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Lo stop (parziale) all’autonomia differenziata |
Roberto Calderoli, ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie (/Fabio Frustaci/Ansa)
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di Elena Tebano
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Buongiorno. La bocciatura, perché incostituzionali, di sette norme che costituiscono il cuore dell’autonomia differenziata; la sollecitazione del Presidente della Repubblica a tutti i partiti affinché sostengano la candidatura di Raffaele Fitto alla Commissione europea; le scelte preoccupanti di Donald Trump per la sua amministrazione, da Robert F. Kennedy Jr. alla Salute a Matt Gaetz alla Giustizia; gli affari di Elon Musk in Italia. Poi la cronaca, con un nuovo terribile caso di stupro di gruppo. E lo sport, con un’altra vittoria di Jannik Sinner alle Atp Finals. Sono queste le notizie principali sul Corriere di oggi. Vediamo.
Le 7 norme bocciate dell’autonomia
La Corte Costituzionale ha accolto parzialmente il ricorso presentato contro la legge sull’autonomia differenziata da Puglia, Sardegna, Toscana e Campania, e ha sancito che 7 norme della riforma sono incostituzionali. La Corte, pur ritenendo «non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge», di fatto boccia l’impianto della riforma perché tra le norme incostituzionali votate dalla maggioranza di governo ci sono l’attribuzione delle competenze alle Regioni e la definizione dei Lep (Livelli essenziali di prestazioni), che sono il cuore dell’autonomia differenziata.
L’opposizione, che voleva abrogare la riforma tramite referendum, ha preso la pronuncia della Corte costituzionale come una sua vittoria.
Il senso profondo della sentenza è però prima di tutto, come chiarisce Giovanni Bianconi, una difesa dell’unità dell’Italia:
Al centro della decisione della Consulta c’è lo Stato nella forma e nelle funzioni previste dalla Costituzione del 1948, con i suoi principi guida: l’unità della Repubblica, la solidarietà e — soprattutto — l’eguaglianza dei cittadini e la garanzia dei loro diritti. Insieme a quelli introdotti successivamente, come l’equilibrio di bilancio. È sulla base di questi criteri che è stata giudicata (e in buona parte bocciata) la legge sull’autonomia differenziata, recuperando il senso costituzionale originario del regionalismo. Non più, come interpretato in passato, uno strumento di spartizione del potere esercitato dai partiti a seconda delle convenienze (basti pensare alle Regioni costituite solo nel 1970, con ben 22 anni di ritardo dovuti ai timori democristiani di governi locali in mano ai comunisti), bensì un sistema per migliorare i servizi da offrire ai cittadini. Una visione ribaltata del regionalismo, sottratto a egoismi territoriali o di parte per restituirgli un ruolo effettivo di efficienza dello Stato nel suo insieme, così esplicitata dai giudici costituzionali: «La distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo non deve corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma deve avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione».
Sono tre, secondo Bianconi, i principi fondamentali che hanno portato la Corte costituzionale a bocciare la riforma:
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La necessità di mantenere in capo allo Stato centrale la disciplina dei servizi e dei diritti da assicurare ai cittadini su questioni ritenute fondamentali. Ecco allora che l’intesa sul trasferimento di poteri alle Regioni, con le conseguenti «differenziazioni» territoriali, non può riguardare «materie o ambiti di materie», bensì «specifiche funzioni legislative e amministrative». Ad esempio, nell’ambito della pubblica istruzione, si può devolvere agli enti locali la gestione dei dirigenti e del personale scolastico, ma non la determinazione dei programmi d’insegnamento.
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La centralità del Parlamento, che nella legge appare sacrificata in favore del governo. Al momento la definizione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni da garantire con lo spostamento delle competenze, è una sorta di delega in bianco, «priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento».
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L’aspetto finanziario della riforma, bocciata nella misura in cui rischia di mettere a rischio l’equilibrio del bilancio statale creando scompensi a favore delle Regioni meno virtuose.
Intervistato da Cesare Zapperi, Roberto Calderoli, il «padre» della riforma, ostenta tranquillità e sostiene che l’incostituzionalità di 7 norme fondamentali dell’autonomia differenziata non implica la bocciatura della legge, perché non è stata formalmente colpita nella sua interezza. «Abbiamo sentito per mesi raccontare che la nostra legge calpestava la Carta e amenità del genere. Non è andata così. Quello che conosciamo è un comunicato stampa e non la sentenza che aspetto di leggere bene e nel dettaglio. Ma non esistono dubbi sulla pronuncia dei giudici» dice.
