violenza fideistica musulmana. Gli Ayatollah e le frange estremiste dell’Isis, per quanto ridotte al margine, combattono una guerra di religione, anche finanziata con gli aiuti dell’Occidente i cui denari sono stati utilizzati per scavare tunnel e non per costruire infrastrutture, per armare bande terroristiche e non per attrezzare ospedali, scuole, commerci e tribunali. Soldi spesi insomma non per emancipare il popolo bensì per tenerlo schiavo delle tesi della “violenza armata”. Quella in corso, pertanto, è una guerra di civiltà, di modi diversi di intendere lo Stato e la società aperta che pure vige in Israele. Quello che stride ed allarma le frange estremistiche del credo islamico sono i diritti e gli stili di vita che connotano Tel Aviv ed il suo popolo: le libertà costituzionali, i diritti civili, il libero commercio, l’emancipazione e la parificazione del genere femminile, la libertà di scelta. Prerogative connaturate al modello occidentale e che rappresentano pericolosi esempi per le società confessionali ed arcaiche degli Stati aggressori. Non si spiega altrimenti tanto e duraturo odio e tutte quelle minacce permanenti che possono far saltare, da un momento all’altro, il tappo religioso delle regole coraniche che opprimono intere comunità assoggettandole ad una ferrea osservanza. Nelle madrasse islamiche (scuole religiose) si insegnano precetti di vita medievali, la prevalenza della fede sullo Stato di diritto. Israele no. Il paese di David, sotto questo aspetto, rappresenta un avamposto dell’Occidente e delle società emancipate contro modello di vita così arretrati: il vessillifero, insomma, di quello che siamo come europei e di quello in cui crediamo. Solo gli invasati del multi-culturalismo e dell’omologazione forzata con quelle idee che sono contro il nostro mondo, tollerante e pacifico, con democrazia decisionale e libertà civili, possono trascurare elementi del genere. Tacere sulle radici di un conflitto che ormai si è tramutato in uno scontro tra civiltà, è espressione di un nichilismo culturale che va arginato.

*già parlamentare