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Mattarella bacchetta Musk, la maggioranza Ursula in bilico, Biden riceve Trump
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di Luca Angelini |
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Buongiorno.
L’Italia è un grande Paese democratico e devo ribadire, con le parole adoperate in altra occasione, che “sa badare a sé stessa nel rispetto della sua Costituzione”. Chiunque, particolarmente se, come annunziato, in procinto di assumere un importante ruolo di governo in un Paese amico e alleato, deve rispettarne la sovranità e non può attribuirsi il compito di impartirle prescrizioni.
Non servivano nome, cognome e data di nascita per capire che le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, oltretutto pubblicate anche su X, erano per Elon Musk, dopo l’uscita dell’imprenditore miliardario – prima sponsor e presto parte, in qualità di «Mister antisprechi», dell’amministrazione di Donald Trump – sui «giudici che se ne dovrebbero andare» perché colpevoli di aver annullato l’invio di migranti in Albania, deciso dal governo italiano.
Il nostro quirinalista, Marzio Breda, spiega così la reazione del capo dello Stato (e presidente del Consiglio superiore della magistratura): «Ma davvero si può credere che l’affondo di Elon Musk contro i magistrati italiani meritasse solo il silenzio della premier Giorgia Meloni e l’entusiastica adesione del ministro Matteo Salvini il quale, per inciso, è il suo vice a Palazzo Chigi? Era giusto far finta di nulla davanti una così tagliente ingerenza nei nostri affari interni, dato che il miliardario americano non è più un privato cittadino ma risulta già cooptato nella nascitura amministrazione Trump?
No, mostrarsi indifferenti proprio no: in base al millenario principio per cui “qui tacet consentire videtur“, non si poteva».
E chissà se alla premier Giorgia Meloni che, per dirla con Alfieri, «volle e volle sempre e fortissimamente volle» l’amicizia con il patron di Tesla, X e Space X – tanto da invitarlo prima come ospite d’onore alla festa di Atreju e poi da ottenere che fosse lui a consegnarle il Global Citizen Award 2024 a New York – sarà tornato in mente il vecchio adagio: «Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io». Perché, davanti alle parole nette di Mattarella, non ha potuto che allinearsi: «Ascoltiamo sempre con grande rispetto le parole del presidente».
«Un commento imbarazzato nella sua asetticità – scrive Massimo Franco nella sua Nota -. Nessuna critica verso Musk, interlocutore della premier. Forse per ragioni diplomatiche, o perché nelle motivazioni del fondatore di Tesla si avverte l’eco di quelle usate dalla maggioranza per attaccare i magistrati. Frasi tipo: non sono stati eletti, e dunque tacciano o si candidino. Oppure: non possono ostacolare il governo».
Meloni pubblicamente tace ma, riferisce Monica Guerzoni, «scambia le sue impressioni su questa fase turbolenta con l’uomo più ricco del mondo. Lo cerca al telefono, lo trova, gli spiega i già complicati rapporti istituzionali tra governo, magistratura e presidenza della Repubblica. E riesce a placarne un poco i bollori mediatici». Tanto che, ieri sera, il suo referente in Italia, Andrea Stroppa, ha inviato una dichiarazione all’agenzia Ansa studiata per scongiurare un pericoloso cortocircuito: Musk «esprime il suo rispetto per il presidente della Repubblica Mattarella e la Costituzione italiana». Rispetto e stima e anche, pare, una gran voglia di incontrare faccia a faccia il capo dello Stato, al Quirinale. «Nell’”amichevole conversazione” con l’amica italiana – scrive ancora Guerzoni – Musk ha però rivendicato la libertà di espressione, ricordando che è protetta dalla Costituzione degli Stati Uniti». (Peraltro, Massimo Gaggi segnala che anche tra i collaboratori di Trump «comincia a serpeggiare una certa inquietudine per l’onnipresenza di un personaggio che, da quando Trump è stato eletto, si è praticamente installato a Mar-a-Lago con al seguito il figlioletto di quattro anni, una babysitter e tre guardie del corpo»).
