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Buongiorno. Alle 3 italiane di stanotte, le 4 in Medio Oriente, è scattata la tregua tra Israele e Hezbollah: 60 giorni di cessate il fuoco che interrompono una guerra iniziata dai miliziani sciiti libanesi l’8 ottobre 2023, il giorno dopo il massacro compiuto da Hamas nei kibbutz del Sud di Israele.
La scommessa del loro allora leader Hassan Nasrallah, ucciso da Israele giusto due mesi fa, era impegnare lo Stato ebraico su due fronti, incassare i dividendi politici dell’appoggio ai «fratelli» palestinesi e non andare troppo oltre la guerra di logoramento che da decenni Hezbollah combatte con Israele. Ma il calcolo si è rivelato tragicamente sbagliato perchè non era il «solito» Israele, ma un Paese traumatizzato dal 7 ottobre e guidato da un leader deciso a tutto per sopravivere politicamente e non passare alla storia come l’uomo della disfatta più grande, ma come quello della «vittoria totale» su tutti i nemici, Iran compreso.
Così, Benjamin Netanyahu ha spento la pretesa di Hezbollah di un «fronte unico» – smettiamo di attaccare a Nord appena c’è la tregua a Gaza – e ha tenuto rigidamente separati i due fronti: anche ieri, ha ripetuto che la guerra a Hamas continua.
La «vittoria totale», però, non c’è ancora, e difficilmente gli israeliani evacuati dal Nord rientreranno presto nelle loro case. Né la cinquantina di ostaggi vivi ancora in mano a Hamas vede la liberazione alle porte, perché il loro governo ha altre priorità.
Vedremo dunque se almeno un pezzo di guerra è finito, come spera la diplomazia internazionale, o se è solo il canto del cigno dell’amministrazione Biden, in attesa che, con Trump, Netanyahu senta di nuovo di avere le mani libere. Fatto sta che, dopo quasi 4 mila morti, il Libano può tornare a respirare.
E poi, in questa newsletter: la politica italiana. Ancora una volta, dobbiamo constatare la fortuna di poter usare i termini bellici, nel nostro contesto, a mo’ di metafora. La «guerra» tra Lega e Forza Italia che continua su tutto; la «guerra civile» tra contiani e grillini che dilania i 5 Stelle; Fratelli d’Italia e Pd che osservano i rispettivi alleati tra la soddisfazione per la propria solidità e qualche preoccupazione per le sorti collettive. Tutti, ma proprio tutti, si sono però ritrovati nella furbata di provare ad aumentare il finanziamento pubblico ai partiti. Sventata dal presidente della Repubblica.
E ancora: i fermenti inquietanti della banlieue milanese, lo sciopero dei trasporti di dopodomani dimezzato dal governo con la precettazione, la difesa di Turetta, l’assassino di Giulia Cecchettin, che per i suoi legali «non merita l’ergastolo perché non è come Pablo Escobar», la Champions, e altre cose che forse vale la pena leggere e sapere oggi.
Benvenuti alla Prima Ora di mercoledì 27 novembre.
La tregua in Libano
Il ritratto di Hassan Nasrallah troneggia sulle rovine del quartiere di Hassan Nasrallah, a Beirut (Afp)
L’accordo raggiunto, le incognite, perché ci riguarda: punto per punto.
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I termini del cessate il fuoco Il testo concordato dal governo israeliano e, per conto di Hezbollah, dal presidente del Parlamento libanese Nabih Berri – dopo una lunga mediazione di Usa e Francia – non fa che riproporre quello della Risoluzione Onu 1701 del 2006, che pose fine al conflitto di 18 anni fa. Da una parte, Israele si impegna a ritirarsi dal Libano entro 60 giorni e di smettere di bombardarlo: dall’altra, Hezbollah deve ritirare uomini e armamenti a Nord del fiume Litani, che si trova a una trentina di chilometri dal confine tra i due Paesi.
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In mezzo ci siamo noi Noi, intesi come Unifil e noi intesi come italiani, che della missione di pace dell’Onu siamo la forza principale, con un migliaio di soldati. Entro gennaio, i caschi blu dovrebbero assicurare che il territorio libanese a sud del Litani sia controllato dall’esercito regolare e garantire che non ci siano più infiltrazioni di Hezbollah: quello che non è riuscito in questi anni.
