Marcianise, 1950.  Con sette martellate in testa uccise il padre. I cittadini fecero una colletta per la sua difesa. E sette furono gli anni di carcere

 

 di Ferdinando Terlizzi  (*) 

 

Nel mio libro Delitti in bianco & nero a Caserta,  dove riporto processi, enigmi, retroscena, orrori e verità giudiziarie, ma,  che è anche un viaggio nella provincia attraverso la morte, la passione, la vendetta e l’odio,  narro la vicenda di un artigiano che uccise il padre. Infatti Gaetano Barbarulo, 26 anni, uccise il padre-padrone con 7 martellate, il 3 agosto del 1950, in una povera abitazione di Marcianise, a pochi passi dalla sua bottega di riparatore di biciclette, perché il padre (ubriaco e con una mano ad uncino) stava picchiando a sangue la madre per futili motivi. Tratto a giudizio per omicidio volontario innanzi la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, che concesse la provocazione e il motivo di particolare valore morale, e lo condannò a dieci anni di reclusione di cui tre condonati.  Ebbene, cento e cento cittadini di Marcianise si strinsero in un vincolo di solidarietà con il parricida, e chi più chi meno, offrirono spontaneamente il loro obolo per rendere meno duro il castigo di questo figlio che ha avuto la sventura di essere stato generato da un simile padre.

Un elenco di centinaia di firme e di oboli per la difesa dell’imputato. Nessuno dei suoi concittadini mancò: da cinque lire a dieci, a cento, tutti in Marcianise tesero la mano all’infelice, povero e caduto. Il tutto per affidare la difesa a due grossi calibri: Prof. Alfredo de Marsico, e il grande avvocato sammaritano Ciro Maffuccini.  “Le colpe del padre? – disse tra l’altro de Marsico nel corso della sua arringa –  Guardatelo in bottega, al desco, nel riposo: uno sciagurato, immemore di tutti i doveri, insensibile ad ogni impulso di bontà. Le riparazioni del figlio alle biciclette servivano a lui – per comprare e tracannare vino. A mezzogiorno, non il sorriso del padre tra i figli raccolti intorno all’umile mensa in compenso del pane scarso, del companatico mancante: ma la maniera sprezzante, il lancio della minestra sulla tovaglia sdrucita, il levarsi imprecando, l’allontanarsi rabbioso, fermando il cappello sul moncherino di legno e stracciandolo coi denti in tre pezzi. La notte, nell’unica camera accogliente il figlio e le figlie, l’’imbestiarsi nel furore sessuale, il prendere e riprendere la sua femmina tra il disgusto e il dolore soffocati dalla misera donna, senza un pensiero per lo scandalo alle due giovanette che, in un letto attiguo, non dormono ma trattengono coi denti il doppio spasimo della curiosità e del terrore, mentre talora la madre, la vittima, fugge singhiozzando”. E avviandosi alla conclusione: “La squallida casa, tutto meno che casa: mattatoio, lupanare e calvario: casa, cioè rifugio ed asilo di pace pur nella miseria, no. Tali la volontà e la condotta sua, incapace egli diceva al lavoro, esuberante di istinti inferiori, di lussuria e di ferocia. Così, non da ieri, da sempre. Il delitto dell’imputato, un attimo: il delitto del padre, venti anni. Or che cosa ci trattiene dal chiedere la legittima difesa?”.

(*) Ferdinando Terlizzi – Delitti in bianco & nero a Caserta –  Edizioni Italia – 2017 –