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venerdì 22 novembre 2024
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Magnifica Viola Davis, Kureishi in frantumi, i coniugi Arnolfini, il processo di Avignone
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di Alessandro Trocino
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per 10 minuti (ma ne era comunque «il cuore emotivo e l’anima», scrisse all’epoca il critico cinematografico Roger Ebert). Ha vinto l’Oscar, nel 2016, come attrice non protagonista in Barriere. E quando è stata nominata come migliore attrice protagonista è stato per The Help, in cui interpretava una domestica nera che aiutava la protagonista bianca a denunciare il razzismo del Mississippi. «Ho interpretato molte migliori amiche, madri tossicodipendenti, vicine di casa o professioniste senza una vita personale. C’è una limitazione nel modo in cui veniamo visti» ha detto Davis al New Yorker riferendosi al fatto che non solo è nera, ma è molto nera.
«Troppo spesso le rappresentazioni artistiche dei neri sono appiattite in puri espedienti che, ad esempio, ispirano l’eroina bianca, confortano l’eroina bianca o sostengono la decisione dell’eroina bianca di divorziare e volare a Bali (un riferimento a Mangia prega ama, in cui Julia Roberts è la protagonista e Davis un personaggio minore, ndr). All’inizio della sua carriera è stata relegata in questo tipo di ruoli, e ha cercato di introdurre un po’ di umanità nelle sue scene, riempiendo di vita gli stereotipi non memorabili» ha scritto Jazmine Hughes sul New York Times. «Dopo The Help, Davis ha ottenuto due Tony Awards, due Screen Actors Guild Awards e due nomination agli Oscar, ma non ha ricevuto nessuna offerta per ruoli da protagonista. Le persone chiamavano per qualche giorno di riprese qui, qualche giorno là. La sua vita era cambiata, ma Hollywood non molto. Si sentiva ancora emarginata per la sua carnagione» racconta ancora Hughes.
Le cose sono cambiate solo grazie a un’autrice televisiva che ha rivoluzionato le regole del casting: Shonda Rhimes. Anche lei nera, Rhimes è colei che ha inventato successi come Grey’s Anatomy, Scandal e Bridgerton. E soprattutto ha introdotto il cosiddetto «casting alla cieca» nella tv commerciale. Cioè la pratica di scegliere gli attori di una produzione senza considerare il colore della pelle. Con questa scelta apparentemente semplice (ma che non smette di suscitare critiche) ha rivoluzionato la tv americana, creando ruoli fino ad allora inesistenti per gli attori neri, di origine asiatica e anche latinos. Rhimes ha avuto la stessa capacità di rottura per quanto riguarda i ruoli femminili, ma lo ha sempre fatto spiegando che non dovrebbe essere cosi: «Non è dirompente raccontare il mondo come è in realtà. Le donne sono intelligenti e forti. Non sono giocattoli sessuali o donzelle in pericolo. Le persone di colore non sono impertinenti, pericolose o sagge. E, credetemi, le persone di colore non sono mai la spalla di nessuno nella vita reale» ha detto.
Rhimes ha dato a Davis l’opportunità che aspettava da sempre e l’ha scelta come protagonista della serie Le regole del delitto perfetto. È qui che ha girato la scena più famosa della sua carriera, quella della parrucca. Davis interpreta Annalise Keating, un’avvocata bravissima e spietata, inscalfibile sul lavoro. Nella scena Annalise torna a casa, si mette di fronte allo specchio, si toglie la parrucca che indossa in pubblico e si strucca, mostrando una fragilità inaspettata e accuratamente nascosta. È stata la stessa Davis a voler inserire la scena, che inizialmente non era prevista. Ed è un esempio della sua capacità di «ritrarre personaggi complessi e potenti» con cui «ha infranto barriere e aperto nuove strade», alla quale ha fatto riferimento la presidente dei Golden Globes Helen Hoehne quando ha annunciato che le sarà conferito il Premio DeMille.
«C’erano molte cose che la gente non mi permetteva di essere, finché non sono diventata… Annalise Keating. Non mi era permesso di essere sessualizzata. Mai. In tutta la mia carriera» ha detto Davis a Entertainment Weekly nel 2015, riferendosi al fatto che prima non le era mai stato offerto il ruolo di una donna desiderabile.
Non è l’unico ostacolo che Davis, nata nel 1965 in una piantagione della Carolina del Sud e cresciuta nel Rhode Island, ha dovuto superare per diventare attrice. Il primo è stato quello della sua origine sociale: viene da una famiglia poverissima, angariata da un padre violento che picchiava furiosamente la madre.
