Crisi economica? No, solo politica!!* di Vincenzo D’Anna*

Di recente, a Stoccolma, è stato assegnato il premio Nobel per l’Economia. Tre i beneficiari. Si tratta di Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson. Tuttavia i temi trattati dai tre studiosi non sono di natura squisitamente economica, sconfinando, semmai, in un ambito più politico e sociologico, il che ha suscitato un po’ di curiosità tra gli addetti ai lavori. Per quanto strano i loro report hanno riguardato, infatti, il rapporto tra l’economia e la qualità delle istituzioni politiche e come la ricchezza possa riguardare – nel lungo termine – l’apparato stesso delle istituzioni attraverso le quali si governa una nazione. Per l’Italia è come parlare di corda in casa dell’impiccato, perché se c’è un paese che dovrebbe fare propria la lezione dell’edizione 2024 del Nobel, questo è proprio il nostro. Il premio infatti è stato assegnato per le ricerche sul modo in cui le istituzioni si formano ed influenzano la prosperità o, per meglio dire ,la “ricchezza” di una nazione. Giova ricordare che proprio la ricchezza è stata definita da Adam Smith, padre del pensiero economico moderno, come l’insieme dei beni “scarsi” posseduti dallo Stato in termini di materie prime (teoria classica) con l’aggiunta dei beni prodotti (teoria neo-classica). In parole povere una nazione è prospera, in partenza, se possiede materie prime da utilizzare per gli scopi produttivi.

Basti pensare all’oro ed agli altri metalli preziosi che determinano la garanzia per la quantità di moneta stampata in rapporto a quei beni rifugio che da sempre hanno costituito la base della solidità di uno Stato. Beni “scarsi” appunto perché sono rari a trovarsi e come tali di enorme valore economico proprio per la loro scarsità. Se al posto dell’oro o del platino si fosse usata, come riserva e garanzia, la sabbia del deserto o l’acqua dei fiumi, questa avrebbe avuto ben poco valore per la larga presenza e la facile accessibilità. Se poi si pensa che tutta la moderna elettronica si basa sui semi conduttori ed i microchip, ben si comprende come anche altri metalli abbiano acquisto valore strategico sul mercato ed in economia. A queste ricchezze estrattive e già presenti in natura, si sommano i prodotti dell’industria, che di quelle rarità si servono. Un esempio su tutti è quello rappresentato dal litio e dai metalli rari che costituiscono la materia base per i device (smartphone e computer), le batterie delle auto elettriche ed il materiale radio attivo per le centrali nucleari. Tuttavia una nazione non ha bisogno solo di tale tipologia di risorse naturali quanto di un’economia florida e di governi che siano in grado di realizzare quella prospettiva di diffuso benessere . Necessita cioè degli eventi che determinano, all’interno di una società, un cambiamento positivo e progressivo in termini di governance.

In fondo è il sistema politico a determinare il benessere economico e non solo la ricchezza naturale posseduta. Anzi nel medio e lungo periodo, le società con istituzioni libere e ben funzionati – entro le quali la libera iniziativa e il mercato di concorrenza (che si avvale del merito, delle capacità e delle buone leggi) esaltano la sana competizione – sono quelle più progredite e più opulente. Una relazione tra queste entità statuali e la florida economia ci riporta, empiricamente, a quell’episodio riportato dalle cronache del XVII secolo allorquando Jean Baptiste Colbert, ministro delle finanze di Luigi XIV di Francia (il famoso “Re Sole”), convocò i locandieri di Parigi per acquisire il loro parere su cosa fosse utile che lo Stato facesse per sostenere le loro attività economiche. Uno di essi chiese a nome di tutti: “ci bastano, semplicemente, buone strade e buona moneta”. Insomma, si chiedeva che lo Stato fosse solerte ed efficiente, oltre che minimo nei suoi interventi in economia, garantendo, innanzitutto, infrastrutture come le arterie viarie affinché la gente viaggiasse e spendesse, poi una moneta stabile ed appetibile per i commerci, frutto di una buona gestione della cosa pubblica. Concetti che emergono con prepotenza dallo studio dei Nobel che hanno monitorato il periodo storico del colonialismo verificando che, laddove le nazioni occupanti si erano solo preoccupate di saccheggiare le risorse naturali dei paesi “conquistati”, questi ultimi erano rimasti, in seguito, ancora sottosviluppati.

Viceversa laddove i colonizzatori avevano fornito, agli “sfruttati”, anche i propri modelli istituzionali e politici, ossia il dagherrotipo della struttura sociale che ne scaturiva, questi, una volta finita la fase coloniale, avevano saputo e potuto camminare sulle loro gambe e quindi progredire anche economicamente. Tali sono l’esempio del Canada, dell’Australia, del Sudafrica, dell’India, dell’Algeria e di tanti altri paesi per i quali il colonialismo non rappresentò solo un rapace sfruttamento ma anche l’adozione di un valido sistema di governo. Insomma: per funzionare, le economie libere e floride hanno bisogno di istituzioni politiche forti ed efficaci, ma anche di diritti civili e libertà d’impresa. Solo così si potranno ben comprendere le ragioni della ricchezza e della povertà delle nazioni.

*già parlamentare