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Il giorno dopo l’uscita di Carlos Tavares, prevedibile, è arrivato il giudizio dei mercati e della politica. Il primo, quello della Borsa, è stato impietoso: ieri a Piazza Affari il titolo Stellantis ha chiuso a -6,30%, crollando a 11,7 euro, affondando la capitalizzazione a 35,5 miliardi (la perdita in Borsa da inizio anno è del 44%). Il secondo giudizio è un pressing bipartisan per un confronto in Parlamento con John Elkann, presidente di Stellantis e ora anche capo-azienda. Da domenica, Elkann si sta dando da fare per riannodare i rapporti con l’esecutivo Meloni: dopo la telefonata alla premier, ieri è toccato al ministro delle Imprese Adolfo Urso. Una conversazione — riferiscono fonti di governo — che avrebbe sancito il cambio di passo del gruppo automobilistico e il superamento delle vecchie posizioni sull’auto elettrica che avevano opposto Tavares a Roma e a Bruxelles. Urso infatti ha presentato un documento per chiedere una revisione del divieto per i motori a combustione fissato al 2035 (Tavares ha invece più volte sostenuto che la data ormai andava mantenuta, visti gli investimenti fatti).
Elkann — che ha richiamato l’ex direttore finanziario Dick Palmer come special advisor — avrebbe dato mandato a Jean-Philippe Imparato, responsabile Europa di Stellantis, di presenziare al tavolo automotive il 17 dicembre al ministero per il Made in Italy (Mimit) e di chiudere in modo positivo il famoso «Piano Italia», quello che aveva promesso un milione di veicoli al 2030. «Urso – scrive Andrea Rinaldi – vorrebbe che il nostro Paese tornasse centrale nelle strategie industriali del gruppo automobilistico e avrebbe incontrato una sostanziale apertura da parte di Elkann. Ma, perché ciò avvenga, il ministro avrebbe chiesto tre impegni tassativi: rivedere i progetti legati ai contratti di sviluppo dell’azienda, ora in standby, affinché non prevedano una riduzione occupazionale (a differenza di adesso); realizzare la gigafactory di Termoli, la cui costruzione è slittata; e destinare all’Italia la nuova piattaforma per la produzione di citycar, a beneficio della componentistica». In sospeso resta anche il rifinanziamento a fine anno degli ammortizzatori sociali, una cifra non da poco visto che dovrebbe riguardare circa la metà degli oltre 40 mila dipendenti italiani.
Francesco Bertolino spiega così come, dopo un buon 2023 per il gruppo, si sia arrivati alla rottura: «In Europa il mercato dell’auto crolla e negli Stati Uniti, vero motore degli utili della casa, i prezzi troppo elevati allontanano la clientela e le auto si accumulano nei piazzali dei concessionari. Stellantis è così costretta ad abbattere le previsioni di profitto per il 2024, mettendo a rischio anche i dividendi. Dopo i bilanci, si incrina anche il rapporto con Elkann e la famiglia Agnelli. Il cda dà perciò avvio alla ricerca di un sostituto per Tavares nel 2026. L’insistenza del manager sull’elettrico, incurante delle vendite stagnanti, e lo scontro sempre più duro con il governo italiano fanno però precipitare gli eventi sino alle dimissioni con effetto immediato di domenica».
In questo quadro (al quale si può aggiungere che il mese scorso, rispetto a novembre 2023, le immatricolazioni di Stellantis in Italia sono scese del 24,6%, contro una media del -10,8%, dati Dataforce) fa comprensibilmente rumore la voce secondo cui la «buonuscita» di Tavares si aggirerebbe sui 100 milioni di euro. Quanto al successore (qui il totonomi), secondo l’azienda arriverà entro la metà del prossimo anno. Tempi lunghi. Troppo, sia per il mercato che per la politica. Per il vicepremier Matteo Salvini, «qualunque impresa al mondo dovrebbe rendere conto del denaro pubblico che ha incassato e che ha evidentemente sperperato. È veramente uno spettacolo imbarazzante. Da italiano sono offeso dalla gestione degli Elkann e dalle cifre che si stanno leggendo a proposito della fuga dell’ex amministratore delegato».
Carlo Calenda, leader di Azione ma anche ex manager di Ferrari, e da mesi fra i più duri nel criticare Stellantis, dice a Christian Benna che l’addio di Tavares «è un grande sollievo. Ha combinato solo disastri per l’Italia e per il gruppo Stellantis nel suo complesso. (…) Ha puntato su macchine costose e solo sull’elettrico chiedendo incentivi a tutto spiano. Marchionne riportò produzioni in Italia senza chiedere un euro. Lui invece per abbassare i costi ha portato i marchi italiani nelle fabbriche low cost: Alfa Romeo in Polonia, Fiat Panda in Serbia, Topolino in Marocco, chiedendo ai nostri fornitori di spostare la componentistica all’estero. Nell’audizione in Parlamento mi hanno colpito la sua vaghezza e l’impreparazione: i prezzi si fanno dopo che hanno prodotto le auto, ci diceva. Una roba mai sentita. Ora si volti pagina, riprendiamo il dialogo con la proprietà».
