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giovedì 28 novembre 2024
Lo strappo Lega-FI sulla Rai, Ursula passa col minimo, Mirafiori ferma fino a gennaio
URSULA VON DER LEYEN PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA - PRESENTAZIONE DA PARTE DEL PRESIDENTE ELETTO DELLA COMMISSIONE DEL COLLEGIO DEI COMMISSARI E DEL SUO PROGRAMMA - fotografo: IMAGOECONOMICA VIA MULTIMEDIA.EUROPARL.EUROPA.EU
editorialista di Luca Angelini

 

Buongiorno.
C’è la versione «in chiaro» della premier Giorgia Meloni («Se abbiamo trovato l’accordo sul cessate il fuoco in Libano possiamo farlo pure sul canone Rai») e quella un po’ criptata che Antonella Baccaro intercetta nei corridoi di palazzo Chigi: «L’inciampo in maggioranza sul canone Rai non giova a nessuno». Traduzione: alla presidente del Consiglio le «schermaglie», ossia la lite con doppio sgambetto fra Lega e Forza Italia (al no azzurro, in commissione Bilancio al Senato, al taglio del canone Rai da 90 a 70 euro per il 2025, il Carroccio ha replicato affondando con l’astensione un emendamento del forzista Claudio Lotito sulla sanità calabrese) sono andate di traverso.

 

 

Traduzione aggiuntiva di Monica Guerzoni: l’inciampo «non giova alla premier, descritta dai suoi come “inc… nera”, perché nessuno, in ore così infiammate, attinge a eufemismi per definirne l’umore. E non giova ai vicepremier Tajani e Salvini, cui la leader addossa in parti pari la responsabilità e il peso di questa fase, pericolosa a dir poco per la tenuta della coalizione. “La storia insegna che chi divide paga pegno — è il senso dei moniti di Meloni ai segretari dei partiti —. Se l’obiettivo è ridimensionarmi, temo che a perdere consenso sarete voi”. Nei colloqui (separati) con i leader di FI e Lega, la premier ha anche sottolineato quanto esplosivo sia questo passaggio per il governo, visto anche “il braccio di ferro col Quirinale che ci fa le pulci su tutto”».

 

 

All’«inciampo» è seguito il prevedibile copione. La maggioranza ha minimizzato. «Non c’è nessuno scontro», c’è solo «un dibattito giornalistico», assicura, indossando un’inedita felpa da pompiere, il vicepremier leghista Matteo Salvini. «Un emendamento, state facendo un affare di Stato per un emendamento», aggiunge il vicepremier forzista Antonio Tajani. Poi, però, il leader leghista aggiunge che anche «l’amico Berlusconi riteneva che il canone Rai fosse una tassa». Mentre i forzisti non possono replicare che il taglio di quella tassa costringerebbe la Rai a pescare di più nel mercato pubblicitario, cosa non proprio graditissima a Mediaset e preferiscono obiettare, come dice il deputato Raffaele Nevi a Paola Di Caro, che la misura «porterebbe nelle tasche di ciascun cittadino 50 centesimi al mese e imporrebbe allo Stato di finanziare poi la Rai con 450 milioni che possono essere utilizzati in tanti altri modi».

 

 

Le opposizioni, copione altrettanto prevedibile, ci vanno giù pesanti. «La maggioranza è in frantumi e le divisioni sono evidenti. Sono allo sbando, troppo impegnati a litigare tra loro, a competere anziché governare il Paese», attacca Elly Schlein, segretaria del Pd. Per il leader M5S, Giuseppe Conte, Meloni deve chiarire «se esiste ancora la maggioranza». Anche per Angelo Bonelli (Avs) la rottura sul canone «è un duro colpo per la maggioranza: sono ormai alla frutta». E se, per Salvini, il governo ha davanti tre anni «altrettanto produttivi», la renziana Maria Elena Boschi, vicepresidente della Vigilanza Rai, lancia la carica: «Le opposizioni unite possono infilarsi nelle crepe di questo governo imbarazzante».