«A volte Davis arrivava a casa e vedeva gocce di sangue che arrivavano fino alla porta d’ingresso; almeno una volta, il padre Dan chiese alle figlie di aiutarlo a cercare la madre, che era scappata nel bel mezzo di un pestaggio, per poterla uccidere. La famiglia raramente aveva il riscaldamento, l’acqua calda, il gas, il sapone, un telefono funzionante o un gabinetto con lo sciacquone. I topi invadevano la casa, così famelici da mangiare le facce delle bambole della Davis. Lei e le sorelle si legavano le lenzuola al collo prima di andare a dormire per evitare i morsi dei topi. Suo padre picchiava spesso sua madre di notte e Davis iniziò a bagnare il letto, abitudine che non abbandonò fino all’adolescenza. Le condizioni della sua casa comportavano che spesso non poteva lavarsi o cambiarsi con un altro paio di vestiti puliti. Un’insegnante la rimproverò per la sua igiene, ma non le chiese mai la causa principale. Altri insegnanti la ignoravano: un giorno, Davis alzò la mano per andare in bagno, ma l’insegnante non la chiamò mai, così fece la pipì sulla sedia. L’insegnante la mandò a casa e il giorno dopo, quando tornò al suo banco, l’urina era ancora accumulata sulla sedia. Davis penso di essere così disgustosa che nemmeno il bidello voleva pulire il suo disordine. Aveva 6 anni».
Davis si è salvata grazie ai consigli della sorella più grande, che era rimasta a vivere con i nonni («Devi avere un’idea molto chiara di come riuscirai a cavartela se non vuoi rimanere povero per il resto della tua vita. Devi decidere cosa vuoi diventare. Poi devi lavorare sodo»). E grazie a una scena vista per caso in tv: «Trasmetteva L’autobiografia di Miss Jane Pittman e per la prima volta Davis vide sullo schermo una donna dalla pelle scura, con le labbra carnose e un taglio afro. Pensò che quella donna fosse bellissima e che assomigliasse a sua madre. “Il mio cuore smise di battere”, scrive nelle sue memorie. “Fu come se una mano avesse raggiunto la mia e finalmente vidi la mia via d’uscita”. Dianne aveva detto chiaramente che Viola poteva essere qualcuno. L’attrice Cicely Tyson era una persona che Viola poteva essere» ha raccontato Hughes sul New York Times (Tyson che è nata nel 1924 ed è morta nel 2021 era pioneristica attrice ed ex modella nera).
Davis così ha iniziato a recitare quando aveva 14 anni e si è potuta salvare recitando. Il suo immenso talento le ha permesso anche di studiare grazie alle borse di studio. Non era per niente scontato. Così come, per un sacco di motivi, non era affatto scontato che Davis entrasse nel Gotha di Hollywood. Ma il solo fatto che ci sia riuscita ha aperto la strada a un sacco di donne che come lei non corrispondono al vecchio (cioè bianco) ideale di bellezza di Hollywood. Oggi il mondo di tutti è un po’ più ricco.
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Rassegna letteraria
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Dispacci da una vita in frantumi
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«Mi lavano i genitali e il culo cantando allegre canzoni italiane».
È un libro doloroso e divertente quello di Hanif Kureishi, lo scrittore anglo-pachistano che un giorno, mentre stava bevendo una birra e guardando il suo Liverpool nella casa romana, ha avuto un calo di pressione, è caduto e si è ritrovato paraplegico, con una lesione del midollo spinale, il cervello sano intrappolato in un corpo assente e una vita in frantumi.
Hanif Kureishi nella sua casa londinese dopo l’incidente
Si chiama proprio così il suo libro, «In frantumi». Ed è un libro temibile e fantastico, che non ha scritto Kureishi: lo hanno scritto materialmente prima la compagna Isabella e poi il figlio Carlo, sotto sua dettatura. Il diario comincia il 6 gennaio, undici giorni dopo l’incidente. Prima su Twitter, poi in una newsletter su Substack, infine, rielaborato, in questo libro che l’amica Zadie Smith definisce bene: «L’umorismo, il talento, la curiosità, la chiarezza e la ferocia di Hanif sono tutti presenti». Si direbbe che si fanno forza a vicenda, si sostengono. Come i parenti e gli amici che affollano le stanze d’ospedale di Kureishi e i protagonisti della sua vita che lo vanno a trovare virtualmente («Quando non hai un futuro, il passato ti viene a cercare»). Il paziente, dote di cui evidentemente non dispone (la pazienza), ha bisogno di non restare solo e così la sua camera si riempie. Un po’ per la sorprendente capacità di dare amore che suscita la malattia (degli altri), un po’ per il senso di colpa e l’identificazione («e se ci fossi io, al suo posto?»), un po’ per la curiosità morbosa e perversa di vedere il grande Kureishi in sedia a rotelle.
Lo scrittore che non può più scrivere si attacca alle parole perché per lui sono l’unico modo per tenersi a galla. Con quattro arti paralizzati, Kureshi fa un resoconto dettagliato e impietoso della «bomba che è esplosa nella mia vita e che ha distrutto anche quella di coloro che mi circondano». È miracoloso scoprire come lo scrittore riesca a dire tutto quello che c’è da dire senza nessun pietismo, nessun sentimentalismo. Convoca amici e persone che conosce a malapena, chiama a raccolta tutte le parole di cui ha bisogno per estrarre il suo cervello intrappolato da quel corpo inutile. «Da quando sono diventato un vegetale non sono mai stato così impegnato».