Franco sottolinea che la «bacchettata» di Mattarella a Musk «ha unito quasi tutta l’Italia: quasi tutta. L’attacco maldestro del miliardario trumpiano ai magistrati italiani che hanno detto no al trasferimento degli immigrati nei centri in Albania ha fatto emergere strane sintonie e amnesie; e sparigliato il campo sovranista e, in parte, le opposizioni. E può avere riflessi negativi sul prossimo voto alla Commissione Ue: la spaccatura tra governo e sinistre si aggrava. Basta mettere in fila le reazioni pro Musk del vicepremier Matteo Salvini e della Lega; gli applausi e le critiche di FI; e il sostegno netto al Quirinale di esponenti di FdI».
Duro Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm: «Un magnate americano tanto influente nella nuova amministrazione di quel Paese che parla di affari interni allo Stato sovrano italiano, senza che nessuno al governo pensi di rispondere. Si difendono tanto i confini, anche questi sono confini…». All’attacco pure la segretaria dem Elly Schlein: «Imbarazzante che i sedicenti sovranisti di casa nostra si facciano dettare la linea da un miliardario americano». Al che il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari (Fdi) replica: «Stupisce che la sinistra si scopra sovranista a corrente alternata».
Von der Leyen in bilico
La spaccatura dentro la maggioranza che dovrebbe sostenere la nuova Commissione Ue ormai è talmente larga profonda che c’è chi teme che Ursula von der Leyen possa caderci dentro. «Quando diciamo c’è una linea rossa, c’è una linea rossa. Vuol dire molto semplicemente che non c’è una coalizione a luglio e una in seguito con l’estrema destra a novembre», ha spiegato il capo della delegazione francese dei socialisti, Raphael Glucksmann, ieri mattina al termine della riunione del gruppo da cui è emersa una linea unitaria.
Da Bruxelles, Francesca Basso ricostruisce così come si sia arrivati allo stallo sulle nomine: «I Socialisti hanno detto chiaramente che non intendono votare a favore di Raffaele Fitto come vicepresidente esecutivo (può però passare a maggioranza semplice senza di loro) perché è un esponente del gruppo dei conservatori dell’Ecr e non appartiene alla “maggioranza Ursula” formata da Ppe, S&D (Socialisti & Democratici, che comprendono anche il Pd, ndr) e Renew, che in luglio ha votato per il bis di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea. A inasprire le trattative ha contribuito il trattamento riservato in audizione martedì sera alla vicepresidente spagnola Teresa Ribera. Se durante l’audizione di Fitto i parlamentari socialisti hanno usato i guanti bianchi nelle domande al vicepresidente italiano, lo stesso fair play non è stato tenuto nei confronti della vicepresidente socialista, che è stata oggetto di un fuoco di fila da parte del Ppe spagnolo, della destra e dell’ultradestra».
Nemmeno il tentativo di mediazione di von der Leyen in un incontro con i leader del Ppe Manfred Weber, dei Socialisti Iratxe García Pérez e dei Liberali Valérie Hayer ha sbloccato la situazione. La linea socialista, che non è passata, è stata di considerare i cinque vicepresidenti dei gruppi della maggioranza un pacchetto a sé e di lasciare fuori Fitto, perché sia promosso con un’altra maggioranza senza i voti S&D. Fonti socialiste spiegano che «si è rotta completamente la fiducia con il Ppe. Fitto non avrà i voti dei socialisti in commissione Affari Regionali, in nessun caso. Non è una questione spagnola, né un problema con l’Italia o con Fitto, ma un problema con l’estrema destra. Il pacchetto dei vicepresidenti è da cinque, quelli di S&d, Renew e Ppe: noi negoziamo per quel pacchetto».
