HomeAttualità“Ultore”… la parola del giorno a cura del prof. Innocenzo Orlando
“Ultore”… la parola del giorno a cura del prof. Innocenzo Orlando
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Ultore
ul-tó-re
Significato Che vendica, che punisce
Etimologiavoce dotta recuperata dal latino ultor ‘vendicatore’.
«Ha subito un torto e cerca un ultore.»
A che cosa ci servono le parole alte, le parole letterarie, se nelle nostre giornate non abitiamo queste altezze? Certo ad accedere al patrimonio letterario, ma spesso sfugge che possono tornare buone anche fuor di letteratura e fuor di poesia, per motivi precisi.
‘Ultore’ è una parola di origine antica. Il latino ultor è nome d’agente del verbo ulcisci, che significa pianamente ‘vendicare’ — quindi siamo davanti a un vendicatore. In italiano vive come aggettivo e come sostantivo, di tradizione dotta.
Chi ci ha messo in difficoltà finisce per trovarsi in grande imbarazzo, e lo troviamo un imbarazzo ultore; aspettiamo un ultore della sofferenza patita; e a carte, dopo quella sfortunata, ci aspetta una mano ultrice.
È una parola che nelle belle lettere si presta ad affreschi intensi — dopotutto quello di vendetta è un sentimento drammatico e oltre, melodrammatico. Pensiamo all’Endimione di Metastasio: «Chi mai l’ira non teme / della mia destra ultrice?» E proprio questo ci indica che cosa è in grado di fare l’ultore.
Il fatto che le parole elevate siano meno usate le rende più difficili da decifrare e padroneggiare, questo è chiaro. Le guardiamo perfino con sospetto. Ma il fatto che siano meno frequentate le conserva anche più pulite, meno usurate, e meno inclini a rotolare verso il luogo comune. Sono parole meno dette, meno condivise, con un destino meno determinato.
Ora, la vendetta è una faccenda problematica. Da un lato si sa che la vendetta non va bene — bisogna volere giustizia, non vendetta, e questa è una delle questioni morali più vecchie e sofferte della nostra cultura, di quelle che con più urgenza cerca di passare a chi cresce; d’altro canto è un istinto poderoso, che realisticamente è parte di noi e frequenta assiduamente i nostri pensieri. La sete di vendetta, il gridare vendetta sono volti domestici, per quanto problematici.
Il vendicatore, col fatto che come sostantivo e aggettivo ha un profilo più definito, è incandescente e molto chiaro. Parlare dell’imbarazzo vendicatore, del vendicatore che ci riscatterà, della mano che ci vendica scandisce bene il concetto, lo mette in piena, piana luce. L’ultore invece ci dà delle pinze per prendere la vendetta da più lontano; non si fa concettualmente meno intensa, ma il calore s’intiepidisce, i contorni si fanno più sfumati, e quella via che ci porterebbe subito all’intero luogo comune della vendetta, diventa più obliqua. Una possibilità di pregio, che ovviamente rimane nel bacino di una lingua alta — l’ultore non è un soldo spicciolo. E questo è solo il versante serio: come tante parole di questo alto livello, si presta garbatamente all’ironia — e possiamo quindi parlare del sugo ultore che in un guizzo chiazza la camicia di chi ci ha detto una parola storta.
Non la useremo oggi comprando zucche al mercato (forse), ma è una splendida possibilità.
A che cosa ci servono le parole alte, le parole letterarie, se nelle nostre giornate non abitiamo queste altezze? Certo ad accedere al patrimonio letterario, ma spesso sfugge che possono tornare buone anche fuor di letteratura e fuor di poesia, per motivi precisi.
‘Ultore’ è una parola di origine antica. Il latino ultor è nome d’agente del verbo ulcisci, che significa pianamente ‘vendicare’ — quindi siamo davanti a un vendicatore. In italiano vive come aggettivo e come sostantivo, di tradizione dotta.
Chi ci ha messo in difficoltà finisce per trovarsi in grande imbarazzo, e lo troviamo un imbarazzo ultore; aspettiamo un ultore della sofferenza patita; e a carte, dopo quella sfortunata, ci aspetta una mano ultrice.
È una parola che nelle belle lettere si presta ad affreschi intensi — dopotutto quello di vendetta è un sentimento drammatico e oltre, melodrammatico. Pensiamo all’Endimione di Metastasio: «Chi mai l’ira non teme / della mia destra ultrice?» E proprio questo ci indica che cosa è in grado di fare l’ultore.
Il fatto che le parole elevate siano meno usate le rende più difficili da decifrare e padroneggiare, questo è chiaro. Le guardiamo perfino con sospetto. Ma il fatto che siano meno frequentate le conserva anche più pulite, meno usurate, e meno inclini a rotolare verso il luogo comune. Sono parole meno dette, meno condivise, con un destino meno determinato.
Ora, la vendetta è una faccenda problematica. Da un lato si sa che la vendetta non va bene — bisogna volere giustizia, non vendetta, e questa è una delle questioni morali più vecchie e sofferte della nostra cultura, di quelle che con più urgenza cerca di passare a chi cresce; d’altro canto è un istinto poderoso, che realisticamente è parte di noi e frequenta assiduamente i nostri pensieri. La sete di vendetta, il gridare vendetta sono volti domestici, per quanto problematici.
Il vendicatore, col fatto che come sostantivo e aggettivo ha un profilo più definito, è incandescente e molto chiaro. Parlare dell’imbarazzo vendicatore, del vendicatore che ci riscatterà, della mano che ci vendica scandisce bene il concetto, lo mette in piena, piana luce. L’ultore invece ci dà delle pinze per prendere la vendetta da più lontano; non si fa concettualmente meno intensa, ma il calore s’intiepidisce, i contorni si fanno più sfumati, e quella via che ci porterebbe subito all’intero luogo comune della vendetta, diventa più obliqua. Una possibilità di pregio, che ovviamente rimane nel bacino di una lingua alta — l’ultore non è un soldo spicciolo. E questo è solo il versante serio: come tante parole di questo alto livello, si presta garbatamente all’ironia — e possiamo quindi parlare del sugo ultore che in un guizzo chiazza la camicia di chi ci ha detto una parola storta.
Non la useremo oggi comprando zucche al mercato (forse), ma è una splendida possibilità.