Kureishi è brutale e vulnerabile. Ha paura di rimanere solo. È «una tartaruga ribaltata che agita impotente le zampe, sperando che qualcuno la giri». Si sente in colpa di dover chiedere aiuto. Noi lo seguiamo nel suo anno di malattia con cautela e apprensione. Molti romanzi e scritti che hanno per modello il «viaggio dell’eroe» ci hanno abituati a un arco narrativo rassicurante: il mito archetipico dell’uomo invincibile che deve affrontare l’ignoto nelle vesti di un nemico insidioso; prima è riluttante, poi trova un mentore che lo aiuta e decide di sfidare il mondo; ci sono inciampi, ostacoli, disillusioni, ma dopo molte avversità, l’eroe trionfa; sconfigge il male e risorge. È profondamente cambiato, ma in fondo è sempre il nostro magnifico eroe e noi gli vogliamo bene e siamo felici che stia bene e abbia sconfitto il fottuto nemico.
Kureishi è un eroe malconcio, riluttante. Entra in carrozzina nella storia e ne esce un anno dopo sulla stessa carrozzina. Ha fatto qualche minimo progresso, è tornato a casa, ma non si può dire che abbia trionfato. È passato attraverso fasi cicliche di cupezza, disperazione, speranza, amarezza, disillusione. Ha pensato di farsi fuori con un’overdose. Ha sorriso poco ma non ha perso il senso dell’umorismo. Noi siamo stati seduti con lui per tutto il viaggio, abituandoci a poco a poco a quella visuale così insolita, a pochi centimetri da terra. Abbiamo mangiato il daal con il riso, fissato la parete, insultato Peter O’ Toole («è un po’ un coglione»). Abbiamo visto entrare nella stanza pazzi che urlavano e ci fissavano. Abbiamo fatto un clistere. Abbiamo rivalutato lasanità italiana, rispetto a quella inglese, ma anche pensato con raccapriccio che sta andando tutto a scatafascio. Siamo come la famosa rana, l’acqua si sta scaldando a poco a poco e stiamo finendo bolliti senza quasi accorgercene.
Quello di Kureishi è un diario, un’autobiografia, ma anche un manuale di scrittura creativa (lui però odia la parola). La malattia non ha cambiato il suo cervello: cerca sempre la cosa più giusta da dire e il modo giusto con cui dirla. Rivendica una libertà assoluta nel dirla, a costo di dettare alla compagna e al figlio particolari erotici e scandalosi di sesso e di droga della sua vita che non ha nessuna intenzione di nascondere, né di celebrare. Li vuole soltanto raccontare, anche se quel «soltanto» suona riduttivo e fuorviante.
Ci sono pagine molto belle su questa libertà assoluta che rivendica per gli scrittori. Anche se, dice, «l’epoca del liberalismo è finito. Siamo entrati in una nuova era di censura e auto censura. Regna il terrore di offendere e di venire offesi». Tutti gli scrittori, dice, terrorizzati dai «sensitivity reader», hanno ormai paura di essere accusati di sessismo, razzismo, appropriazione culturale. «Parte della sinistra è affetta da moralismo aggressivo e puritanesimo autolesionista». Lui invece adora «i pazzi scatenati, quelli che se ne sbattono del giudizio degli altri, come Dostoevskij, Plath, Rhys, Célin, Burroughs, Miller, Baldwin». Per Kureishi fa parte del lavoro dello scrittore «essere offensivo, blasfemo, scandalizzare, oltraggiare e perfino insultare. La cultura non deve essere sicura o compiacente: deve spaventare, se non allarmare». Lui l’ha fatto, basti rileggere Il Budda delle periferie, «pieno di insulti razziali e di linguaggio scurrile»: «Questo comportamento eccessivamente corretto è stato creato dalla destra per far sembrare noi di sinistra sciocchi e meschini con le nostre inutili dispute sulle parole e sul punto di vista. Dobbiamo sforzarci di essere coraggiosi, di alzare l’asticella su quello che si può dire e pensare».
Kureishi ci parla. Come in tutti i suoi i libri, ma qui di più. E non c’è bisogno di artifici letterari, di frasi auliche o impegnative. Nei lunghi mesi di cattività ha dovuto imparare l’arte di conversare con gli sconosciuti, che già praticava da scrittore. «La conversazione è una cosa inutile, nel senso migliore del termine. È anticapitalista. Un gioco per adulti». Ci possono stare in questo dialogo anche frasi semplici, di quelle che sogniamo di notte e che diciamo al muro, se non c’è nessuno a darci retta. Banalità, che risuonano più potenti che mai: «Vorrei che quello che mi è successo non fosse mai successo».
Possiamo immaginarlo? Può succedere tra un attimo, tra un’ora, sta accadendo adesso, mentre ci alziamo. È assurdo, ma è così. «Un uomo di mezza età che qualche mese fa era in giardino, si è voltato, è inciampato su un rastrello e si è rotto il collo. Ora è in sedia a rotelle e muove una sola mano». «Un tassista, sollevando una valigia in stazione, si è spezzato la colonna vertebrale». «Un ragazzo simpatico che va su e giù in sedia a rotelle e che è rimasto invalido dopo essere stato colpito da un taser della polizia». Vite normali che si interrompono. Un attimo dopo non è più come prima. Un attimo dopo sei in frantumi. Perché? «Nessuna spiegazione. Nessuno da incolpare». La prima reazione di chi ci finisce dentro. «Rabbia e disprezzo»: «L’altro giorno ho cercato di diventare religioso; volevo instaurare un rapporto con Dio, mi sembrava la persona ideale da odiare per tutto questo. Ma non ero convinto. Non sono riuscito a crederci».