 

 

Massimo Franco, nella sua Nota, fa tre osservazioni e una constatazione:

 

Prima osservazione: il governo non andrà in crisi solo perché FI ha votato sulla Rai con le opposizioni, in disaccordo con FdI e Lega che volevano tagliare il canone della tv di Stato. Seconda: in Europa FdI e FI hanno fatto eleggere la Commissione di Ursula von der Leyen. La Lega, invece, si è espressa contro con tutta l’estrema destra del gruppo filo Putin e filo Trump dei Patrioti europei. Terza considerazione: la maggioranza reggerà, ma appare divisa appena due giorni dopo l’aperitivo della riconciliazione a casa della premier Giorgia Meloni. 

La fotografia armoniosa che abbozzano gli esponenti della coalizione è dunque un tentativo di negare la realtà.

 

(Qui l’intervista di Cesare Zapperi al capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, che parla di «una ripicca che Forza Italia poteva risparmiarsi»)

 

I voti (bassi) per von der Leyen

 

La buona notizia, per Ursula von der Leyen, è che la Commissione europea che ha scelto per il suo bis ha passato l’esame della plenaria di Strasburgo e, dal primo dicembre, inizierà il suo mandato. Quella cattiva è che nessuna Commissione Ue era mai passata con margini così bassi: 370 a favore, 282 contro e 36 astenuti.

 

 

Non stupisce che Francesca Basso scriva di una von der Leyen «visibilmente contrariata», tanto più che «le maggiori defezioni sono arrivate dal campo “amico”, dove istanze nazionali si sono mescolate a errori di strategia».

 

 

Ci ha provato, UvdL (come la chiamano a Bruxelles), ad allargare il consenso con un discorso pre voto che sempre Basso descrive come «da manuale Cencelli», per accontentare, se non tutti, molti. Niente da fare. «Non ha scaldato i cuori, ha incassato pochi applausi e molta freddezza. Niente è servito avere annunciato una Bussola per la competitività basata sul rapporto di Mario Draghi, da costruire su tre pilastri: colmare il divario di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina; un piano congiunto per la decarbonizzazione e la competitività; aumentare la sicurezza e ridurre le dipendenze».

 

 

Il lungo braccio di ferro sui nomi di Raffaele Fitto e Teresa Ribera ha lasciato ferite che non si sono rimarginate: rispetto al voto di luglio sulla presidente, 31 sono stati i voti persi (soprattutto fra socialisti e verdi, ma anche fra i popolari, con il no di spagnoli e sloveni). In realtà 54 se si considera che, stavolta, i 24 deputati di Fratelli d’Italia si sono pronunciati a favore.

 

 

L’Italia, come si diceva, è andata in ordine sparso: Fratelli d’Italia e Forza Italia a favore, la Lega contro così come M5S, verdi e sinistra italiani. Sostegno, invece, del Pd (con il no dei due indipendenti Cecilia Strada e Marco Tarquinio, eletti con i dem). Per Massimo Franco, «la compattezza del no a von der Leyen dei Patrioti europei è pesante. E permette al presidente del Pd, Stefano Bonaccini, di girare a Palazzo Chigi la domanda provocatoria su chi sia “anti italiano” per non avere votato Raffaele Fitto. Era l’accusa rivolta al Pd, che ha appoggiato la Commissione con un paio di defezioni. Il no di Salvini è vistoso anche perché von der Leyen ha ricevuto consensi da una parte dei conservatori: quelli di Meloni».

 

 

Paolo Valentino, però, vede nella premier italiana – assieme al leader del Ppe, il tedesco Manfred Weber – la grande vincitrice del voto di Strasburgo. Con un’avvertenza: «Come dice l’adagio, “fai attenzione a quello che desideri, perché potresti ottenerlo”. Esser parte di una maggioranza europeista significa infatti anche assumersi responsabilità di fronte alle sfide che si addensano: per citarne alcune, il rapporto con la nuova amministrazione Usa, il ruolo dell’Europa nell’eventualità di un ritiro del sostegno americano a Kiev, la difesa europea, la transizione ecologica che va rivista ma non può essere dimenticata. Saprà Giorgia Meloni agire in modo conseguente? O sarà tentata da “fughe” trumpiane? E come gestirà i toni scompostamente antieuropei e filorussi di Matteo Salvini, il suo vicepremier?».