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La pace si può «imporre»? Israele, spiega Andrea Nicastro, «desidera che il contingente internazionale cambi natura. Da semplice osservatore a forza capace di “imporre” la pace, cioè disarmare Hezbollah assieme all’esercito libanese
». Si chiama
peace enforcing, ma è assai dubbio che la missione possa (e che i governi che vi partecipano vogliano) mai farlo. Di certo, se la tregua funziona, per almeno due mesi cesserà il tiro incrociato dalle due parti che ha messo a rischio i nostri soldati.
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E dopo che succederà? Che riprenda la guerra non è affatto escluso. Anzi. Effi Eitam, uno dei principali consiglieri di Netanyahu, ha detto chiaramente che ora l’obiettivo è placare l’amministrazione Biden, che ha ridotto i rifornimenti di armi a Israele e minacciato di toglierli la protezione diplomatica all’Onu. Poi, con Trump, si vedrà: non a caso, Eitam «consiglia» ai 50 mila israeliani evacuati in questi mesi di aspettare ancora, prima di rientrare nelle loro case. E loro, gli evacuati, prima vorrebbero in effetti l’eliminazione totale di Hezbollah che gli è stata promessa.
- E quindi? E quindi questo è un successo di Netanyahu, più che di Israele. Il premier può fare rifiatare soldati e riservisti, rendendo meno stridente la legge sull’esenzione dalla leva degli ultraortodossi che i suoi alleati vogliono approvare presto. Gli stessi alleati che puntano alla ricolonizzazione di Gaza: «Lì il premier ha promesso fin dall’inizio fasce di sicurezza, ormai più profonde di quelle disegnate dai generali, lì non intende raggiungere uno stop ai combattimenti: metterebbe in pericolo la sua permanenza al potere perché gli oltranzisti non sono pronti ad accettare quello che sta loro bene in Libano», scrive Davide Frattini. E Netanyahu, con la guerra, continua a strappare rinvii ai suoi processi per corruzione.
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Intanto a Gaza Intanto a Gaza la catastrofe umanitaria si aggrava per il maltempo. Le organizzazioni umanitarie chiedono disperatamente l’invio di prefabbricati perché le tende in cui vivono centinaia di migliaia di profughi sono allagate dalla pioggia. La rete fognaria e quella idrica sono in gran parte distrutte. Gang e milizie spadroneggiano. Hamas non è distrutta del tutto. Tantomeno Hezbollah in Libano. No, la guerra non è affatto finita.
La politica italiana
Giorgia Meloni tra Tajani e Salvini (Ansa)
Lo scontro perenne nel centrodestra, i 5 Stelle senza pace, il trucco tentato sul 2 per mille: punto per punto.
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Altro che apericena No, non è bastato alla presidente del Consiglio l’invito di domenica a casa sua, tutti a guardare la Coppa Davis e a cercare una quadra: la quadra non c’è perché Forza Italia e Lega continuano a scontrarsi su tutto, dalla banche alla Rai, dall’Europa alle regioni. La Rai, in particolare, è una questone esplosiva.
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La questione del canone La Lega si impunta sulla riduzione da 90 a 70 euro da mantenere nel 2025, i berlusconiani dicono no e assicurano di non farlo per difendere gli interessi di Mediaset (con meno soldi, la Rai dovrebbe cercare più pubblicità ai danni della concorrenza). Fatto sta che ieri Forza Italia ha minacciato di votare con l’opposizione in Commissione Bilancio contro l’emendamento leghista al decreto Fisco che prevede il canone tagliato. E il problema si riproporrà oggi.
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Ma è solo la Rai? No, quello di Forza Italia è un malessere di fondo: chiede che sia riconosciuto il fatto che ormai ha superato i voti della Lega, che però per ora pesa di più in Parlamento. Lamenta l’insistenza leghista sull’autonomia regionale, picconata dalla Corte Costituzionale ma tuttora trincea dei salviniani. In più, è chiamata dai fratelli di Berlusconi – insofferenti rispetto al dominio meloniano – a un maggiore protagonismo.