Kureishi si lascia andare, ma non è mai patetico. Lo salvano la curiosità e l’ironia. «Non consiglierei di avere un incidente come il mio». Mentre viene penetrato per l’ennesima volta, ricorda: «L’ultima volta che un dito medico è entrato nel mio culo è stato qualche anno fa. Quando l’infermiera mi ha girato, mi ha chiesto: ‘Quanto tempo ci hai messo a scrivere I figli della mezzanotte ?’. Ho risposto: ‘Se l’avessi scritto davvero, non pensa che ora sarei in una clinica privata?’».
Chi è adesso Hanif Kureishi, un uomo che per tutta la vita si è interrogato sull’identità, sua e degli altri? «Pachistano, scrittore, storpio. Chi sono ora?».
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Capolavoro! |
Il Ritratto dei coniugi Arnolfini: una storia di specchi, forse di spettri e di straordinaria abilità dell’artista
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Il Ritratto dei Coniugi Arnolfini, come è universalmente conosciuto questo capolavoro della pittura a olio, è prima di tutto un grande mistero. Sappiamo poco del suo autore, il fiammingo Jan van Eyck (1390 circa – 1441) e sappiamo ancor meno dell’opera, non a caso fonte di ispirazione di romanzieri, registi, sceneggiatori. Ma una cosa è certa: sulla parete di fondo del quadro, l’autore ha scritto «Johannes de Eyck fuit hic 1434». Questa data aggiunge pathos all’intera opera perché l’ipotesi ormai accolta universalmente è che il ritratto rappresenti un mercante di stoffe imparentato con i Medici, Giovanni Arnolfini e sua moglie Costanza Trenta.
«Il ritratto dei coniugi Arnolfini», oggi nella National Gallery di Londra
Il dipinto originariamente veniva intitolato «Hernoul-le-Fin con la moglie» perciò, data l’assonanza dei nomi e visto che la coppia compariva nei registri dei conti della corte borgognona, gli studiosi hanno sempre pensato che si trattasse proprio degli Arnolfini, una ricca famiglia originaria di Lucca che aveva avuto successo con il commercio della seta e che si era stabilita a Bruges, nelle Fiandre, per affari. Ma c’è un nodo. Un documento emerso alla fine degli Anni 90 certifica la morte di Costanza almeno un anno prima. E il mercante si sarebbe risposato solo anni dopo. Ma allora chi sono i due personaggi che nella sala numero 56 della National Gallery di Londra ci guardano con aria interrogativa dal 1842? È il corpo di un fantasma quella donna di verde vestita, dal ventre prominente e dalla raffinata acconciatura tipica delle donne dell’alta società del ‘400? Forse sì. Intanto perché ci sono studiose come Margaret Koster che sostengono una tesi affascinante: la donna sarebbe proprio un fantasma, una «revenante», uno spettro che torna dall’oltretomba per fare visita a una persona cara. Secondo Koster segno evidente del lutto è la candela consumata dal lato della donna sul candelabro appeso al soffitto. E il ventre gonfio starebbe a indicare la morte per parto.
In più, qualche anno fa, è arrivato anche un libro, «Il mistero Arnolfini», di Jean-Philippe Postel, medico e amico di Daniel Pennac. In questo libro, Postel ha inforcato gli occhiali e come un investigatore della vecchia Inghilterra ha trascorso lunghi giorni nella National Gallery, scrutando ogni dettaglio del dipinto. A cominciare da quello più famoso e raffinato: lo specchio. In fondo alla stanza, dietro alla coppia, uno specchio rotondo infatti ci restituisce l’immagine rovesciata e qui il talento di van Eyck si dispiega in tutta la sua complessa fattura.
Ogni minimo particolare della stanza viene riprodotto, tutto è riportato con precisione e non a caso questo sguardo «lenticolare» poi sarà importantissimo per la pittura europea, a cominciare da Diego Velázquez che nel suo «Las Meninas» (oggi al Prado) riprenderà l’espediente della visione speculare. Ma qualcuno avrà già notato che nello specchio mancano dettagli importanti: il cane in primo piano, così «presente» e rilevante nel quadro. E poi nel riflesso dello specchio i due non si danno la mano, cosa che invece salta subito all’occhio. Nel riverbero inoltre ci sono due personaggi, dei quali uno vestito di rosso scuro: chi sono? E come mai uno dei due assomiglia così tanto all’artista (almeno per i documenti di confronto che possediamo)? Ma soprattutto ci si chiede: qual è la scena reale, quella del dipinto o quella riflessa nello specchio tondo?