Calenda ne ha un po’ per tutti: «La destra ha solo urlato sul tema auto senza concludere nulla. Il ministro Urso dovrebbe fare un passo indietro, oltre a fare danni, ha svuotato i finanziamenti per l’indotto auto (riferimento al taglio di 4,6 miliardi al fondo automotive, ndr). La sinistra si è totalmente disinteressata. Fino a tre mesi fa anche il leader della Cgil Landini taceva, forse voleva tenere buoni rapporti con Gedi, la società degli Elkann che possiede Repubblica e La Stampa».
La premier, Giorgia Meloni, intervistata a Quarta Repubblica su Rete 4 promette: «Faremo del nostro meglio per difendere l’occupazione e l’indotto. Abbiamo un tavolo con Stellantis convocato a metà dicembre, speriamo possa essere quello risolutivo». Il presidente della commissione Attività produttive della Camera, Alberto Gusmeroli (Lega), ha inviato una richiesta di audizione al presidente di Stellantis dopo che si erano attivati Fdi, Pd, M5S, Avs e Azione.
A poco vale tentare di consolarsi con il «mal comune» (ieri è iniziato lo sciopero dei lavoratori Volkswagen in Germania e le immatricolazioni di Tesla in Italia, a novembre, sono scese del 70,2% rispetto all’anno prima). Perché, come spiega Daniele Manca nel suo editoriale, quella di Stellantis è «una crisi nella crisi», ossia una crisi italiana dentro una crisi europea. Su quest’ultima, «c’è da chiedersi se non siano le conseguenze di una sottovalutazione di quel piccolo quanto penetrante segnale d’allarme che fu lo scandalo del Diesel gate nel 2015. Quasi incuranti di quello che veniva considerato un incidente di percorso, si è pensato che il motore a combustione potesse dettare le regole ancora per molto tempo. Al punto di credere che bastasse posticipare quel termine ultimo indicato dall’Europa nel 2035, anno nel quale i propulsori termici dovevano cessare di essere venduti, per pensare di andare avanti “business as usual”». E, invece, «non si trattava di sostituire un propulsore con un altro di diverso tipo. E non necessariamente elettrico. Ma anche avere a bordo tecnologie, modalità di utilizzo diverse. Come dimostra l’accelerazione del noleggio. Tutto questo significava per i protagonisti delle 4 ruote dover eccellere non solo nella bellezza e efficienza dei veicoli, qualità date per scontate dai consumatori. Si doveva e si deve eccellere nel software, nei servizi, nella mobilità, in nuovi materiali, in quelle batterie diventate improvvisamente il cuore delle vetture».
Quanto a Stellantis, «si deve fare un salto indietro al 18 dicembre 2019 data a suo tempo considerata storica per capirne la portata. Quando la famiglia azionista di Fca tramite Exor guidata da John Elkann va a nozze in Francia con gli amici di sempre, i Peugeot. I cronisti e gli analisti finanziari in quei giorni arrivano a parlare di vendita ai francesi. C’è quel dividendo straordinario, oggi dimenticato, da 5,5 miliardi girato ai soci Fiat. C’è quella sensazione che l’Italia, che aveva fatto la storia dell’automobile possa essere mortificata dall’unione. Solo pochi mesi prima c’era stata la vendita di Magneti Marelli che, va ricordato, era nella filiera dei motori elettrici forniti, tra gli altri, alla Porsche. Tutti sintomi di una chiara disaffezione nei confronti del nostro Paese. E arriviamo all’oggi. Con gli stabilimenti tricolori in cassa integrazione. Con i nuovi modelli dei marchi italiani che a stento si vedono. Con la continua delocalizzazione della produzione in Polonia, in Serbia, in Marocco. Delocalizzazione che stride con i fornitori che producono in Italia e continuano a fornire le aziende auto di tutto il mondo. A dimostrazione che si può essere competitivi».
Come se ne esce? «Il rompicapo adesso – conclude Manca – è per colui che aveva conferito Fca in Stellantis: John Elkann. È lui che alla guida del comitato esecutivo dovrà scegliere il sostituto dell’amministratore delegato dimissionario. Un ritorno brusco a quella fabbrica dell’auto che la sua famiglia aveva creato. Da dove tutto era partito e che aveva fatto approdare in Francia. Ma servirà molto di più che un nome da indicare al posto di quello di Tavares».
Il vicepresidente della Camera Giorgio Mulé (Forza Italia) aggiunge una postilla un po’ velenosa: «Ora si capirà se è vero o no che gli Elkann-Agnelli stanno preparandosi a lasciare l’Italia. Vedremo se vorranno essere citati sui libri di storia con una riga o se saranno capaci di scrivere un nuovo capitolo».
Foti al posto di Fitto
L’ormai ex capogruppo di fratelli d’Italia alla Camera, Tommaso Foti, ha giurato ieri come ministro agli Affari europei, per la coesione, il Sud e per la realizzazione del Pnrr, sostituendo Raffaele Fitto: «Lei ha un bel compito!», gli ha detto il presidente Sergio Mattarella. Giorgia Meloni, accanto a lui, sorride e quasi sospira: «Eh lo sa, lo sa…».