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E Meloni come si pone? È chiaro che le divisioni tra gli alleati fanno risaltare ancora di più il suo ruolo centrale. È chiaro anche che deve marcare Salvini, che le contende i voti di estrema destra. E qualche conticino con la famiglia Berlusconi ce l’ha anche lei, dalle maleparole («supponente, arrogante») riservatele dal defunto leader a inizio legislatura al caso Giambruno. Ma è improbabile che avalli lo sgambetto sulla Rai. E sull’autonomia la vede come Forza Italia, fingendo di appoggiarla. Come scrivono Marco Cremonesi e Paola Di Caro, per ora Meloni «guarda a distanza in attesa di decidere quale fra le due braccia dovrà piegarsi. Una sorta di divide et impera, visto che alla fine è sempre la premier a pronunciare l’ultima parola».
Intanto i 5 stelle
Giuseppe Conte e Beppe Grillo nel giugno 2023 (Ansa)
Intanto i 5 stelle non trovano l’uscita dalla faida Conte-Grillo. Punto per punto:
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La vendetta dell’Elevato Consiste in questo: Grillo non si rassegna al voto della «Costituente» che nello scorso weekend ha liquidato il suo ruolo di garante del Movimento. E, statuto vigente alla mano, ha chiesto di rivotare (si farà dal 5 all’8 dicembre). La sua linea è che i 5 Stelle sono arrivati al capolinea e devono chiudere, il Movimento nasce e muore con lui, Conte se vuole si faccia un altro partito.
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I timori del Sopraelevato Conte grida al sabotaggio e, come sottolinea Paolo Mieli nell’editoriale, qualche ragione ce l’ha: comunque la si pensi su di lui, «va dato atto che, come politico, si è conquistato i titoli per guidare la pattuglia che è rimasta al suo fianco». Ma ora rischia di doverle trovare un altro contenitore. Perché il nuovo voto – con l’appello dei grillini a re-iscriversi per aumentare la base dei votanti e poi astenersi – rischia seriamente di non raggiungere il quorum. Con ciò azzerando tutti i voti dei giorni scorsi, compreso l’addio al limite dei due mandati. Conte si ritroverebbe all’improvviso senza 5 Stelle, nonostante abbia la maggioranza dei 5 Stelle. Un finale surreale. Alla Grillo.
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E il Pd, in tutto ciò? Il Pd in tutto ciò non ha più certezze. Per un lustro ha cercato di «fidelizzare» Conte al centrosinistra, e ora che pare esserci riuscito Conte rischia di non contare. In più di un senso. Scrive Massimo Franco: «Sotto voce, cresce il dubbio su quello che rimarrà alla fine della guerra civile tra populisti. L’idea che un partito post-grillino possa rappresentare la seconda gamba dell’opposizione alla destra di Giorgia Meloni non è più così pacifica». E che i voti in libera uscita del post-grillismo restino a sinistra è tutto da vedere.
La furbata del 2 per mille
Ci hanno provato, tutti insieme. Racconta Claudio Bozza: «L’emendamento al decreto fisco per (quasi) raddoppiare i fondi alla politica era stato redatto in tandem da Pd e Avs e poi riformulato dal governo. Una mossa corale, insomma, con l’opposizione mandata avanti, in accordo con l’esecutivo che avrebbe coperto le spalle». Ma il Quirinale ha detto no: una «riforma» del genere non si può fare con un emendamento a un decreto legge che oltretutto riguarda tutt’altro, ma richiede un provvedimento ad hoc. Come dire: se volete farlo non fatelo alla chetichella, ma alla luce del sole, assumendovene la responsabilità.
Certo la mossa era ben congegnata: in teoria il 2 per mille dell’Irpef destinato ai partiti sarebbe sceso allo 0,2 per mille, ma sarebbe andata a loro anche la «quota inoptata», che attualmente resta allo Stato. Milioni in più per tutti. Fino al brusco stop che gli stessi promotori, in incognito, definiscono «una figuraccia».