Ma, nota Massimo Franco, la bocciatura c’è, eccome:
Per il partito di Matteo Salvini è una sconfitta. Lo è in particolare per i governatori del Nord e per il ministro Roberto Calderoli, che avevano forzato i tempi dell’approvazione per mettere il resto della maggioranza di fronte al fatto compiuto: è noto, anche se inconfessabile, che sia FdI, sia FI vivano male la riforma, per i riflessi che può avere sull’elettorato del Centro e del Sud. Ma quella leghista è stata una strategia-boomerang.
Ha prodotto norme approssimative dal punto di vista costituzionale. E ha scatenato la reazione delle altre regioni e delle opposizioni: con la raccolta delle firme per il referendum, sulla quale si deve ancora pronunciare la Corte di Cassazione; e con un aumento delle polemiche che ha evocato un clima da guerra civile. L’impressione, tuttavia, è che la fretta ideologica del Carroccio abbia partorito un altro pasticcio. Il tentativo di esautorare il Parlamento a favore del governo è stato frustrato dalla Corte.
Toccherà alle Camere correggere i vuoti che riguardano punti essenziali della riforma. E farlo richiederà tempo e mediazioni che al momento si presentano come proibitive: sia per i rapporti pessimi tra maggioranza e opposizioni; sia per le divergenze sull’autonomia regionale che covano sotto il sostegno formale alla legge voluta da Calderoli e da Lombardia, Veneto e Piemonte, soprattutto. Palazzo Chigi non lo ammetterà mai, ma il responso della Consulta è una boccata di ossigeno per la premier.
La crisi della maggioranza Ursula
Ieri al Parlamento europeo c’è stato un altro scontro tra i maggiori partiti che sostengono la seconda Commissione di Ursula von der Leyen. Riguarda il regolamento sulla deforestazione (che vieta di vendere in Europa prodotti provenienti da terreni deforestati dopo il dicembre 2020), ma ha conseguenze politiche molto più ampie. Spiega Francesca Basso:
I Socialisti mercoledì avevano accusato i Popolari di appoggiare al Parlamento una nuova maggioranza con la destra e l’ultra destra, a scapito della «maggioranza Ursula», ovvero quella che in luglio ha garantito la conferma alla guida della Commissione europea della presidente von der Leyen: Ppe, S&D e Renew Europe più i Verdi. E ieri la «maggioranza Ursula» si è spaccata sul rinvio dell’attuazione della legge contro la deforestazione. Il testo finale, che include alcune modifiche proposte dal Ppe, è passato con il sì dei Popolari, dei conservatori dell’Ecr, dei Patrioti e dell’Europa delle nazioni sovrane, più di una parte dei Liberali che si sono divisi (in 29 hanno votato a favore del testo finale e in 21 contro, mentre sugli emendamenti proposti dal Ppe ha prevalso la componente contraria, in linea con l’S&D). È la prima volta che il Ppe e le destre votano insieme su un testo legislativo, finora la convergenza era stata su risoluzioni non vincolanti (quella sul Venezuela) o su ordini del giorno, sul premio Sacharov e su un emendamento della posizione negoziale del Parlamento Ue sul Budget 2025 per finanziare con il bilancio comune la costruzione di muri alle frontiere esterne.
Raffaele Fitto al Parlamento Europeo martedì (Virginia Mayo/Ap)
Il conflitto tra Socialisti e Popolari blocca la nomina dei sei vicepresidenti esecutivi designati della nuova Commissione europea: l’italiano Raffaele Fitto (Ecr), l’estone Kaja Kallas (Renew), la romena Roxana Mînzatu (S&D), il francese Stéphane Séjourné (Renew), la spagnola Teresa Ribera (S&D) e la finlandese Henna Virkkunen (Ppe).
Per sbloccarla ieri si è mosso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha ricevuto Fitto e ha scritto in una nota di avergli «formulato gli auguri per l’affidamento dell’incarico — così importante per l’Italia — assegnatogli dalla presidente von der Leyen nell’ambito della Commissione Ue». Scrivono ancora Francesca Basso e Marzio Breda:
Non sarebbe in sé una grande notizia, visto che Sergio Mattarella ha incontrato e parlato con Fitto diverse volte, negli ultimi tempi. Per sostenerlo. Di nuovo adesso c’è quella sottolineatura della «importanza per l’Italia» che la sua nomina potrà avere. Come dire che sul ruolo di Fitto è in gioco l’interesse nazionale. Insomma: il capo dello Stato ritiene che sia diritto-dovere del governo proporre il commissario, il quale, a Bruxelles, sarà un commissario italiano, non il commissario del centrodestra. E proprio qui è sottinteso l’appello ai nostri europarlamentari del Pd, affinché valutino quale responsabilità hanno in questo caso, dandogli retta e sfuggendo in tal modo alla rincorsa di veti incrociati e all’effetto domino innescatosi nei giorni scorsi. Una mossa, quella del presidente Mattarella, che dimostra il suo essere super partes, a dispetto di certe polemiche che continuano ancora a lambire il Colle.