 

 

Quanto alla grande sconfitta della partita, rischia di essere l’Europa, costretta a muoversi con una maggioranza fluida, variabile e mai scontata proprio nel momento in cui le sfide globali, decisive per il suo stesso futuro, si fanno più minacciose.

 

Gli strascichi della rivolta al Corvetto

 

«Quello che è successo, richiama la nostra attenzione, ma non ci fa deviare. Capisco che alla destra piaccia fomentare queste situazioni ma sono qui oggi per continuare a dire che Milano resterà una città accogliente». Parole del sindaco Beppe Sala, dopo le rivolte in strada nel quartiere Corvetto per la morte di Ramy Elgaml, 19 anni, che ha perso la vita su  uno scooter guidato da un amico, durante un inseguimento dei carabinieri (la dinamica dell’incidente è ancora da chiarire).

 

 

«Le migrazioni – dice ancora Sala – ci sono sempre state e sempre ci saranno. Ma le regole vanno rispettate. Nessuno di noi ha cercato di dare responsabilità agli altri. Stiamo dalla stessa parte. Se sono stati fatti degli errori ci saranno delle conseguenze». Ammette che Corvetto è un quartiere difficile, che esiste la «preoccupazione» che si ripetano i roghi e le barricate e per questo apprezza le parole del padre di Ramy Elgaml che si è dissociato dai disordini.

 

 

Il vicepremier Matteo Salvini, però, sveste la felpa da pompiere e invoca il pugno di ferro: «Penso che anche il Parlamento dovrà prestare maggiore attenzione sulle seconde generazioni e le baby gang, figli di cittadini stranieri, ragazzi nati in Italia che però non si sentono parte di questo Paese.  (…) Per questo motivo non possiamo permetterci di perdere nemmeno un poliziotto o un carabiniere. Serve anche che la giustizia faccia il suo corso, perché 70 teppisti che lanciano sassate contro i carabinieri non possono essere considerati semplicemente giovani esuberanti: è un crimine. È fondamentale che, quando le forze dell’ordine li arrestano, la giustizia non li faccia uscire tre ore dopo».

 

 

Stamattina arriverà a Milano il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, per un vertice in Prefettura. (Qui la risposta di Aldo Cazzullo ai lettori: «Punire e integrare non sono in contrasto». Della vicenda abbiamo parlato anche nella nostra Rassegna)

 

La tregua in Libano

 

Da Gerusalemme, il corrispondente Davide Frattini racconta così le prime ore dopo il cessate il fuoco in Libano: «Le truppe israeliane restano sopra la Linea Blu disegnata dalle Nazioni Unite, i libanesi scendono verso i villaggi nel Sud da cui sono fuggiti. I portavoce dell’esercito spiegano che l’accordo per il cessate il fuoco garantisce alle truppe 60 giorni per ritirarsi e i generali hanno intenzione di consumarli tutti. Perché il premier Benjamin Netanyahu ancora non ha dato il via libera agli israeliani sfollati da quattordici mesi per tornare nei villaggi e nelle cittadine dell’Alta Galilea, lo scontro potrebbe sempre ricominciare. Così la festa e le bandiere vengono sventolate dall’altra parte, anche se il primo ministro israeliano proclama vittoria. Quanto i leader di Hezbollah — quelli rimasti in vita — che propagandano: “La nostra resistenza a fianco dei palestinesi non si fermerà”».

 

Amos Hochstein, inviato della Casa Bianca per il Medio Oriente e principale mediatore del cessate il fuoco annunciato martedì sera, ribadisce: «L’esercito israeliano adesso combatte su un solo fronte, Hamas deve prendere l’iniziativa e sedersi al tavolo delle trattative».

 

I palestinesi uccisi nella Striscia sono ormai 45 mila, i carcerieri di Hamas tengono ancora 97 ostaggi israeliani (ma oltre la metà sarebbero morti). È Hamas che a questo punto — 418 giorni dall’inizio dell’offensiva a Gaza ordinata da Netanyahu in risposta alla mattanza del 7 ottobre, 1.200 israeliani uccisi — vorrebbe raggiungere una tregua o almeno così dichiara un capo dell’organizzazione fondamentalista all’agenzia France Presse. Joe Biden ci spera e «ha già chiesto ai suoi emissari di mettersi in contatto con Turchia, Qatar ed Egitto per rilanciare i negoziati», spiega Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente americano, all’emittente Msnbc. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno appena stanziato altri 680 milioni di dollari in aiuti militari a Israele.