È proprio questo il punto: per Jan van Eyck non c’è una sola realtà, ma la pittura può creare nuove rappresentazioni, l’arte ha il potere di creare altri mondi. È questa la natura demiurgica della pittura fiamminga: con la tecnica ad olio e con la precisione di un maestro orafo, l’artista ha ingaggiato una vera e propria sfida alla realtà. Una sfida non solo a riprodurre il vero nei minimi particolari, ma addirittura a inventare una realtà parallela. Un’altra celebre opera di van Eyck lo dimostra: il Polittico di Gand, dipinto tra il 1426 e il 1432 per la cattedrale di San Bavone a Gand, dove si trova tutt’oggi. Un polittico apribile composto da dodici pannelli di legno di quercia, otto dei quali sono dipinti anche sul lato posteriore.
«Il polittico dell’Agnello mistico», o «Polittico di Gand»
Salta subito all’occhio la differenza tra il registro superiore e quello inferiore, la diversa resa monumentale dei personaggi, le scale di rappresentazione differenti. Poco importa: van Eyck era capace di immaginare grandiose architetture e di cimentarsi nei lavori di riproduzione più minuziosi. Era un inventore di mondi, come notò lo stesso Dürer, durante il suo viaggio nelle Fiandre. Così, tornando agli Arnolfini, poco importa se i due personaggi siano stati raffigurati dal vivo o se la scena rappresenti l’apparizione di uno spettro. Se la raffigurazione nello specchio sia metaforica (con la mano della moglie defunta non visibile perché bruciata), oppure se sia la scena reale ritratta dall’artista. D’altra parte, come ha osservato Postel nel suo libro, «all’inizio del XV secolo, sì, la gente credeva negli spettri, nel Purgatorio e nei suffragi». Come ha scritto Jacques Le Goff nel 1981: «esistono, nell’immaginario cristiano, spettri legittimi, le anime del purgatorio autorizzate a tornare momentaneamente in terra per incitare i suffragi dei vivi, a loro necessari per abbreviare le loro pene».
Jan van Eyck, che si era formato come miniatore per diventare poi pittore di corte prima a La Hague e poi in Borgogna sotto Filippo il Buono, disseminava indizi, lasciava tracce, probabilmente si nascondeva dietro a dipinti che in apparenza parlano d’altro. Come «The man in the red turban», che si può ammirare nella National Gallery di Londra: un viso allungato, dal naso sottile, attraversato da rughe e ornato da un vistoso turbante color porpora. Ma quello che qui ci interessa di più, oltre alla firma, è una vera e propria dichiarazione scritta sulla cornice: «Als Ich Can», cioè «faccio come posso», tento di dare il meglio.
rscorranese@corriere.it
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Rassegna criminale
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Avignone, il processo alla cultura dello stupro e «alla vigliaccheria»
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Ad Avignone si celebra un processo a un mostro e ai suoi complici. La Francia attonita e sconvolta, segue – udienza dopo udienza – la vicenda allucinante di un marito pervertito che ha «consegnato» sua moglie, dopo averla drogata, a una cinquantina di uomini, rispettabili e noti concittadini, colleghi, amici, professionisti, padri di famiglia. E questo noir, che sembra uscito dalla fantasia perversa di un regista dell’orrore, è un terribile e attualissimo spaccato di una provincia francese, la cittadina di Mazan, normalissima e banale, con i suoi bistrot, le piazze linde, qualche chiesa e il municipio.
Ma ciò che ha attirato l’attenzione della stampa internazionale e ha suscitato un sussulto di responsabilità e presa di coscienza collettiva è la scelta coraggiosa della vittima, Gisèle Pelicot, moglie e madre, che per dieci anni ha subito ogni genere di umiliazioni e violenze – stuprata, usata, filmata, fotografata – e che ha avuto la forza di presentarsi in aula, di guardare in faccia e accusare il suo carnefice, di trascinare sul banco dell’accusa quel deprimente campionario di uomini di tutte le età, di diverso ceto e cultura, diventati di colpo un soggetto unico e orrendamente responsabile: l’uomo che approfitta, l’uomo che non frena le proprie pulsioni, l’uomo che torna a casa, sereno e tranquillo, senza avere fatto nemmeno la doccia. Nel corpo e nell’anima. Uomini che in parte hanno tentato una vergognosa autodifesa, accusando a loro volta il marito della Pelicot di averli attirati loro malgrado in insani giochi sessuali. E naturalmente sostenendo che la donna fosse probabilmente consenziente.
Argomenti risibili, smentiti udienza dopo udienza dai filmati che mostravano uomini dediti ad atti sessuali su un corpo quasi inerte, incitati dal marito, il cui perverso piacere era appunto quello di sottoporre sua moglie a questo martirio.
Il paradosso tragico di questa odissea sordida è che sono gli uomini a nascondersi il volto, mentre lei – fragile, ferita, umiliata – li guarda negli occhi a viso aperto.
Quando le è stata data la parola, la signora Pelicot ha sintetizzato in poche parole l’oscenità del contesto cittadino che l’ha torturata: «Questo è un processo alla vigliaccheria», alludendo ovviamente al deprimente comportamento dei suoi carnefici. «Provo rabbia nei confronti di coloro che sono dietro di me e che non hanno pensato nemmeno per un momento di denunciare il fatto – ha detto – Nessuno l’ha denunciato. Questo solleva alcune domande reali».