Le nomine di Trump e la festa con Musk«Una volta il presidente ha chiesto a suo figlio Barron: “Pensi che dovrei fare un duetto con Christopher?”. “Papà”, gli ha risposto Barron, “tu fai solo le cose in cui sei il migliore”. In questo spirito, non so se il presidente e Elon Musk vogliono unirsi a me per God Bless America…».
Con queste parole il tenore italoamericano Christopher Macchio, il cantante preferito di Donald Trump, lo ha invitato a salire sul palco mercoledì sera, alla fine del gala annuale del think tank «America First policy institute» (Afpi) che si era appena tenuto a Mar-a-Lago. Dapprima Trump ha spinto Musk a farsi avanti. Poi, incoraggiato da Linda McMahon — presidente del consiglio di amministrazione di quello stesso think tank, sua amica dai tempi in cui lei era ceo del World wrestling entertainment, finanziatrice delle sue campagne elettorali e ora copresidente del team di transizione alla Casa Bianca — Trump si è alzato dal tavolo e ha accettato. Si è conclusa così alle nove di sera, sotto le stelle della Florida e sullo sfondo di un filare ondulato di palme battute dal vento, la giornata in cui Trump, eletto presidente una settimana fa, è volato andata e ritorno da Washington per una stretta di mano storica con Joe Biden.
Questa è la Casa Bianca d’inverno di Trump, residenza opulenta e club privato sull’isola di Palm Beach. Gli ospiti erano giunti in navetta dagli alberghi in zona. Passato il metal detector, sotto i 17 lampadari dell’enorme salone si teneva una conferenza per i donatori del think tank, seguita da un barbecue a bordo piscina innaffiato da champagne, cocktail e vino di marca Trump. Il presidente eletto, in completo blu e cappellino rosso Make America Great Again, è arrivato alle 8.30 di sera, accompagnato da Musk, che si è seduto alla sua destra ed era ricettacolo di frequenti pacche sulle spalle da parte del presidente. Entrambi bevevano Diet Coke. «Dov’è il George Soros della destra?», ha chiesto accogliendoli dal palco Brooke Rollins, avvocata texana e ceo del think tank. E Musk, prontamente, ha alzato la mano. A sinistra di Trump era seduta McMahon; e allo stesso tavolo Howard Lutnick, l’altro presidente della transizione e ceo dell’azienda di servizi finanziari Cantor Fitzgerald (secondo la Reuters lui è in lizza per segretario del Tesoro, lei per il Commercio).
Viviana Mazza ha fatto un altro colpo giornalistico ed è stata alla festa dei donatori di Trump a Mar-a-Lago, in Florida, dove il presidente-eletto decide molte delle sue nomine (tantissime provengono proprio dalla Florida). Il suo racconto della serata è assolutamente da leggere perché dice molto dell’America che verrà.
Donald Trump (Allison Robbert/Ap)
Tra le nomine più controverse di Trump ci sono quella di Robert F. Kennedy Jr, un attivista ambientale che ha diffuso disinformazione sui vaccini, alla guida del Dipartimento della Salute. E quella del deputato repubblicano della Florida Matt Gaetz come futuro procuratore generale. Gaetz non solo non ha mai lavorato nel Dipartimento di Giustizia o come procuratore a nessun livello di governo, è stato anche sotto inchiesta per traffico sessuale di minorenni, per uso illecito di droghe, per aver accettato regali non consentiti e per aver ostruito l’indagine. Era accusato di aver fatto sesso con una 17enne nel 2017. Ha però avuto un ruolo fondamentale nell’estromettere l’ex presidente della Camera Kevin McCarthy nel 2023, dando il via a settimane di caos in aula. La sua nomina è stata criticata anche da diversi esponenti repubblicani.
Scrive Andrea Marinelli:
Trump lo ha scelto per la sua spregiudicatezza, ma anche per la fedeltà assoluta. Se confermato dal Senato, temono gli analisti, si ritroverà a guidare il dipartimento di Giustizia americano eseguendo gli ordini della Casa Bianca: sarebbe il braccio armato della battaglia legale che Trump ha promesso di muovere ai suoi rivali politici, e potrebbe aiutare il presidente a liberarsi dei funzionari ritenuti «infedeli». «Una decisione folle, sbalorditiva e ridicola», l’hanno definita alcuni funzionari del ministero.