 

Vali Nasr, politologo della Johns Hopkins University, ospite del Med organizzato dall’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e dalla Farnesina, dice a Marta Serafini: «Se distruggi un nemico, devi avere un’idea di ordine pacifico. Gli israeliani invece non si lanciano in questo genere di proposte. Non dicono ok, abbiamo distrutto Hezbollah, ora creeremo lo spazio per far emergere un Libano veramente democratico. Ma se non cambiano strategia, ci saranno sempre degli sciiti arrabbiati. E per quanto siano arrabbiati con Hezbollah, a un certo punto la loro rabbia si volgerà contro Israele. E così si torna al punto di partenza» (inutile aggiungere che vale, a maggior ragione, per Gaza).

 

Nasr è anche convinto che, da presidente eletto, Donald Trump stia già mandando segnali a Netanyahu: «Gli sta dicendo “siamo d’accordo con te ma non vogliamo una guerra infinita in Medio Oriente”». Quanto al rapporto fra la nuova amministrazione Usa e Teheran, Nasr – che in Iran è nato – ha una convinzione: Trump «sicuramente non mollerà la presa. Ma penso che, anche nel primo mandato, fosse aperto a un accordo. A differenza dei politici americani tradizionali, non si fa troppi problemi a trattare con dittatori o gruppi estremisti. Dobbiamo aspettarci molta pressione sull’Iran, molta durezza. Ma allo stesso tempo, questa strategia potrebbe tradursi molto rapidamente in un processo diplomatico, tanto più che l’Iran è interessato a una sorta di negoziazione. Ora, se poi la trattativa avrà successo o meno questa è un’altra questione».

 

 

Quanto alla guerra in Ucraina, Trump ha deciso di affidarsi al fedelissimo generale in pensione Keith Kellogg per una svolta nel conflitto fra Kiev e Mosca: lo ha nominato inviato speciale per l’Ucraina e la Russia. Ex consigliere alla sicurezza di Mike Pence, Kellogg è membro dell’America First Policy Institute. Per lui, futuri aiuti a Kiev vanno condizionati alla partecipazione ai colloqui di pace con Mosca. Su questo si basa il piano di pace che Kellogg avrebbe presentato nei mesi scorsi a Trump. Prevede il congelamento delle linee di battaglia nelle posizioni prevalenti, colloqui di pace obbligatori, e no all’adesione alla Nato. Un piano che Kiev difficilmente digerirebbe. (Qui l’intervista di Lorenzo Cremonesi con Sasha, ingegnere ucraino diventato cecchino)

 

Stellantis «congela» Mirafiori

 

Ancora qualche giorno e poi il reparto carrozzerie dello stabilimento Stellantis di Mirafiori a Torino resterà chiuso fino alla Befana. Ieri lo ha comunicato l’azienda ai sindacati. La sospensione della produzione va dal 2 al 17 dicembre (circa 2 mila i lavoratori che andranno in cassa integrazione), cui seguirà la chiusura di tutto l’impianto per le festività natalizie dal 18 dicembre al 5 gennaio.

 

 

La chiusura anticipata delle carrozzerie, dice Stellantis, è dovuta alla «persistente situazione di incertezza nelle vendite di vetture elettriche in svariati mercati europei che rappresentano il 97% della produzione di Mirafiori e di vetture del settore del lusso in alcuni Paesi extraeuropei come Cina e Stati Uniti». In un contesto «caratterizzato da una domanda in calo», con il segmento delle city car elettriche che «in Europa nei primi 10 mesi dell’anno si è ridotto del 54% rispetto allo stesso periodo del 2023», prosegue l’azienda, Stellantis si impegna «a garantire la continuità di tutti i suoi impianti», sottolineando che Mirafiori è interessata a «una profonda trasformazione, verso un vero e proprio polo di innovazione».