I roghi al Corvetto lunedì notte (Ansa)
La rivolta del Corvetto
Per i non milanesi: il Corvetto è una quartiere della periferia sudest della metropoli, un quartiere dolente di troppe D, degrado droga disagio diffuso, delinquenza magari piccola per le statistiche ma non tanto piccola per chi ci vive. Notte tra lunedì e martedi: un bus semidistrutto, roghi di rifiuti, cassonetti rovesciati, segnaletica abbattuta. Scene da banlieue parigina frutto della rabbia di settanta ragazzi. Una rabbia esplosa dopo la morte di Ramy Elgaml, 19enne egiziano caduto domenica da uno scooter dopo un inseguimento dei carabinieri lungo otto chilometri. Guidava un amico tunisino, Fares B., 22 anni, arrestato. Avevano duemila euro, forse rubati. Fares è indagato per omicidio colposo come il carabiniere che guidava l’auto. La dinamica dell’incidente è tutta da chiarire, e non sarà semplice. Per i ragazzi del quartiere la moto è stata investita, «Ramy è stato ucciso». Salvini è scattato: «Niente clemenza per i delinquenti».
Il pezzo che Prima Ora raccomanda oggi è quello di Cesare Giuzzi. Racconta la maggioranza silenziosa del Corvetto:
«“Ma cosa vogliono, scappavano dai carabinieri e pensano di avere ragione?”. Non sono solo italiani quelli che invocano più polizia e interventi “risoluti” coi manganelli. Perché l’esasperazione non nasce domenica notte, ma è il risultato di una “stratificazione di problemi”: povertà, marginalità, disagio psichico, case occupate. Compresa la presenza di una piccola enclave “anarchica” tra piazzale Gabrio Rosa e via Mompiani, proprio dove viveva Ramy Elgami. E i centri sociali adesso sono gli osservati speciali, perché hanno le capacità di trasformare la protesta in guerriglia».
E racconta i «fratelli di Ramy»:
«Sono egiziani, marocchini, algerini, albanesi, montenegrini, kosovari, italiani di prima, seconda e terza generazione. Spesso minorenni. Hanno la divisa “maranza” (tute nere, scarpe Nike, sacoche a tracolla, passamontagna). La stessa dei trapper nei video su Youtube, che a loro volta hanno il look dei ragazzi delle banlieue parigine o spagnole. Parlano arabo, francese, italiano, qualcosa d’inglese, alcuni hanno l’accento slavo, altri del Sud America. Non c’è una leadership anche perché nella terra dei “reietti” sono tutti “uguali”. Tutti “bro”, fratelli».
«La rabbia per la morte di Ramy è un sentimento covato in una città in cui questi ragazzi si sentono estranei e per questo padroni del loro unico spazio. La scintilla che ora rischia di trasformare le periferie in banlieue non poteva che partire da qui, o dal quartiere gemello di San Siro, quasi dieci chilometri più in là, ma speculare per problemi, storie e architettura».
«Il problema è che spesso a parte l’opera solitaria di qualche educatore, qualche professore, qualche prete, non c’è nessuno che si preoccupi di loro. Forse la prima domanda che si devono fare le istituzioni, e soprattutto la politica, è quella di capire come intervenire subito parlando a questi ragazzi raccontandogli che sono parte della città e che non siamo in un videogioco. Se qualcuno ha sbagliato ci sarà la giustizia, se nessuno ha sbagliato allora resterà la tragedia e un ragazzo da piangere. Ma la città che distruggono è anche la loro. Nonostante si sentano, ogni giorno, stranieri a Milano».
Il no di Bpm a Unicredit
Il consiglio di amministrazione di Banco Bpm ha respinto l’offerta pubblica di scambio del valore di 10,1 miliardi proposta da Unicredit per l’accorpamento tra le due banche. Tra le motivazioni, le «preoccupazioni» per le ricadute a livello occupazionale e sociale e il prezzo ritenuto non giusto, perché non rifletterebbe il reale valore della banca.
Ma cosa c’è dietro? In sintesi, c’è il classico Risiko delle banche, che non possono fermarsi mai, cambiano crescono si fondono o vengono mangiate. E c’è la partita politica di un partito irrequieto che avverte il proprio declino e si agita in tutti i campi per arrestarlo.
Da una parte c’è Unicredit, un gigante che in questi anni ha accumulato una montagna di miliardi ed è guidato da uno specialista di acquisizioni, Andrea Orcel: si muove per creare valore per gli azionisti attraverso espansioni in Europa (la tedesca Commerzbank) e ora in Italia, dove non si rassegna al primato di Intesa.