«È ora che una società maschilista e patriarcale che banalizza lo stupro cambi. È ora di cambiare il modo in cui guardiamo allo stupro», ha dichiarato la settuagenaria, in questo straordinario processo in corso da settembre. Soltanto il marito, da cui ha divorziato dopo che la storia era venuta alla luce, si è dichiarato colpevole. Ma solo in parte: ha ammesso i fatti, adducendo tuttavia traumi infantili e violenze subite che lo avrebbero portato a comportamenti indecenti contro sua moglie.
Dominique Pelicot, il grande pervertito, ha raccontato di avere somministrato per anni alla moglie sonniferi e droghe e di avere invitato concittadini, contattati via web, a raggiungerlo in una casa presa in affitto dove si svolgevano le serate di violenza sessuale collettiva. Fra i cinquanta uomini sotto processo ci sono commercianti, un pompiere, un giornalista, un camionista, un infermiere. Età compresa fra i 26 e i 74 anni. Molti sono sposati, la maggior parte con figli. Ovviamente, il processo ha devastato anche le rispettive famiglie, parenti, figli, la cerchia degli amici. Ad aggiungere disappunto e orrore, il leit motiv secondo cui si tratta di persone gentili, perbene, tranquille, definiti «eccezionali» da qualche familiare.
Durante la sua testimonianza, la signora Pelicot, oggi settantenne, ha ricordato di avere conosciuto il marito in età molto giovane e di avere vissuto un matrimonio sereno per molti decenni. Ha anche aggiunto di non avere nessuna consapevolezza di quanto le stava accadendo, in quanto attribuiva vuoti di memoria, sonnolenza e crisi depressive a un possibile tumore o al morbo di Alzheimer. Circostanza avvalorata anche dal fatto che il marito l’accompagnava personalmente alle visite mediche. In pratica, cercava la causa di disturbi che lui stesso provocava.
«L’ho sempre considerato un atto di gentilezza. Potrebbe anche essere stato un modo per assicurarsi che non si scoprissero i fatti», ha detto la donna in aula.
In Francia, la signora Pelicot è diventata un’eroina. Ammirata per il suo coraggio e circondata da un’immensa solidarietà, perché la vicenda di cui è stata vittima si è tradotta anche in una terribile tragedia per la sua famiglia. Non è difficile immaginare il trauma dei suoi tre figli nell’apprendere il calvario della madre e le ignobili azioni del padre. Inizialmente, sulla loro vita è sceso un velo di vergogna e imbarazzo. Ma poi, anche in aula, si sono mostrati vicini e orgogliosi del coraggio della loro mamma.
David, il figlio maggiore, oggi cinquantenne, Caroline, la figlia di mezzo, e Florian, il più giovane, hanno testimoniato davanti al tribunale penale. Tre voci rotte dalla commozione che hanno ricordato il momento in cui, circa quattro anni fa, hanno ascoltato il racconto della loro madre. E poi le prime reazioni. La denuncia alla polizia di Carpentras, l’addio alla casa di Marzan, svuotata di tutto ciò che ricordava il loro padre.
David Pelicot ha anche raccontato di avere scoperto che il padre aveva fotografato anche sua moglie, nuda e incinta di due gemelle, ovviamente a insaputa della donna. Inoltre aveva tentato di circuire il nipotino di tre anni. Al processo, il padre si è difeso: «Ma no! Non ho fatto nulla! Non ho fatto nulla ai miei figli e ai miei nipoti“, ha tuonato Dominique Pelicot. David ha insistito: «Questo processo non riguarda solo Gisèle Pelicot. Spero che non ti dispiaccia se lo dico, mamma. È il processo di un’intera famiglia che è stata devastata». Anche il secondo figlio, Florian, ha detto che il padre aveva fotografato sua moglie, Aurore, nuda in bagno e aveva creato un foto montaggio con il suo sesso sul corpo di lei. Florian ha divorziato. Al processo ha sollevato anche il dubbio di non essere figlio del signor Pelicot.
Sua madre, secondo la ricostruzione fatta da Le Monde, aveva avuto una relazione con un collega di lavoro e i genitori si erano quasi lasciati. Lui è nato in questo periodo travagliato, undici anni dopo David e otto anni dopo Caroline. «Fa tutto parte del puzzle. Non assomiglio a mio fratello e a mia sorella. E probabilmente ero quello che aveva meno cose in comune con mio padre.Voglio eliminare il dubbio. Devo fare questo test di paternità».
La terza figlia, Caroline Darian, ha rivelato alla corte la sua convinzione di essere stata a sua volta violentata e sedata dal padre. Sul computer di Dominique Pelicot sono state trovate foto di lei che indossava biancheria intima che non le apparteneva e condivisa con un utente di Internet. Ha insistito per essere ascoltata di nuovo. «Mi considero la vittima dimenticata di questo processo», ha detto.
David, Caroline e Florian considerano il loro padre «uno dei più grandi predatori sessuali della storia della Francia», un mostro. Ma hanno trovato il coraggio di guardarlo in faccia e pretendere che dia loro delle risposte. Ne hanno bisogno per poter andare avanti, soprattutto la figlia Caroline, che ritiene di essere stata anch’essa violentata, anche se le prove non sono state accertate. Florian lo ha definito «il diavolo in persona».