 

 

Ma le assicurazioni di Stellantis non soddisfano minimamente il sindacato e suscitano le critiche di molte forze politiche e anche del governo. «Un’abitudine che Stellantis non ha perso nei decenni è quella di chiudere in Italia e delocalizzare. Il problema è che questi hanno preso miliardi di euro di denaro pubblico, condividendo con il pubblico solo i problemi, le perdite e la cassa integrazione», attacca il vicepremier Matteo Salvini. Per la Fiom-Cgil «mentre il governo taglia le risorse al fondo automotive, Stellantis continua a mandare i lavoratori in cassa integrazione. La premier Meloni deve convocare le parti perché il settore rischia di sparire».

 

L’allarme-tagli di Castagna (Bpm)

 

Due giorni dopo l’offerta pubblica di scambio titoli avanzata da Unicredit sulla sua banca — 10 miliardi carta contro carta — e un giorno dopo il cda che l’ha respinta, l’amministratore delegato di Banco Bpm, Giuseppe Castagna, ha scritto una lettera ai dipendenti dell’istituto: «Destano forte preoccupazione le sinergie di costo stimate dall’offerente, pari a oltre un terzo della base costi di Banco Bpm che, si può stimare, significherebbe tagli al personale di oltre 6.000 colleghe e colleghi. Senza contare che tale offerta, in conseguenza della normativa sulle opa, rischia di limitare l’autonomia strategica del management anche con riferimento alle condizioni dell’operazione su Anima Holding», su cui il Banco, primo azionista con il 22%, ha lanciato un’offerta di pubblico acquisto da 1,6 miliardi il 6 novembre sul resto delle quote, tramite la controllata Bpm Vita.

 

 

Il calcolo dei licenziamenti computa in 600 milioni il costo del personale sui 900 milioni di sinergie preventivate da Unicredit, che, rapportati a un reddito lordo di 90-100 mila euro, restituisce gli esuberi stimati da Castagna. Quest’ultimo ha anche ribadito che come l’offerta di Unicredit «non riflette in alcun modo la redditività e l’ulteriore potenziale di creazione di valore per gli azionisti Banco Bpm».

 

 

Il mercato ipotizza, a questo punto, una strategia di difesa. «Tra gli scenari possibili – scrivono Daniela Polizzi e Andrea Rinaldi – accelerare gli acquisti su Mps per offrire agli investitori un progetto più appetibile dell’ops di Andrea Orcel e quindi bloccarla o costringerla al rilancio, migliorando il prezzo per i propri azionisti».

 

Le altre notizie

 

