Civetteria

ci-vet-te-rì-a

Significato Comportamento accattivante di chi ama attirare su di sé l’attenzione benevola altrui; mania vanesia, piccolo vezzo

Etimologia da civetta, uccello rapace notturno degli Strigiformi, a sua volta onomatopea tipicamente romanza, derivata dal verso ciù ciù.

  • «Le abbiamo salutate con gran civetteria.»

Qui abbiamo una parola che alla nostra sensibilità contemporanea può sembrare doppiamente , come il becco di una civetta. Togliendoci però i paraocchi, scopriamo in che modo possa rivelarsi una risorsa preziosa, un bel filo  da intessere nel discorso per parlare dei piccoli vizi e vezzi della nostra umana condizione.

Civetteria è il comportamento civettuolo appunto, di chi ama essere lodato e ottenere l’apprezzamento altrui. Ma è anche una mania , un vezzo nel vestire, un’abitudine dettata dalla vanità. Il problema è che, storicamente e soprattutto erroneamente, la civetteria è addebitata in maniera pressoché esclusiva alle donne. Sfogliando il vocabolario, infatti, alla voce civetta, da cui essa deriva, oltre al significato di uccello rapace notturno, di  da  e di articolo di giornale abbiamo anche quello di ‘donna frivola che attira su di sé l’attenzione maschile’.

E certo, perché la , quella, è un altro peccato tutto tinto di rosa, come se gli uomini fossero solo campioni di sobrietà e asciuttezza! Invece, spezzando una lancia a favore della civetteria femminile, va tenuto conto che, nella millenaria storia dei sessi, alle donne ottenere il favore benevolo degli uomini non solo è convenuto, ma — più spesso di quanto si possa sopportare — è risultato addirittura questione di sopravvivenza.

Per fortuna che i dizionari si ravvedono e, nel passaggio da civetta a civetteria, si ricordano di riportare che è il comportamento di chi vuole attirare l’attenzione altrui su di sé o un vezzo vanitoso. Neutro e corretto, può adattarsi a tutte le forme e a tutte le taglie, senza distinzione di genere. Addirittura, scendendo di un lemma in più, troviamo il civettone, l’accrescitivo, che è la persona , amante delle civetterie. Sia mai che diciamo chiaro e tondo che stiamo parlando di un uomo tutto frizzi e lazzi!

Ebbene, la civetteria, è a tutto tondo e senza distinzioni tra signore e signori; perché sì, l’anziana zia si appunta una spilla sul revers del cappotto con civetteria quando esce con le amiche a bere la cioccolata calda al caffè in piazza, ma anche il vedovo  che vorrebbe chiederle di accompagnarlo al cinema domenica pomeriggio si è messo il papillon bordeaux con altrettanta civetteria! E quel civettone del nostro amico che veste con gusto dandy, non pecca di civetteria nell’abbinare il calzino al fazzoletto da pochette? Forse tanto quanto la professoressa che ha appaiato lo  per le unghie al foulard di seta.

Ora chiariamo un ultimo punto: perché siamo andati ad arruffare le penne della civetta, che ha già tanto da fare a trasportare le lettere da Hogwarts? Perché proprio a lei addossiamo la responsabilità di tanta vanità, quando nell’antica Grecia era invece simbolo di saggezza ed era sacra nientemeno che ad Atena? Be’, nell’arte venatoria le civette venivano ammaestrate per essere usate come richiamo per altri uccelli, per attirare la loro attenzione. Tutto qui. Se poi ci chiediamo come cavolo siamo arrivati alla parola civetta, quando in latino l’animaletto veniva chiamato strix (da cui strega), lo dobbiamo al potere delle onomatopee: il verso ciù ciù ha dato vita ad esiti simili in altre lingue romanze, come il francese chouette, che oltre a voler dire civetta, significa anche carino, grazioso. Chouette, no?

Cacologia

ca-co-lo-gì-a

Significato In retorica, espressione difettosa dal punto di vista dell’abituale logica del discorso, anche se non costituisce una scorrettezza grammaticale

Etimologia voce dotta recuperata dal greco kakología ‘maldicenza, calunnia’, composto di kakós ‘cattivo’ e -logia ‘discorso’.

  • «È un discorso pieno di cacologie, ma spiritoso.»