La vicenda ha avuto eco anche negli Usa. Il New York Times ha scritto: «Il processo ha scosso la Francia e ha sollevato domande scomode sulle relazioni tra uomini e donne, sulla cultura dello stupro e sulla definizione di consenso. In un Paese che sette anni fa si era dimostrato resistente al movimento #MeToo, le conversazioni sulla cultura dello stupro e sulla mascolinità tossica sono diventate improvvisamente di dominio pubblico»
Il verdetto è atteso per la fine di dicembre, per 51 uomini che hanno abusato di una donna e distrutto un’intera famiglia. E forse anche la loro.
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Diario dalla Cop / Giorno 5 |
Le bozze «finali» di Baku non piacciono a nessuno (la Cina, intanto, ha capito dov’è il business)
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A una sessantina di chilometri dallo stadio Olimpico di Baku, dove i delegati di quasi 200 Paesi continuano a negoziare un accordo sul clima, una società controllata dagli Emirati Arabi Uniti, Masdar, ha recentemente inaugurato il più grande parco solare della regione del Caspio.
«Produce 230 MW, che forniscono energia pulita a 110.000 case e tolgono dall’atmosfera 200.000 tonnellate di CO2», spiega al CorriereKamil Manafov, manager dell’impianto di Garadagh, che sorge quasi come un’oasi in mezzo al deserto delle steppe azero. «E ci espanderemo ancora sui terreni vicini, dove prima si cercava il petrolio».
Il governo dell’Azerbaigian non ha investito neanche un manat, la moneta locale, ma ha ceduto l’uso dei terreni per 23 anni agli emiratini. Qualche chilometro più in là presto sorgerà un’altra centrale da 1 gigawatt, ribattezzata il «Megaproject». Una società statale saudita sta invece costruendo poco lontano un grande parco eolico.
Entrambi i progetti rompono gli schemi dell’accordo sul clima di Parigi: sono finanziati da imprese di Paesi in via di sviluppo (gli Emirati e l’Arabia Saudita) che sulla carta dovrebbero al contrario essere i destinatari delle «donazioni» dei Paesi sviluppati. Invece, le nazioni del Golfo, ricche di petrolio, così come la Cina, ricca ormai di tutto, stanno investendo sempre di più in progetti verdi nei Paesi più poveri.
Il vicepremier cinese Din Xuexiang nei giorni scorsi ha dato per la prima volta le cifre: Pechino «ha fornito e mobilitato» più di 177 miliardi di yuan (24,5 miliardi di dollari) di fondi di progetto per «sostenere le risposte climatiche» di altri Paesi in via di sviluppo, dal 2016 ad oggi. I cinesi, come le petrocrazie arabe, non lo fanno perché sono caritatevoli ma perché hanno capito qual è il business del futuro.
Tanto basta agli altri Paesi in via di sviluppo. Lo ha confermato nella conferenza dell’ultima ora, stasera, la ministra brasiliana del Brasile, Marina Silva: «I Paesi in via di sviluppo non rifiutano di contribuire alla finanza climatica, lo stiamo già facendo con le nostre risorse domestiche in patria e per il resto devono essere volontarie, nella struttura della cooperazione Sud-Sud».
La Cop doveva chiudere oggi ma non sarà così. La presidenza azera della Conferenza sul clima ha già prodotto un paio di bozze, che non sono piaciute a nessuno. Né ai 43 Paesi che l’Onu definisce formalmente come Paesi sviluppati, né ai Paesi in via di sviluppo, che si lasciano spesso guidare (e sostenere) dalla potenza cinese in queste sedi negoziali, e in cambio accettano che la Repubblica popolare conservi la sua posizione ambigua. Donatore sì, ma solo volontario e senza alcun obbligo formalizzato negli accordi Onu. Ma la Cina è ancora un Paese in via di sviluppo? È la domanda che si rincorre da diversi anni alle Cop.
Aspettiamo la fine. Marina Silva, con il suo consueto piglio da combattente dell’Amazzonia, ha lanciato un allarme: «In questo momento così critico geopoliticamente, aumenta la nostra responsabilità a dimostrare che il sistema multilaterale ancora funziona attraverso l’unione delle nazioni».
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Rassegna dei media
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Google blocca i contenuti giornalistici ad alcuni utenti: «Un test». Gli editori: «Inaccettabile»
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Google Search e Google Discover sono ormai diventati fondamentali strumenti per accedere all’informazione. Dalla bacheca del motore di ricerca e dal Feed personalizzato sulle abitudini dell’utente singolo e dedicato proprio alle notizie e agli articoli di attualità passa una percentuale sempre più alta del traffico di quotidiani online e siti d’informazione. Google questo lo sa bene, così come lo sanno gli editori. Le relazioni tra il colosso di Mountain View e questi ultimi hanno passato alti e bassi, mentre il dibattito su come regolamentare il rapporto tra chi offre la piattaforma e chi provvede ai contenuti continua in diverse parti del mondo. Tra cui l’Europa, dove Google ha avviato il 14 novembreun test perché – dichiara – gli editori e le autorità europee «hanno chiesto dati aggiuntivi sull’effetto dei contenuti di news su Search». Il test insomma dovrebbe determinare l’impatto sul traffico e sull’esperienza di ricerca dei contenuti di informazione. Ma più che un test sembra un avvertimento.