  • L’intelligence occidentale è convinta che la nave cinese Yi Peng 3 abbia tranciato in modo deliberato i due cavi sottomarini di comunicazione alla metà del mese nel Mar Baltico. Un sospetto basato sull’analisi delle manovre del cargo. A rilanciare questa tesi fonti citate dal Wall Street Journal. Gli investigatori, spiega Guido Olimpio, hanno ricostruito la rotta dell’unità partita il 15 novembre dal porto russo di Ust-Luga con un carico di fertilizzante.
  • Il decreto flussi passa alla discussione in Senato (dal 3 dicembre) con, alla Camera, 152 voti a favore e 108 contro. Si tratta di un contenitore di misure riguardanti l’immigrazione, fortemente volute dal governo (Lega e FdI in primo luogo) e che va dal ribattezzato «emendamento Musk» — il contestato spostamento delle competenze giuridiche sui trasferimenti di migranti dalla sezione specializzata dei tribunali alle singole Corti d’appello — alle politiche di ricongiungimento, passando per la possibilità di acquisire il contenuto degli smartphone di chi, approdato in Italia, finisce in un Cpr.
  • Nessuna mozione unitaria sulla violenza di genere, nonostante gli sforzi di parti della maggioranza e dell’opposizione. La Camera ha dovuto votare tre documenti diversi, approvando solo quello del centrodestra, dopo il dibattito e lo scontro sul concetto di patriarcato: posizioni inconciliabili tra i diversi partiti. La ministra Eugenia Roccella ha espresso «grande dispiacere». «Una sconfitta» secondo Martina Semenzato di Noi moderati. «Gli stereotipi esistono, bisognava considerarli nella mozione» è il commento di Valentina Ghio, del Pd.
  • Shalom Nagar, l’uomo che nel 1962 eseguì la condanna a morte di Adolf Eichmann, è morto in Israele all’età di 86 anni. Giovane guardia carceraria, Nagar ebbe la vita sconvolta quando fu estratto a sorte come boia e dovette premere il pulsante per impiccare l’ideatore della «soluzione finale» di milioni d’ebrei. Eichmann era stato catturato dal Mossad in Argentina, dove viveva sotto falso nome. Il processo fu raccontato da Hannah Arendt in La banalità del male. La condanna a morte di Eichmann fu eseguita nel carcere di Ramla e le sue ceneri furono disperse in mare. Fu l’unica volta in cui una corte israeliana inflisse la pena capitale. (Qui il racconto di Francesco Battistini)
  • EasyJet aprirà dalla fine di marzo 2025 due nuove basi in Italia a Milano Linate e Roma Fiumicino — che si aggiungeranno a Napoli e Malpensa — e posizionerà 8 aerei come conseguenza delle nozze Ita-Lufthansa. Dopo le anticipazioni del Corriere il gruppo inglese lo conferma in una nota agli investitori presentando il bilancio 2024 (che si è chiuso con un utile netto di 452 milioni di sterline).
  • Lo spread tra i titoli di Stato decennali francesi e gli analoghi Bund tedeschi, in salita da 8 giorni consecutivi, ieri si è allargato fino a 90 punti, segnando il livello più alto dalla crisi del debito sovrano nel 2012, con un rendimento ormai pari a quello dei titoli di pari durata della Grecia. Anche la Borsa di Parigi è in subbuglio e il Cac 40, l’indice dei 40 titoli principali del listino d’Oltralpe, con un nuovo calo dello 0,73%, è scivolato al minimo da un anno. Le  tensioni politiche e la paura che, dopo nemmeno due mesi, cada il governo guidato da Michel Barnier, portandosi dietro la legge di Bilancio, spaventa gli investitori.
  • Sempre in Francia, la sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, che ha diviso la capitale con le sue misure ambientaliste, ha annunciato che, nel 2026, non si ricandiderà per un terzo mandato.
  • L’antitrust americana ha aperto un’ampia indagine su Microsoft. Lo riporta l’agenzia Bloomberg citando alcune fonti vicine al dossier, secondo le quali dopo un anno di ricerche la Federal Communication Commission ha messo a punto una dettagliata richiesta di informazioni a Microsoft. Il faro sarebbe stato acceso su temi che riguardano le licenze dei software, la cybersecurity e l’Intelligenza artificiale (AI).
  • Recordati e Angelini sono in manovra per creare un polo italiano nella farmaceutica e nella salute con oltre 4 miliardi di fatturato. Secondo indiscrezioni, lo schema dell’operazione contempla l’unione delle due aziende — la prima quotata, la seconda a controllo familiare — con il sostegno di una cordata di investitori finanziari.
  • Annullare le assoluzioni dei dirigenti della Regione Abruzzo e un nuovo processo di Appello per l’ex prefetto di Pescara. Queste le richieste del sostituto procuratore generale di Cassazione sulla tragedia di Rigopiano del 18 gennaio 2017, dove morirono 29 persone. L’ex prefetto Francesco Provolo era stato condannato a 1 anno e 8 mesi per rifiuto di atti d’ufficio e falso. Ora si chiede di valutare anche le accuse di concorso in omicidio colposo, in lesioni colpose e in depistaggio per le quali era stato assolto.
  • La polizia, coordinata dalla Procura di Catania, ha eseguito l’operazione «Takendown», la più vasta contro la pirateria audiovisiva condotta in Italia e in Europa – con il coordinamento di Eurojust ed Europol – smantellando la più diffusa organizzazione criminale transnazionale che serviva illegalmente oltre 22 milioni di utenti. Le accuse sono di violazione del diritto d’autore, accesso abusivo a sistemi informatici, detenzione di codici di accesso e frode informatica. Sono stati sequestrati oltre 2.500 canali illegali e server che gestivano la maggior parte dei segnali illeciti in Europa, con i quali si realizzava un giro illegale di affari di oltre 250 milioni di euro mensili e circa 3 miliardi di euro all’anno e provoca oltre 10 miliardi di euro di danno economico alle aziende che gestiscono le Pay Tv.
  • In Champions League, la Juve non è andato oltre lo 0 a 0 in casa dell’Aston Villa, mentre il Bologna è stato sconfitto in casa dal Lille per 2 a 1.

