L’attentato al settimanale satirico francese ha segnato l’inizio di una nuova sanguinosa stagione di attacchi terroristici. Ma negli ultimi anni sono diminuiti sia di numero sia di intensità
Il 7 gennaio 2015 verso le 11:30, due fratelli, Saïd e Chérif Kouachi, si sono introdotti negli uffici del settimanale satirico francese, Charlie Hebdo a Parigi dove hanno ucciso 12 persone e ne hanno ferite altre 11. In seguito si sono identificati come appartenenti al gruppo terroristico islamico al-Qaeda, che si è assunto la responsabilità dell’attacco. A distanza di oltre cinque anni, oggi, mercoledì 2 settembre, inizia il processo alle 14 persone accusate di aver aiutato gli attentatori.
Alla vigilia del processo, la rivista ha ripubblicato la stessa vignetta che li rese un bersaglio nel 2015. Emmanuel Macron ha difeso la loro scelta. «In Francia c’è libertà di blasfemia», ha dichiarato il presidente francese da Beirut. All’attacco a Charlie Hebdo ne sono seguiti altri, ancora più sanguinosi, come l’attentato al teatro del Bataclan il 13 novembre 2015 o quello di Bruxelles nel 2016.
Per il direttore editoriale di Charlie Hebdo, Laurent “Riss” Sourisseau, rimasto ferito nell’attacco, «l’odio che ci ha colpito è ancora lì e, dal 2015, ha avuto il tempo di mutare, cambiare aspetto, passare inosservati e continuare silenziosamente la sua spietata crociata». Eppure non ci sono più stati attentati come quelli del Bataclan o della stazione della metropolitana di Maelbeek in Belgio. Cosa è cambiato? Ne abbiamo parlato con Raffaele Marchetti, docente di relazioni internazionali alla Luiss.
L’attentato a Charlie Hebdo ha catalizzato una nuova politica di antiterrorismo?
«Non direi che quello di Charlie Hebdo sia stato più impattante del Bataclan o di altri attentati – anche se di certo ha avuto un forte valore simbolico. Complessivamente è chiaro che questi attentati in qualche modo hanno sollecitato una reazione più efficace degli apparati di sicurezza e dell’intelligence dei paesi coinvolti, facendo emergere delle falle clamorose come nel caso dell’attento in Belgio».
In che modo?
«Hanno permesso di ricostruire le catene nazionali e internazionali di contatti, le modalità attraverso le quali i terroristi si sono radicalizzati e quindi sono stati portati al martirio. Di fatto questi attacchi terroristici sono stati particolarmente importanti perché hanno fatto vedere un tipo di radicalizzazione diversa: mentre l’adesione ad Al-Qaeda richiedeva anni di preparazione e coinvolgeva persone con un profondo spirito religioso, gli ultimi attentati sono stati compiuti da soggetti radicalizzati in pochi mesi o addirittura settimane, di solito provenienti da situazioni di estrema marginalizzazione e che attraverso il terrorismo – e quello che loro considerano un gesto “eroico” – cercavano di dare un senso alla propria vita. Ogni attentato lascia delle tracce che poi la buona intelligence è in grado di seguire».
Dunque oggi siamo effettivamente più sicuri?
«Se dovessi dare una risposta molto semplice direi che il motivo principale per cui c’è stato un calo negli attentati ha a che fare con il depotenziamento dello stato dell’Isis in Iraq e Siria. Questi attentati avevano un significato simbolico e politico che serviva a creare un’escalation con l’Occidente finalizzata a rafforzare le campagne di proselitismo: quanto più ci si mostrava capaci di attaccare l’impero del male – l’Occidente, l’Europa, gli Stati Uniti ecc. – tanto più “a casa”, si diventava forti. Venuto meno lo Stato Islamico – anche se non del tutto eliminato – assistiamo a una minore pressione sulle varie cellule sparse in Europa. Parallelamente, è sicuramente aumentata la capacità di prevenzione dell’intelligence».
ANSA | Il settimanale satirico francese Charlie Hebdo ripubblica le caricature di Maometto che ne avevano fatto un bersaglio del terrorismo islamico, 01 settembre 2020
Gli attacchi non sono finiti del tutto. Come mai? Ha senso parlare di lupi solitari?
«Certo non sono scomparsi, ma mi sembra che oggi il numero di attacchi non sia comparabile con quello di qualche anno fa. Da un lato rimane, anche se molto indebolito, un legame con i gruppi di estremisti, dall’altro il livello di radicalizzazione è stato molto forte – in qualche modo anche a causa della grande mediatizzazione che questi attacchi hanno avuto, cosa che ha finito per promuovere il reclutamento. Oggi la radicalizzazione è entrata nella società: c’è chi rimane dormiente, in una sorta di fase grigia di radicalizzazione a metà tra il simpatizzante e l’atto di sacrificio estremo. Un soggetto simile, in determinate circostanze, può superare la linea rossa».
Il ritorno dei foreign fighters rappresenta ancora un pericolo?
«Certo, sono – utilizzando la metafora del virus, – delle cellule patogene che si innestano in un corpo più o meno sano e lo possono contaminare. Ci sono foreign fighters che tornati si de-radicalizzano, o quantomeno si moderano, mentre altri diventano dormienti. Il problema è che quando una persona è stata ideologizzata, è molto difficile che venga reintegrata nella società».
C’è chi fa notare che i suprematisti bianchi rappresentano una minaccia più grande rispetto al terrorismo di matrice islamica. Cosa ne pensa?
«La caratterizzazione del profilo del terrorismo è purtroppo affetta da un fortissimo etnocentrismo, se non addirittura razzismo. Mentre il terrorista islamico è subito considerato un terrorista, l’attentatore di estrema destra rimane un pazzo, un criminale, e molto raramente viene classificato come terrorista. Si tratta di un fenomeno abbastanza noto, anche se non arriva al dibattito pubblico. Ora, che i terroristi di estrema destra, bianchi, occidentali, possano rappresentare una minaccia maggiore per alcuni gruppi – come per esempio per la comunità degli ebrei in Europa e negli Stati Uniti – è certamente vero. Possono anche rappresentare una minaccia molto seria contro la democrazia occidentale – lo abbiamo visto due giorni fa con l’assalto al Bundestag a Berlino. Ma direi che, con qualche eccezione, il numero di vittime di attacchi di questo tipo è stato minore».
Abbiamo rinunciato a troppe libertà individuali in nome della sicurezza?
«È chiaro che oggi l’intelligence pratica un tipo di investigazione molto più approfondita. Ma noi stessi abbiamo concesso questo allargamento della sua sfera d’azione, questo sbilanciamento del rapporto tra sicurezza e libertà a favore della sicurezza, che è avvenuto ovviamente come risposta agli attacchi terroristici, e come quasi ovvia conseguenza dello sviluppo tecnologico».
|