“E tacque il Piave, si placaron l’onde. Sul patrio suol, vinti i torvi imperi, la pace non trovò né oppressi né stranieri”. Si conclude così “La leggenda del Piave”, il celebre inno che il napoletano Ermete Gaeta, in arte E. A. Mario, compose per celebrare la vittoria del Regio Esercito Italiano, reduce egli stesso dalla tremenda sconfitta di Caporetto, sulle armate imperiali austriache in quella che può essere considerata, a tutti gli effetti, come l’ultima guerra d’indipendenza combattuta dal nostro Paese per acquisire al suolo patrio i territori che andavano da Trento a Trieste: regioni italiane per vocazione, lingua, cultura e desiderio di popolo e che però “giacevano” sotto il regno di Francesco Giuseppe I di Amburgo Lorena. Correva il mese di luglio del 1918 e la guerra di posizione, sanguinosa e crudele per i fanti delle trincee, iniziata il 28 giugno del 1914 (l’Italia entrò in guerra il 24 maggio del 1915), si avviava a concludersi con il suo tragico bilancio di 10 milioni di vittime!! Gli Austriaci sferrarono il loro ultimo, disperato assalto nel tentativo di sfondare il fronte italiano sul Piave. Furono fermati a costo di gravissime perdite. “Non passa lo straniero” cantò E. A Mario. E lo straniero non passò. Il successivo 4 novembre con la controffensiva di Vittorio Veneto, Roma chiuse definitivamente i conti con Vienna celebrando la sua “Vittoria”. Fu un evento straordinario, che è stato celebrato per decenni con tanto di sfilate, esibizioni di bande musicali e deposizione di corone di alloro presso i tanti monumenti ai caduti innalzati in ogni Comune dello Stivale. Monumenti sui quali erano stati scolpiti i nomi degli eroi e dei tanti dispersi originari di quelle località. Nomi e cognomi che rappresentavano il tributo, in termini di sangue, che ciascuna comunità era stata chiamata a versare in quei drammatici frangenti. Quella “Grande Guerra” fu combattuta per ricostituire, per intero, l’assetto territoriale dell’Italia, allargandone i confini sul versante nord orientale. Questi i sommari fatti di quell’epopea della quale si ricorda non solo la debacle di Caporetto quanto anche e soprattutto lo sforzo che fu compiuto allora per dare ospitalità alle migliaia di famiglie sloggiate da quei luoghi e che furono ospitate nelle regioni del Sud Italia in un immane sforzo di solidarietà e di fratellanza che non ebbe eguali in tutta la Storia del nostro Paese. Così come si ricorda che sulle sponde del “fiume sacro”, come ordinato dal napoletano Armando Diaz (che, dopo la sconfitta, aveva sostituito in capo all’esercito Luigi Cadorna), si giocò la partita decisiva: “O il Piave o tutti accoppati” celebrava un famoso epitaffio vergato, da una mano anonima, sulle mura di un ridotto militare diroccato. A difendere quell’ultimo argine vennero richiamati anche i ragazzi nati nel 1899: leva di diciottenni che seppero resistere al nemico contrattaccandolo e respingendolo. Erano ragazzi proveniente un po’ da tutte le classi sociali ed ai quali la scuola e la famiglia avevano impartito la lezio ne dell’amor di patria, del dovere di sacrificarsi per compiti e valori trascendenti. Non ci piace, in questa sede, fare l’apologia della guerra, né invocare la retorica patriottarda oppure l’ideale del sacrificio supremo e dell’onore. Intendiamo tuttavia porci qualche interrogativo, come figli di questa Patria, come persone che hanno coltivato gli insegnamenti ricevuti nella scuola del secolo scorso. In fondo siamo stati anche noi adolescenti ai quali è stato insegnato che, nelle tragedie ove è in gioco la libertà di un popolo, egoismo ed opportunismo diventano disvalori e occorre allora farsi avanti perché la libertà è una conquista di tutti giorni, non un optional per gli uomini coraggiosi e sprezzanti del pericolo. Il precetto vale per tutti se il fine da raggiungere, il bene comune da preservare e di alto conio, riguarda la terra sulla quale siamo nati e sotto la quale riposeremo in eterno. Allorquando un’indagine conoscitiva, tra gli studenti di ogni ordine e grado, fu fatta in concomitanza dello scoppio della guerra di resistenza del popolo ucraino contro gli invasori russi, la maggioranza dei giovani italiani si disse contraria a prendere le armi, a resistere all’invasore e propensa, semmai, ad arrendersi allo stesso. Questo dunque lo stato delle cose, l’odierno retaggio di valori offerto dalla società italiana, questa l’idealità delle nuove generazioni laddove, un giorno, dovessimo essere aggrediti militarmente. I nostri giovani? Nella maggior parte dei casi non conoscono quelle pagine di Storia né le gesta che vi si compirono. Non saprebbero neanche dire chi furono i patrioti irredentisti catturati e impiccati dagli Austriaci come Guglielmo Oberdan, Nazario Sauro e Cesare Battisti pure citati nella “leggenda del Piave”. Quanti tra questi ragazzi hanno visitato il grande cimitero di Redipuglia vicino Gorizia, ove riposano le salme di decine di migliaia di caduti italiani e sulla cui lapide campeggia la scritta “Presente”? E cosa sanno del milite ignoto che li rappresenta tutti presso l’altare della patria in Roma?. Allora serve ancora una scuola che niente di tutto questo insegna, una società che non ha più alcun “valore” supremo, ed uno Stato che ormai ha smesso di essere anche una Patria? Alzi la mano chi sa rispondere.