 

Da leggere (e ascoltare)

 

Il dialogo fra Daniele De Rossi e Walter Veltroni allo Sport Industry Talk di Roma.

 

 

L’intervista di Daniele Dallera a Urbano Cairo (editore del Corriere) che dice: «Costi più alti dei ricavi, il calcio va aiutato». Quanto alla presidenza del Torino, «non è nelle mie intenzioni tenerlo in eterno, spero di lasciarlo a un imprenditore più bravo e ricco di me».

 

 

La testimonianza di un capotreno di Trenitalia raccolta da Giusi Fasano: «Ho subito due aggressioni, insulti e sputi sono la norma».

 

 

L’intervista di Candida Morvillo a Edoardo Albinati, Premio Strega nel 2016 con La scuola cattolica. «Io, figlio di papà, scrivo per raccontare vite difficili. La letteratura dovrebbe andare verso zone oscure che la tua vita non prevede e nemmeno immaginaHo imparato a restare calmo insegnando italiano ai detenuti».

 

 

Il corsivo di Federico Fubini «Sanzioni alla Russia inutili? Ora il rublo sprofonda»: «L’economia sta chiaramente rallentando e qualcosa, da qualche parte, scricchiola nel regno di Putin. L’annuncio sulla totale inutilità delle sanzioni era forse leggermente prematuro».

 

 

Il commento di Danilo Taino «Ci manca davvero Angela Merkel?» sull’autobiografia dell’ex cancelliera tedesca: «Poteva essere il libro che illumina su come si è arrivati, da inizio secolo e tra molti sbagli, alla crisi europea di oggi; è invece l’autogiustificazione di chi difende la propria reputazione ma non ci dice nulla. Potrebbe mancarci?».

 

 

Il podcast Giorno per giorno, nel quale si parla di tregua in Libano, nuova Commissione Ue e caccia ai pirati dello streaming con Davide Frattini, Francesca Basso e Rinaldo Frignani.

 

Il Caffè di Gramellini
Il graffio

Dopo che in campo la sua squadra di ex imbattibili era riuscita a farsi rimontare tre gol, Pep Guardiola si è presentato in conferenza-stampa con dei graffi sulla testa, neanche avesse incrociato la dottoressa Boccia negli spogliatoi. Ha spiegato di esserseli procurati da solo, per il dispetto. «Volevo farmi del male» ha detto con un sorriso, e lì ho cominciato a contare: quanto tempo passerà prima che sia costretto a chiedere scusa? Un paio d’ore, poi ha dovuto precisare l’ovvio e cioè che non intendeva scherzare sul tema serissimo dell’autolesionismo.

Resta il fatto che quei graffi se li è fatti davvero. Un gesto che lascia sgomenti perché siamo abituati ad abbinare la grandezza alla calma e Guardiola è un grande, un grandissimo, uno dei due allenatori più vincenti su piazza. Eppure, quando l’altro, Carlo Ancelotti, subì una rimonta di tre gol — e in una finale di Champions, mica in un turno preliminare qualsiasi — si limitò a sollevare un paio di volte le sopracciglia. Questione di indole, certo, ma anche di atteggiamento nei confronti della vita. Ancelotti sa bene che trionfi e successi sono fenomeni ingannevoli e si rifiuta di far dipendere il suo umore da un verdetto transitorio. Guardiola invece ha reagito come un adolescente: per lui il momentaccio del suo Manchester City non è una parentesi buia tra due arcobaleni, ma una catastrofe senza un domani. Per fortuna «domani arriverà lo stesso» e non lo dico io, lo canta il mio filosofo di riferimento: Vasco Rossi.

Grazie per aver letto Prima Ora e buon giovedì 

 

(Questa newsletter è stata chiusa all’1.45)