Google rimuoverà gli articoli di news di editori europei dal Feed di Search, Google News e Discover di una piccola parte di utenti – l’uno per cento – di otto Paesi, tra cui l’Italia. Gli altri sono Belgio, Croazia, Danimarca, Grecia, Olanda, Polonia e Spagna. In Francia è stato sospeso dietro ordine di un tribunale di Parigi: in attesa della decisione del giudice, la società rischiava una multa fino a 900mila euro al giorno. «Continueremo a mostrare i risultati di altri siti web, compresi gli editori di notizie con sede al di fuori dell’Ue. Intendiamo utilizzare questo test per valutare l’impatto dei risultati degli editori di notizie dell’Ue sull’esperienza di ricerca dei nostri utenti e sul traffico verso gli editori», spiegano. Aggiungendo che, una volta terminato il test – non sappiamo quanto durerà però – i risultati di ricerca saranno ripristinati. La reazione degli editori però non è stata positiva.
La nota congiunta delle associazioni europee di editori – La European Magazine Media Association (EMMA), la European Newspaper Publishers’ Association (ENPA) e la News Media Europe (NME) – dichiara che Google non li ha consultati su questo studio né li ha precedentemente informati. «L’annuncio è stato una vera sorpresa. Siamo estremamente preoccupati per la mancanza di informazioni e di trasparenza di questa iniziativa, nonché per le conseguenze che potrebbe avere per gli editori di stampa europei. Esortiamo pertanto Google a sospendere i test con effetto immediato e ad avviare un dialogo con il settore editoriale della stampa europea per concordare, in modo costruttivo e trasparente, una strada comune da seguire». Trasparenza che, secondo loro, Google non ha nei confronti di un tema fondamentale come quello «dei contenuti giornalistici nel modello di guadagnagno» del colosso. «L’annuncio unilaterale di Google della riduzione dei contenuti giornalistici non è solo una risposta inappropriata alla questione della trasparenza, ma anche una mossa inaccettabile. Google valuterà Google sulla base di parametri di ricerca determinati da Google».
Segue la risposta della stessa Google, che sottolinea l’importanza che a Mountain View si dà all’ecosistema delle notizie. Un portavoce risponde in particolare alla situazione del nostro Paese: «Oltre a supportare i media italiani a ottenere traffico prezioso attraverso il motore di ricerca, Google è la prima azienda ad aver sviluppato un programma di accordi di licenza per i contenuti degli editori di notizie nell’ambito della direttiva sul diritto d’autore: collaboriamo con oltre 4.000 pubblicazioni in Europa, compresa l’Italia». Il portavoce spiega come «gli editori ci hanno chiesto ripetutamente più dati sul valore delle notizie per Google». E per questo il colosso ha deciso di eseguire questo test, durante il quale, aggiungono «non ci sarà alcun impatto sui pagamenti che effettuiamo agli editori di notizie ai sensi della direttiva sul copyright».
La legge in questione è la European Copyright Directive (Eucd), entrata in vigore nel 2019. Grazie alla direttive, gli editori europei possono chiedere un pagamento per i contenuti di loro proprietà alle piattaforme online che li utilizzano per arricchire i propri feed. Google ha investito un miliardo di dollari e avviato un programma dedicato, chiamato Extended News Previews per adeguarsi alla norma e ha stretto accordi con quattromila pubblicazioni, finora, come già detto. «Siamo la prima società ad aver implementato un programma dedicato all’Eucd», specificano. «Questi accordi si basano su criteri coerenti che rispettano la legge e le linee guida esistenti in materia di diritto d’autore, tra cui la frequenza di visualizzazione di un sito web di notizie e l’entità degli introiti pubblicitari generati da pagine che mostrano anche anteprime di contenuti giornalistici». Non è però una legislazione che la società ha accolto in modo positivo: di fatto sono stati obbligati a pagare gli editori per il loro lavoro. E ci sono tra l’altro già state le prime contestazioni su come questi accordi vengono stretti: in Francia Google è stata sanzionata per 250 milioni di euro. L’accusa è di non aver negoziato «in buona fede» e di aver sfruttato i contenuti anche per addestrare la propria intelligenza artificiale generativa (che prima si chiamava Bard e poi è stata ribattezzata Gemini). Il timore è che questo sia solo il primo passo: nel momento in cui gli editori – dati alla mano, grazie al test – si ritrovano davanti la dimostrazione effettiva del potere che Google ha assunto nel rapporto con i loro lettori, il potenziale ricatto è dietro l’angolo. Anche perché ci sono già dei precedenti. In California sono stati rimossi link dai siti di informazione come risposta al Journalism Preservation Act, il cui obiettivo era lo stesso: pagare i giornali per i contenuti che vanno ad alimentare i Feed delle piattaforme. In Australia si era parlato addirittura di chiudere il motore di ricerca per evitare una legge simile nel 2021, così come è stata avviata la procedura in Canada, proprio con un «test ristretto al 4 per cento degli utenti» in risposta, anche qui, a una regolamentazione sul pagamento dei contenuti giornalistici.
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