Gli affari di Elon Musk in Italia
Non si placano intanto le polemiche per le interferenze di Elon Musk in Italia. Il finanziatore di Trump (e secondo uomo più ricco del mondo), che avrà presto un ruolo non elettivo nella sua amministrazione, aveva detto che i giudici italiani che applicano la Costituzione «se ne devono andare» e «sono un’autocrazia non eletta», tanto che è dovuto intervenire il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a difendere l’autonomia sovrana dell’Italia. «Non deve interferire nelle vicende interne, poi ognuno è libero di dire quello che vuole» ha detto ieri invece il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani.
Come spiega Federico Fubini, Musk ha motivi molto concreti (ed economici) per interessarsi all’Italia e coltivare la sua amicizia con Giorgia Meloni:
È Starlink, la rete di satelliti controllata da SpaceX per la fornitura di internet veloce, l’infrastruttura centrale degli affari dell’uomo più ricco del mondo. Lo è almeno nella prospettiva di un futuro prossimo e lo è anche fuori dagli Stati Uniti, Italia inclusa: Morgan Stanley, una banca d’affari, stima che al 2040 Starlink potrebbe fatturare nel mondo fino a 250 miliardi di dollari l’anno; andasse così, una volta scorporata da SpaceX, l’azienda potrebbe raggiungere un valore di borsa tale da far sembrare di seconda classe le più vaste società quotate di oggi: Nvidia, Apple o Microsoft.
Cinque o sei degli oltre seimila satelliti di Starlink lanciati nell’orbita bassa da SpaceX assicurano già oggi l’accesso a Internet veloce nel nostro Paese. L’offerta in rete ieri sera all’ora di cena prometteva uso residenziale «lite» (leggero: «a bassa priorità» (cioè per «uso domestico ridotto») da 29 euro al mese, più un kit di partenza da 349 euro; oppure da 40 euro più il solito kit, «ideale per la casa» ma più costoso rispetto ai fornitori di rete tradizionali. In realtà i prezzi del servizio non sono stabili e salgono al riempimento della capacità, che oggi sull’Italia viaggia ai minimi termini: si stima che la rete di Musk connetta circa 40-50 mila famiglie.
Ma la possibilità di affidare a Starlink l’infrastruttura della rete italiana crea molte perplessità sia a livello istituzionale che industriale. Anche perché il referente italiano di Musk, Andrea Stroppa, è finito in un’inchiesta che coinvolge la fornitura della rete di Starlink ad alcune sedi diplomatiche italiane.
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L’hanno contattata sui social, poi l’hanno incontrata di persona e stuprata. Arrestati, a Rimini, due ragazzi, di 18 e 17 anni, con l’accusa di violenza di gruppo nei confronti di una sedicenne, seguita dai servizi sociali. È successo ad agosto.
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Jannik Sinner ha vinto contro il russo Daniil Medvedev per 6-3, 6-4 alle ATP Finals e vola in semifinale. Giocherà sabato, ancora non si sa con chi.
Il Caffè di Massimo Gramellini
Che brutta aria
Il gestore del cinema milanese che si rifiuta di proiettare il film su Liliana Segre per paura che gli danneggino il locale. L’albergatore di Selva di Cadore che cancella la prenotazione di un gruppo di clienti israeliani, ritenendoli corresponsabili di genocidio per il solo fatto di essere israeliani. Ma che cosa sta succedendo? Se tornasse in vita Primo Levi verrebbe chiamato a rispondere dei fatti di Gaza? Qui non sono più soltanto i centri sociali o i comitati studenteschi, e nemmeno gli ultrà di calcio o gli estremisti islamici. Qui c’è un umore diffuso nella società civile che associa ogni ebreo alle azioni del governo d’Israele. Non mi risulta che si applichi lo stesso metro ad altri popoli. Chi considera Putin un criminale di Stato non estende indiscriminatamente quel giudizio a tutti i russi e i pochi che lo fanno (ricordate la cancellazione del seminario su Dostoevskij?) diventano subito oggetto di barzellette. In questi giorni, tantissimi europei stanno manifestando disprezzo e finanche odio per Trump, eppure non si ha notizia di gestori spaventati all’idea di proiettare un film su qualche eroe americano o di albergatori che sbattono la porta in faccia ai turisti provenienti da New York.
Così come è assurdo dare dell’antisemita a chiunque denunci gli obbrobri di Gaza, è altrettanto folle scaricare su ogni ebreo le responsabilità di Netanyahu. Si tratta di ovvietà, lo sappiamo bene. Ma allora perché la cronaca ci costringe a scriverle?
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