Cosa può succedere adesso? Come minimo, la nascita della nuova Commissione europea rischia di slittare dopo il primo dicembre. Sempre che la «maggioranza Ursula» non si spacchi in modo irreparabile. Anche se, osserva Basso, il popolare tedesco Weber «non si può permettere di votare, senza i Socialisti, con i Patrioti e i Sovranisti, tra cui l’AfD, perché a febbraio in Germania si vota».
Anche se, come si sarà capito, i contrasti si inseriscono in un quadro più ampio di quello italiano (l’accordo manca anche sulla promozione a commissario dell’ungherese Olivér Varhélyi e, come scrive Francesco Verderami, «la pietra dello scandalo che sta allungando i tempi per il varo della Commissione europea non è il “fascista” indicato dal governo italiano, ma lo stallo attorno alla nomina della socialista spagnola Ribera») i riflessi polemici su Roma sono inevitabili. La premier Giorgia Meloni, dopo aver ricordato che la delegazione più numerosa all’interno di S&D è quella del Pd, ha twittato: «L’Italia, secondo loro, non merita di avere una vicepresidenza della Commissione. Questi sono i vostri rappresentanti di sinistra». E dice convinta ai suoi che i dem «usciranno a pezzi» da questa vicenda.
Meloni è convinta che von der Leyen terrà il punto e Verderami spiega che «sono vari i motivi che inducono la presidente incaricata della Commissione a non cedere su Fitto. Intanto è stata lei allora a sceglierlo, avvisando per tempo Meloni. Anche per questo ieri ha respinto l’assalto del Pse sull’italiano: il suo obiettivo è chiudere la pratica la settimana prossima per evitare che il suo governo entri in funzione a gennaio del 2025. E ha molti temi per convincere i partiti riottosi: la vicepresidente spagnola, per esempio, ha ottenuto deleghe potentissime e Sánchez non può tirare la corda perché non le riotterrebbe. Quanto a Macron, in questa fase è il più collaborativo, e come dice Gozi di Renew “siamo impegnati a trovare una soluzione rapida e condivisa”».
Il pronostico di Verderami? «Le soluzioni più accreditate sono due: che si arrivi a un patto collettivo in extremis o che tutti i vicepresidenti passino da un voto segreto nelle rispettive commissioni. Se così fosse e Fitto ottenesse la fiducia, vorrebbe dire che l’Europa avrebbe importato dall’Italia una delle formule politiche più fantasiose della Prima Repubblica: il governo von der Leyen sarebbe il risultato di una maggioranza a geometrie variabili».
L’escamotage su giudici e migranti
Dopo il pronunciamento con cui i giudici della sezione immigrazione hanno disposto il rientro in Italia dei sette migranti trasferiti in Albania (sollecitando una decisione in merito della Corte di giustizia europea) la maggioranza propone di trasferire alla Corte d’appello le competenze necessarie a decidere su quei fermi amministrativi. I magistrati avvertono: è una misura che produrrà il «collasso» dei tribunali (afflitti da grandi numeri e pochi dipendenti).
«Con tutto il rispetto per il Parlamento che resta sovrano, e in spirito di leale collaborazione istituzionale, penso che questa misura sia totalmente irrazionale e costerà moltissimo all’intero sistema giudiziario», dice a Giovanni Bianconi il presidente del tribunale di Palermo Piergiorgio Morosini -. Perché dal 2015 in materia di protezione internazionale c’è stato un grande investimento di risorse nei tribunali distrettuali, in termini di magistrati, personale ausiliario, dotazioni tecniche per udienze in videocollegamento e altro. E si è creato un patrimonio di specializzazioni e professionalità che così rischia di disperdersi». Per Morosini, «la tempistica sembra parlare da sola, e assomiglia molto a un segnale di delegittimazione dei giudici di primo grado. (…) Se un provvedimento non convince si va da un altro giudice, una garanzia che è la pietra miliare del nostro sistema giudiziario. Nessuno ha la verità in tasca, ma reagire con modifiche legislative a ogni decisione considerata avversa, senza valutarne costi e conseguenze, non mi pare il modo più adeguato».