Anche la cacologia ha una vena cacologica. Ma per avvicinarci alla complessità di questa splendida parola e inquadrarne con più facilità le sfumature, partiamo da una sua collega più nota che per molti versi si comporta alla stessa maniera: la .

Noi diciamo che è cacofonico qualcosa che suona male. Non è un giudizio sulla correttezza di una parola o di una frase. È una  che percepiamo, che ha una dose di soggettività; al massimo quel ‘non suona bene’ ci fa adombrare un giudizio su uno stile carente. La cacofonia è un regno di ripetizioni di sillabe, abusi di , ma ci mettiamo volentieri dentro abusivamente anche parole che non ci piacciono e che perciò ci stanno male nell’orecchio. Ma ecco, la cacofonia sceglie di collocarsi con tutta evidenza nella precisa dimensione del suono, con quel che vi si aggancia; la cacologia invece sceglie una via diversa e più versatile — anzi, come vedremo, spesso ciò che in maniera spiccia diciamo cacofonico sarebbe più propriamente cacologico.

La cacologia è l’espressione che troviamo difettosa. ‘Difettoso’ non va inteso come sbagliato tout-court, non siamo davanti a scorrettezze grammaticali vere e proprie — siamo davanti ad abituali logiche del discorso che qui vengono tradite. In pratica, espressioni  e appartenenti a gerghi settoriali o parlate locali, modi di dire frusti e artifici retorici fuori fuoco, in certe situazioni possono configurare cacologie.

Se in un contesto formale, al Nord o al Sud, parlo senza ironia di qualcuno dicendo che è un piaccicone (invece di dire ‘posapiano’ o simili), ecco una cacologia. L’abituale logica del discorso non viene rispettata, perché vorrebbe che io cooperassi alla sua comprensibilità — ad esempio usando parole condivise con chi ci ascolta (da fiorentino non mi periterei a usare ‘ganzo’ o ‘garbare’, che per quanto riconoscibilmente fiorentine sono parole comprensibili).
Se parlando a gente  la giurista consiglia di ripetere il pagamento della somma, ecco un’altra cacologia che pone un serio problema: in un ambito non tecnico, ‘ripetere’ significa ‘eseguire di nuovo’, e non ‘chiedere indietro’ come invece intende la giurista nel suo gergo.
Se nella disfida culinaria partecipo con le mie famose lasagne e dichiaro che le lasagne saranno la corona della mia vittoria, ecco un’altra cacologia. La  non funziona granché: le lasagne filano di provola, ma non filano come corona; da un lato è una metafora , dall’altro è ridicola — quindi a meno che non sia un effetto voluto, ho contrastato le logiche poetiche che ci portano a saltare fra le metafore.
E se scrivendo in un saggio o parlando fra amici parlo di come come sia temuta la morsa del gelo, ecco ancora una cacologia. Questo genere di espressioni è tipico della lingua del giornalismo scadente, che è orribile e  in ogni caso, ma che è ancora peggiore quando travalica il suo ambito ed entra nella lingua comune.

E anche quando una parola non ci torna e non ci piace (dall’architetta al cringissimo) pur se di solito l’accusiamo di ‘cacofonia’, in effetti stiamo denunciando una cacologia, un difetto logico o stilistico — che  può avere una matrice del tutto soggettiva, determinata dalla non familiarità dell’espressione (siamo tanta gente a usare con gioia e convinzione ‘architetta’ e ‘cringissimo’). Ma può essere determinata anche dalla sovraesposizione a quell’espressione: mi sono spesso imbattuto nel  di persone più grandi di me verso modi di dire come ‘portare avanti’ o ‘nella misura in cui’, che per me sono del tutto neutri e che a loro invece erano sgraditi per il modo in cui avevano furoreggiato in stagioni passate.

Insomma, è un concetto che da un lato ha una consistenza chiara e una presa utile, dall’altro richiede una  di indulgenza. E ce lo possiamo ricordare bene anche perché… la cacologia stessa è un cattivo adattamento di significato del greco kakología. In origine questo ‘discorso cattivo’ è una maldicenza, una calunnia. Ma nell’ del recupero rinascimentale, si fa ‘cattivo discorso’, e quindi detto male, con pecche logiche e stilistiche. Un autentico recupero cacologico.