*Il Nabucco delle toghe* di Vincenzo D’Anna*
Un tempo a scuola s’insegnava la Storia e quindi anche quella del Risorgimento, il tormentato periodo della metà dell’’800 in cui la nostra penisola diventò una sola nazione, la patria di tutti gli italiani. In quel periodo (l’Unità completa fu raggiunta solo nel 1861), le teorie repubblicane di Giuseppe Mazzini facevano numerosi proseliti tra il popolo trasformandosi in anelito di libertà, spirito di ribellione contro lo straniero occupante. Erano, i primi “ribelli”, intellettuali, nobili, professionisti mischiati a gente comune che esercitava ruoli sociali ordinari. Quella ribellione però si manifestò, ad esempio, anche contro Francesco II di Borbone, re legittimo del Regno delle Due Sicilie, con le sommosse di Palermo e Napoli, ma anche di Firenze e soprattutto di Torino dove non pochi manifestarono contro il re di casa Savoia Carlo Alberto, che pure era di animo liberale. Entrambi i regnanti dovettero promulgare una Costituzione. Insomma, la gente era stanca di essere amministrata da monarchie assolute, se non dispotiche, e per questo invocava l’adozione di una carta Costituzioniinale che riconoscesse i diritti civili e le libertà individuali. In fondo il fuoco della idee della Rivoluzione francese covava ancora sotto le ceneri di mezza Europa. E fu quello il combustibile che alimentò i numerosi moti che animarono la prima metà del XIX secolo: famosi quelli del Lombardo-Veneto, che allora giaceva sotto il controllo dell’impero Austro Ungarico, con le celebri “cinque giornate di Milano” del marzo del 1848 durante le quali i meneghini riuscirono a cacciare le truppe comandate dal famoso generale conte Josef Radetzky. Quei moti fecero scorrere per la prima volta sangue “italiano”, destinato a diventare linfa nelle epoche successive, per le guerre di liberazione e tutte lotte popolari contro la tirannide come quelle partigiane. Una lunga introduzione, la nostra, che si rende necessaria per richiamare, alla mente, le origini ideali che animarono il popolo italiano per ottenere uno Stato unitario e soprattutto l’alto tributo di sangue che i nostri antenati hanno dovuto pagare per vedersi riconosciuti i giusti aneliti di giustizia e libertà. Occorre rimarcare la ormai sopita reminiscenza che uno Stato nasce su quei presupposti di sacrificio, ideali e valori, per poi organizzarsi attraverso un atto costitutivo condiviso fatto di regole, diritti e doveri che tutti, nessuno escluso, si obbligano ad osservare per vivere in pace ed in libertà, ossia dotarsi della Magna Carta costituzionale che li custodisca. In quel “tutti”, si badi bene, va identificato il popolo. Sì, proprio quel popolo nel cui nome i magistrati sono chiamati ad amministrare la giustizia, nel pieno rispetto dei compiti e degli ambiti specifici che spettano all’azione giudiziaria. Se si perde, infatti, questa visione, se, di quel mandato, si smarriscono i limiti di esercizio e lo spirito di servizio, ecco allora che quel delicatissimo magistero rischia, paradossalmente, di potersi trasformare in un atto d’imperio, in un indebito abuso di potere. Da decenni nel Belpaese queste nozioni di base (per quanto ovvie logicamente e provate storicamente), incartate nella madre di tutte le leggi (la Costituzione), si sono rarefatte. Tutta colpa di un’idealità inquinata, di una sordida lotta ingaggiata tra chi è stato chiamato a governare il Paese (leggi: classe politica), eletto democraticamente e quindi legittimato dal voto popolare a rappresentarlo, ed i componenti dell’ordine giudiziario, i giudici, assunti per concorso, quindi dipendenti dello Stato. Non c’è da scomodare Montesquieu e la divisione dei poteri dello Stato, per definire questo scontro “patologico ed illiberale”. Esso non può persistere nel tempo senza mettere in discussione (ed in pericolo!) le fondamenta stesse dello Stato costituzionale. Occorre rimarcarlo bene prima di ogni polemica – fondata oppure strumentale – al di là dei casi di specie che l’alimentano. Chiariamo subito: quello dei magistrati è un ordine dichiarato indipendente nella sua funzione, trasformatosi in intangibile ed irresponsabile. Comunque sia non si tratta, nel loro caso, di un potere alternativo oppure ostativo e sovrastante a quello del popolo chiamato a scegliere liberamente e sovranamente i propri governanti. I togati possono certo giudicare e condannare politici ed amministratori (oltre che i loro colleghi magistrati) quando questi violano la legge del Parlamento, alla quale tutti devono sottostare, ma non possono assumere ruoli etici o morali, né possono assegnarsi il ruolo di “liberatori” dei mali politici , tantomeno agire in ossequio ai propri convincimenti di partito o alla propria visione socio economica!! Peggio ancora se visioni e convincimenti sono volti alla tutela degli interessi di categoria!! Ebbene proprio questi fattori sono emersi, ahinoi, in maniera netta e chiara, dalla nota che il sostituto procuratore della Cassazione, Marco Paternello ha inviato, via mail, ad alcuni suoi colleghi della corrente di Magistratura Democratica, le cosiddette toghe rosse. Quelle toghe che elevano la loro funzione ad elemento di lotta politica e di giustizia sociale. “Giorgia Meloni non ha inchieste giudiziarie a suo carico e quindi non si muove per interessi personali ma per visioni politiche e questo la rende molto più forte, e anche molto più pericolosa la sua azione” scrive il giudice dolendosi quasi del fatto che sia impossibile fermare l’attuale presidente del Consiglio nelle aule di tribunale, così come, ad esempio, accadde con Silvio Berlusconi!! Ora, che la leader di FdI sia da ritenersi un “pericolo” per la categoria togata (e per i suoi privilegi) solo perché ella intende adottare una legge parlamentare in materia giudiziaria, ci sembra francamente azzardato ed inammissibile, per non dire assurdo. Ma in ogni caso non è cosa che compete ai giudici perché non tocca assolutamente a loro “salvare” il popolo dai governanti!! Questo al massimo può farlo il popolo stesso con l’arma del voto, rispedendo a casa chi ha mal gestito la cosa pubblica. Da quale fonte del diritto proviene questa missione etico- politica? A questo punto, per i giudici di marca dem, manca solo costituirsi in partito politico, e perché no munirsi di un simbolo e di un inno. In questo ultimo caso della celebre aria del Nabucco: “va pensiero”, con il famoso canto “Oh mia patria sì bella e perduta, oh membranza sì cara e fatal”!! Si faccia subito la riforma della giustizia oppure la stessa Repubblica andrà in malora.
*già parlamentare