Quanto alle reazioni politiche, dall’opposizione Riccardo Magi (+Europa) commenta: «Scelta governativa dettata solo dal tentativo isterico di cambiare i giudici sui provvedimenti relativi alla detenzione in Albania». Per Chiara Braga (Pd), «Musk chiede e FdI esegue» e il suo collega dem Giuseppe Provenzano denuncia anche la bocciatura della proposta di un’inchiesta sulle condizioni dei migranti in Tunisia («Ignorati i diritti umani»). Nella maggioranza c’è chi auspica un confronto con il ministro Carlo Nordio (Pierantonio Zanettin, FI) ma c’è anche chi contrattacca con forza come Fabio Rampelli: «Meno immigrati uguale meno soldi alle coop rosse». Per Giovanbattista Fazzolari (FdI) stupisce «il sovranismo à la carte della sinistra che in passato non ha esitato a cavalcare posizioni anti-italiane e anche ora in Europa trama per il suo tornaconto».
Biden riceve Trump
«Welcome back», bentornato, dice Joe Biden a Donald Trump accogliendolo nello Studio Ovale. È una tradizione che il presidente uscente inviti il presidente-eletto per un incontro alla Casa Bianca prima dell’insediamento ma, ricorda la corrispondente Viviana Mazza, Trump non lo fece quando Biden vinse nel 2020. Biden ha invece fatto le congratulazioni e ha stretto la mano all’uomo che aveva definito «una minaccia alla democrazia», un «fascista» e contro il quale aveva lanciato una «battaglia esistenziale per l’anima dell’America», in una campagna elettorale in cui entrambi hanno espresso in modo chiarissimo il disprezzo l’uno per l’altro.
«Fallita quella battaglia – scrive Mazza – Biden vuole rimarcare che l’istituzione è più importante dei singoli individui, e dunque accoglie il vincitore sottolineando l’importanza di «una transizione tranquilla» nelle poche parole che pronuncia di fronte ai giornalisti. Trump ringrazia: «La politica è dura. E in molti casi, questo non è un mondo gentile, ma oggi lo è. E apprezzo molto una transizione tranquilla, il più tranquilla possibile».
A proposito della transizione tutt’altro che tranquilla di quattro anni fa, culminata nell’assalto dei sostenitori di Trump al Congresso il 6 gennaio 2021, il procuratore speciale Jack Smith, titolare di due inchieste penali sul conto di Donald Tump, ha intenzione di dimettersi prima che quest’ultimo entri alla Casa Bianca il 20 gennaio prossimo. Trump aveva annunciato in campagna elettorale che, se fosse stato eletto, avrebbe licenziato Smith «in due secondi». Dietro alla decisione di Smith c’è anche il fatto che, dopo la sentenza in proposito della Corte suprema, al dipartimento della Giustizia si ritiene che non si possa accusare di un crimine un presidente in carica. Si attende ora la decisione sui tempi di pubblicazione del rapporto finale. Non è chiaro se sarà reso pubblico prima dell’insediamento di Trump. La decisione spetta al dipartimento di Giustizia. Se processato e trovato colpevole per il tentativo di sovvertire il risultato delle Presidenziali del 2020 con il conseguente assalto al Campidoglio, l’ex presidente e prossimo presidente Usa avrebbe rischiato fino a vent’anni di carcere.
Trump, intanto, incassata la maggioranza del partito repubblicano anche alla Camera, prosegue nelle nomine della sua squadra. Ieri sera ha confermato ufficialmente che sarà Marco Rubio a ricoprire l’incarico di segretario di Stato.
