Azzimato
az-zi-mà-to
Significato Acconciato, vestito con ricercatezza
Etimologia dal provenzale azesmar ‘mettere in ordine, adornare’, derivato del latino volgare accismare, derivato dal greco akkismós ‘moine, smancerie’.
- «Mamma mia come siamo azzimati!»
Stiamo parlando della qualità di chi sistema il proprio aspetto con ricercatezza, vestendo e acconciandosi con cura e finezza, limando i dettagli — e questo si rivela un ambito in cui le nostre possibilità espressive tendono a polarizzarsi.
Abbiamo possibilità di altezza marmorea, pensiamo all’ornato o all’adornato, possibilità un po’ desuete come l’acconciato, e una carriolata di aggettivi che hanno tutta l’aria della presa in giro: dall’agghindato al rileccato, dall’addobbato al bardato, dal parato a festa al messo in ghingheri. Magari abbiamo anche l’inappuntabile, che però vive nell’aderenza a un canone e quindi è relativamente ordinario, e poi, naturalmente, l’elegante, un termine certo cardinale, che però proprio per la sua fantastica versatilità non si stringe a fuoco in maniera troppo incisiva.
Questa panoramica ci dà un’idea abbastanza netta dei sentieri che la lingua predilige per parlare di cose del genere — la rappresentazione aulica e quella irrisoria, per celebrare e per cogliere il ridicolo della celebrazione. Dopotutto, è questo stesso livello di curata finezza a collocarsi in questi estremi.
L’azzimato ha un che di ibrido. Da un lato i suoi natali sono piuttosto irriverenti, dall’altro ha un pedigree tale che il suo concetto, traghettato dall’antichità fino a noi, di tradizione in tradizione, con salti orali e scritti, non può che acquistare una certa rispettabile altezza. In greco per akkismós s’intendono le moine, le smancerie, le leziosità smorfiose (probabilmente l’origine è onomatopeica). Questo termine viene recepito dal latino sì, ma da quello volgare, vissuto solo nel parlato, prendendo forma in un ipotetico accismare, che possiamo ricostruire come un ‘adornare’. In quella che sarà la Francia, questo verbo ha come esiti l’azesmar provenzale e l’acesmer dell’antico francese — entrambi termini ben noti e frequentati a chi s’interessava di poesia e letteratura in Italia, ai tempi. Il prestito in italiano si sdoppia in due varianti: ‘accismare’ e ‘azzimare’ — ma l’accismare cade in desuetudine. Il senso resta sempre quello di mettere in ordine, adornare.
Se parlo della collega che ha sempre i riccioli azzimati, se parlo del cugino che esce la sera azzimato come se stesse andando all’opera, se parlo di come la nuova tipa dell’amica sia una ragazza estremamente azzimata, se parlo di come il figlio sia azzimato secondo criteri che ci sono alieni, la mia espressione è funambolica: sto in equilibrio fra una vera ricercatezza linguistica, capace di considerare pacificamente la finezza d’aspetto come un valore, e un’altrettanto vera vena ironica, di quella che scorre sempre sotto ai concetti e ai termini elevati. Certo ha perso il contatto diretto col riferimento originario alla moina leziosa, ma è un’eco che ritorna.
Questa parola ci permette di non selezionare un giudizio, ma di abbracciarne la complessità, di ammettere la continua permanenza del rovescio. Un altro fatto, piuttosto, è monolitico: usare il termine ‘azzimato’ è di una raffinatezza senza ombre.