Dall’altra c’è la Lega, che nonostaante i suoi disastrosi trascorsi bancari (Credieuronord, la «banca padana», fu un epico fallimento) ancora gioca a Risiko, anzi lo fa più che mai per presidiare il territorio che sente «suo» e che i meloniani le insidiano. Così, sogna un terzo polo italiano con Bpm e Monte dei Paschi, più imprenditori come Caltagiorone e famiglia Delvecchio. L’idea dei tre poli, in sé, non dispiace al Pd, che però chiede che se ne discuta in Parlamento: non dev’essere un polo a trazione leghista. Forza Italia e Fratelli d’Italia, da parte loro, non seguono Salvini (e Giorgetti) nemmeno in questa battaglia, dicono che «il mercato» va lasciato libero (qui l’analisi di Paola Pica e Nicola Saldutti).
Alla fine a decidere sarà la Banca centrale europea, ma conterà molto quello che dirà in quella sede la Banca d’Italia. Di certo, spiega Federico Fubini, «prima Unicredit deve chiedere l’autorizzazione all’operazione e presentare un progetto nei numeri e nei piani industriali, nelle prossime settimane. Solo dopo la Bce si esprimerà. Ma lo farà nel merito dell’impatto patrimoniale e dell’architettura che prenderebbe forma con la scalata. Non sulla base di rapporti personali, o tentativi di preordinare e indirizzare».
Sciopero di venerdì, Salvini precetta
Dopo il via libera della Commissione di garanzia alla riduzione, il ministro dei Trasporti ha chiesto di ridurre l’agitazione da 8 a 4 ore, Cgil e Uil hanno detto no e Salvini ha fatto scattare la precettazione, che i sindacati impugneranno. Uno schema ormai consueto. Qui il quadro di Claudia Voltattorni.
«Turetta non è Escobar»
Così il suo avvocato, Giovanni Caruso, si è opposto alla richiesta di ergastolo avanzata dall’accusa per l’assassino di Giulia Cecchettin: «Filippo Turetta sa che dovrà fare molti anni di galera, ma non è el Chapo, non è Pablo Escobar».
La Champions League
L’Inter batte 1-0 il Lipsia e ora è prima nel maxi-girone unico della nuova formula. Si mette bene anche per il Milan dopo la (faticosa) vittoria in trasferta – 3-2 – con lo Slovan Bratislava. Oggi Aston Villa-Juventus e Bologna-Lillla.
Il Caffè di Gramellini
Il monumentoAdoro gli anziani e generalmente li preferisco agli adulti, tranne quando si atteggiano a monumenti, come l’ex campione di tennis Nicola Pietrangeli. Monumento, nel caso in questione, è chi non si arrende all’incedere delle generazioni e si mette sempre al centro della Storia, irritato da ogni cambiamento che possa spodestarlo dal piedistallo. Un anno fa Pietrangeli parlava maluccio di Sinner: adesso, bontà sua, ammette che è diventato forte. Talmente forte che dovrebbe partire con un «quindici» di svantaggio in ogni game. Detto così, sembra un complimento. Ma, considerati i precedenti, non si sottrae al sospetto che Pietrangeli le stia studiando tutte, pur di trovare un modo di farlo perdere. Sull’eroico Berrettini di Malaga è ancor meno diplomatico: dice che ha giocato brutte partite. Un’opinione difficile da condividere, ma più che legittima e sicuramente autorevole. Dov’è il problema, allora? Il problema è che Pietrangeli si è appena lamentato di non essere stato chiamato sul podio ad alzare la Coppa Davis, pur essendo seduto a due passi.
Certo che ha delle belle pretese. Vorrebbe essere omaggiato dai bersagli della sua invidia o, se preferite, del suo eccesso di sincerità. Lui può criticarli e ridimensionarne le imprese sulla base dell’unico metro di paragone che riconosce valido: sé stesso. E loro, i Sinner e i Berrettini, dovrebbero fare un passo indietro e lasciargli il centro della scena in cambio di una benedizione della quale, inopinatamente, sentono di poter fare a meno.
Grazie per aver letto Prima Ora, e buon mercoledì.
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