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Con Trump alla Casa Bianca quasi certamente per l’Ucraina nulla sarà più come prima.Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken cerca comunque di tranquillizzare Kiev promettendo nuovo sostegno militare e una «risposta ferma» contro la presenza dei soldati nordcoreani impegnati assieme ai russi nell’offensiva volta a scacciare le unità ucraine attestate nell’enclave di Kursk. (Qui l’editoriale di Paolo Mieli «I passi falsi da evitare con Putin»)
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Intervenendo ieri alla Cop29 di Baku, Giorgia Meloni ieri è tornata a proporre «un approccio pragmatico e non ideologico» alla lotta contro il cambiamento climatico, perché «al momento non c’è un’unica alternativa ai combustibili fossili». La strada giusta passa da «un mix energetico» che comprende «non solo rinnovabili ma gas, biocarburanti, idrogeno, cattura della CO2 e, in futuro, il nucleare da fusione». Sara Gandolfi scrive che alla conferenza sul clima in Azerbaigian, tra inni a petrolio e gas come «beni di Dio», defezioni e sgarbi incrociati, l’atmosfera è «molto fossil fuel friendly, persino più che lo scorso anno a Dubai»
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Non ci sono morti o dispersi, ma il violento nubifragio che in 12 ore ha scaricato su alcune zone della Sicilia orientale, in particolare a Giarre, fino a 500 litri d’acqua al metro quadro si è lasciato dietro paura, fango e distruzione. La conta dei danni è appena iniziata. E in Spagna è di nuovo allerta rossa, a Malaga ma anche a Valencia.
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Nel processo per appropriazione indebita di fondi Ue, l’accusa ha chiesto 5 anni di carcere e di ineleggibilità per Marine Le Pen, leader del Rassemblement National, sospettata di avere usato fondi del Parlamento europeo per pagare collaboratori che in realtà non lavoravano a Strasburgo ma alle dipendenze del partito a Parigi. Di fronte alla possibilità di non poter correre alle Presidenziali, Le Pen ha parlato di accuse violente ed esagerate: «Penso che la volontà sia quella di privare i francesi della capacità di votare per chi vogliono» e di «rovinare il partito» (qui l’intervista che Le Pen ha concesso a Stefano Montefiori poche ore prima che arrivasse la richiesta di pena).
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«Dobbiamo muoverci velocemente, e insieme. Alcuni Paesi europei potrebbero essere tentati di stringere accordi separati, sia con gli Stati Uniti sia con la Cina. Dovremmo cercare di evitarlo, o almeno di contenere questa tentazione». Lo ha detto ieri Mario Draghi, in un incontro pubblico a Parigi con il presidente Emmanuel Macron su come rilanciare l’Europa e la competitività dell’Ue. «America e Cina hanno deciso di non rispettare più le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio. Non abbiamo altra scelta che essere uniti», gli ha fatto eco Macron.
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È morto, a 98 anni, Franco Ferrarotti, padre della sociologia in Italia. Di lui l’amico Carlo Bordoni scrive: «Insolita, trasversale, totalmente insofferente alle regole è stata tutta la sua carriera, dalla precoce esperienza bellica come giovane partigiano sulle Langhe, a collaboratore di Adriano Olivetti nell’impresa di Comunità; da studioso appassionato e sempre alieno alle controversie accademiche, a deputato nella terza legislatura, senza tessere di partito. Ma soprattutto viaggiatore».
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Quattro funzionari del Comune di Roma e uno della Regione Lazio sono indagati per corruzione in una inchiesta della procura capitolina su un presunto giro di mazzette (contanti e regali: orologi, viaggi, auto a noleggio, cene) che coinvolge l’utilizzo dei fondi per il rifacimento delle strade in vista del Giubileo del prossimo anno.
