*La Consulta azzoppa l’autonomia differenziata* di Vincenzo D’Anna*

I ricorsi riguardanti profili di incostituzionalità alla legge sulla cosiddetta Autonomia Differenziata, proposti da alcune regioni (soprattutto del Sud Italia), sono stati accolti solo in parte dalla Corte Costituzionale. Ne conseguirà il solito cicaleccio di dichiarazioni rese dai leader di partito sul classico bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, a seconda se la sentenza abbia sancito o meno la validità e la praticabilità della previste devoluzione delle funzioni dallo Stato agli enti locali. Occorrerà quindi leggere bene ogni capoverso della sentenza e valutarlo appieno senza interpretazioni ermeneutiche. Insomma, bisogna capire bene quali e quante siano le censure che la Consulta ha rilevato e quali argomenti riguardino, se si tratti, cioè, di rilievi formali o sostanziali a tal punto da vanificare i propositi del Governo in carica ed in particolare modo le pretese di Matteo Salvini. Da quel che si apprende dalle notizie di stampa, le lacune costituzionali emerse dovranno essere riparate dal Parlamento e quindi si riaccenderà sia la polemica che la faziosa e rissosa rivendicazione di adeguatezza della norma da parte della maggioranza e dell’opposizione. La speranza, credo vana, è quella che si possa correggere le “toppe” con il concorso di tutti essendo la materia di natura costituzionale, ancorché varata con dentro il bilancio dello Stato. Sempre per sentito dire le censure della Suprema Corte di fonderebbero su considerazioni generali, sul principio inderogabile che ogni modifica della Magna Carta, debba perseguire l’obiettivo del bene comune e della solidarietà tra le varie realtà regionali che sono ben diverse tra loro (sotto molto profili, economici e sociali). Altro rilievo pare sia stato quello di dover limitare le materie trasferibili dallo Stato del momento che la legge non può creare un dissesto istituzionale, una deprivazione di compiti essenziali e come tali di competenza dell’apparato centrale che deve restare il garante del godimento dei diritti, delle opportunità e dei servizi erogati in gran parte dello Stivale. La legge in questione ha definito i cosiddetti LEP (Livelli Essenziali di Prestazioni) ossia il minimo comune denominatore dei servizi di cui deve godere ogni cittadino italiano in qualunque regione si trovi. I critici della legge sostengono che non basta garantire questi servizi in quanto tali, ma che occorre farlo con eguale efficienza e qualità ovunque li si eroghi. Le disparità di ricchezza esistenti tra Nord e Sud depongono per la fondatezza del timore sulla qualità dei LAP, allo stesso modo con il quale avviene l’erogazione dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) in sanità. Se non vi fossero differenze nella loro erogazione il fenomeno della migrazione sanitaria non esisterebbe e non saremmo al paradosso, scaltramente difeso dalle regioni del Settentrione, che siano quelle del Mezzogiorno a finanziare il sistema sanitario del Nord tramite il pagamento delle prestazioni eseguite per i migranti sanitari. Per quanto legittimo il sospetto che i LEP facciano la fine dei LEA la questione sulle disparità non dipende tanto dalla devoluzione delle funzioni dallo Stato alle Regioni quanto da come, al Sud, le strutture erogatrici di quelle funzioni siano oberate ed afflitte oltre che dalla differenza di ricchezza prodotta anche dal diffuso uso politico clientelare da parte delle aziende erogatrici. Infatti la legge sull’Autonomia Differenziata non incide sul riparto delle entrate. In soldoni la legge non contempla provvedimenti di natura fiscale, e sotto questo aspetto la Consulta ha dato ragione al governo, respingendo la richiesta dei ricorrenti di adeguare in rialzo la percentuale di riparto in favore delle regioni meridionali. Di contro ha ribadito l’intoccabilità del principio di sussidiarietà, ossia la possibilità che ci siano vari livelli decisionali ripartiti tra enti centrali e regionali. Ma al di là dell’esegesi della sentenza e della legge quel che contano sono gli aspetti pratici e concreti che ne derivano. Un esempio viene a proposito: un emendamento di FdI propone che sia istituito un buono scuola per le famiglie meno abbienti da poter spendere presso scuole parificate. La questione è lecita e credo logica, perché con il buono si può consentire agli scolari di poter frequentare istituti qualificati ove oggi non possono accedere per mancanza di possibilità economiche. Le vestali della pubblicità dei servizi, contrabbandata col monopolio statale dei medesimi, come per la sanità, grida allo scandalo, indifferente alla condizione in cui versa la scuola statale, deprivata dai saperi a vantaggio dell’omologazione parificante. E’ un po’ la stessa cosa che accade in sanità dove pure si grida allo scandalo del privato (accreditato ossia pubblico nelle finalità) per idolatrare il diroccato sistema monopolistico statale. Perseguire l’equità sociale significa garantire l’uguaglianza delle opportunità laddove questa è realizzata, non preferire quello che non funziona solo perché è “statale”. Ben venga allora un’autonomia competitiva a vantaggio dei cittadini, a patto che questi dismettano la furbizia e la clientele.

*già parlamentare