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Il governo scende dal 26,7 all’11,7% del Monte dei Paschi e incassa altri 1,1 miliardi. Banco Bpm entra al 5% e Anima sale dall’1 al 4% nell’istituto senese, portandosi nell’insieme al 9%. Al loro fianco, un gruppo di imprenditori italiani costruisce un presidio nazionale nel capitale della banca toscana: fra loro, secondo indiscrezioni, ci sono la cassaforte Delfin dei Del Vecchio e il gruppo Caltagirone, che avrebbero acquistato il 3,5% del Monte a testa, investendo nel complesso circa 500 milioni.
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Il Pnrr è in ritardo rispetto alla scadenza del 2026. Ma, scrive Federico Fubini, «un’innovativa analisi dei dati della Banca d’Italia insieme all’Associazione nazionale costruttori edili mostra che la situazione potrebbe essere meno negativa, benché i problemi restino. Osserva il vicepresidente dell’Ance Piero Petrucco: “Circa il 20% dei cantieri del Pnrr che sono sicuramente aperti, con lavori in fase di esecuzione, non risulta come aggiudicato nelle banche dati ufficiali”. In altri termini, i progetti già avviati sembrano essere un quinto in più rispetto a quanto risulti allo stesso governo sulla base delle sue informazioni».
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Il progetto per la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, con i collegamenti stradali e ferroviari a terra, ha ricevuto ieri il parere favorevole da parte della Commissione Tecnica di Valutazione dell’Impatto Ambientale (Via-Vas) del ministero dell’Ambiente. «Grande soddisfazione» è stata espressa da parte del vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini.
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Una nuova tempesta scuote il ministero della Cultura: l’attore e regista Sergio Castellitto ha presentato ieri le sue «dimissioni irrevocabili» dalla presidenza della Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia dopo poco più di un anno di lavoro, svolto a titolo gratuito. «È una decisione che meditavo da tempo. Non sono gli attacchi ad avermi spinto a lasciare, mi hanno ferito ma mai impaurito. Semplicemente voglio tornare a fare il mio vero mestiere, che ho trascurato per più di un anno». L’addio è stato accolto «con rammarico» dal ministro Alessandro Giuli che gli esprime «gratitudine e stima».
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Le strade della Roma e di Claudio Ranieri si intrecciano per la quarta volta, una da calciatore e tre da allenatore. Dopo aver detto che «se la Roma chiama non si può dire di no», Ranieri è già atterrato a Fiumicino (qui il video).
Il Caffè di Gramellini
Il dottor TikTok
Leggo di Margaret Spada, morta durante un intervento di chirurgia estetica al naso in un ambulatorio privato, e a colpirmi è anche un particolare: aveva scelto il suo chirurgo su TikTok. Appartengo a una generazione che considera i social un passatempo e non si fiderebbe mai di un chirurgo che si fa pubblicità lì sopra, senza però pensare che molti miei coetanei si sono fidati di venditrici d’alghe e tappeti vari, all’epoca in cui comandava la tv. Per una ragazza di ventidue anni (l’età di Margaret), scrollare le inserzioni di TikTok equivale a leggere gli atti di un convegno o ascoltare il parere del medico di fiducia, ammesso che ne abbia uno e soprattutto che ne abbia fiducia. TikTok le sembra almeno altrettanto affidabile, ma decisamente più moderno, nel senso di più comodo e rapido. Sta lì, in tasca, dentro lo smartphone. Uno guarda la finestrella pubblicitaria che si è aperta su suggerimento dell’algoritmo (evidentemente Margaret faceva spesso ricerche sul naso). Se gli piace, entra e compra. Altrimenti scrolla e passa alla finestrella successiva.
Noi antichi predigitali coltiviamo ancora il sano pregiudizio che un medico scovato sui social non offra le stesse garanzie di quello suggeritoci da una rivista scientifica o da un esperto in carne e ossa. Ma lo spirito del tempo dice che gli esperti non esistono e, se esistono, sono prezzolati dalle élite. In queste ore, molti sinceri democratici stanno scappando dalla X del brutto e cattivo Musk. Mi chiedo: per andare dove?
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