La speranza della premier, scrive Paola Di Caro, è che Foti «riesca a concludere il lavoro iniziato da Fitto, diventato vicepresidente della Commissione guidata da Ursula von der Leyen. Ma il compito resta delicatissimo. Anche per questo, la premier non ha voluto spacchettare il ministero distribuendo deleghe e nemmeno toccare equilibri delicati. Tutte le caselle devono essere riempite senza che nessuno degli alleati storca la bocca».
Massimo Franco, nella sua Nota, aggiunge che «il tema è quello dell’”unità nella diversità» che Meloni ha appena teorizzato di fronte alla conflittualità continua tra i vicepremier Antonio Tajani e Matteo Salvini: un modo per svelenirli e farli apparire innocui. Se invece di selezionare un ministro al posto di un altro si dovesse configurare un cambiamento complessivo per rilanciare il governo, lo scontro diventerebbe plateale. E tutte le tensioni che oggi riguardano singoli temi, dalla politica estera alla Rai, si scaricherebbero sugli equilibri e i rapporti di forza nella destra. E nessuno vuole né ha interesse a vedere la coalizione implodere per i contrasti interni».
Al posto di Foti, come capogruppo dei deputati Fdi, andrà Galezzo Bignami, attuale viceministro delle Infrastrutture, noto soprattutto per la foto in completo nero e svastica indossata per l’addio al celibato, nel 2005.
Il giuramento di Tommaso Foti come ministro agli Affari europei, coesione, Sud e Pnrr
Governo francese al capolinea
Giustamente Massimo Franco segnala che, nonostante qualche fibrillazione, il governo Meloni può dare, in questo momento, inusuali lezioni di stabilità a Germania e Francia. La sorte del cancelliere socialdemocratico tedesco Olaf Scholz, come noto, è già segnata. Ma anche il governo francese di Michel Barnier, nonostante sia appena partito, pare già al capolinea. A decretare il fine corsa è stata la leader del Rassemblement national, Marine Le Pen: «Presenteremo la nostra mozione di sfiducia contro il governo, e voteremo quella presentata da chiunque altro». Entro 48 ore le mozioni del Rassemblement national e della coalizione di sinistra saranno messe ai voti, e con ogni probabilità saranno approvate dalla maggioranza dell’Assemblea nazionale.
«Potrebbe quindi essere domani – scrive il corrispondente da Parigi Stefano Montefiori – l’ultimo giorno da premier di Michel Barnier, il 74enne elegante signore della Savoia che in questi tre mesi di governo è apparso equilibrato e dedito, animato da un profondo spirito di servizio, ma privo forse di quel guizzo di fantasia o di audacia necessario per tirare la Francia fuori dalle sabbie mobili». Ma, aggiunge, con una Francia che appare ormai ingovernabile e con la Costituzione che vieta nuove elezioni parlamentari prima del luglio prossimo, «molti, a destra, sinistra e ormai anche al centro, chiedono che a farsi da parte sia proprio lui, il presidente della Repubblica. Il vero obiettivo della mossa di Marine Le Pen: cada Barnier, e con lui anche Macron».
Del resto, secondo un sondaggio Csa del 29 novembre, a volere le dimissioni di Macron sarebbe anche il 63% dei francesi.
Il premier francese Michel Barnier (foto Julien De Rosa/Afp)
La grazia di Biden al figlio
Federico Rampini, nella sua analisi, lo definisce non soltanto un autogol, ma «un lascito avvelenato del presidente uscente ai suoi compagni di partito». Certo è che, anche a diversi Democratici, la scelta di Joe Biden di fare quel che aveva promesso di non fare mai, ossia usare il «perdono presidenziale» per proteggere da probabili condanne il figlio Hunter, è andata di traverso. «C’è stato un tentativo di spezzare Hunter — ha scritto il presidente Usa nel comunicato con cui ha annunciato la sua decisione —. Nel cercare di spezzare Hunter, hanno cercato di spezzare me, e non c’è ragione di credere che si fermeranno. Quel che è troppo è troppo». Ma il governatore democratico del Colorado Jared Polis dice che Biden ha messo «la famiglia davanti alla nazione», «un brutto precedente»: «Nessuno dovrebbe essere al di sopra della legge, nemmeno il figlio di un presidente». Per il deputato repubblicano anti Trump Joe Walsh, è «una scelta egoista che rafforza Trump, il quale potrà dire: “Così fan tutti”».
Donald Trump, ovviamente, ha già iniziato a dirlo e a far capire che è pronto a usare di nuovo, a sua volta, il perdono presidenziale, ma per altri beneficiari: «La grazia concessa da Joe a Hunter — ha scritto sul social Truth — include gli ostaggi del 6 gennaio, in carcere da anni?». Gli «ostaggi» del 6 gennaio sono quelli condannati per aver preso d’assalto il Campidoglio il giorno dell’Epifania del 2021, cercando di sovvertire l’esito delle Presidenziali di due mesi prima, che avevano portato Biden alla Casa Bianca.
Le immagini di quell’assalto in mondovisione al cuore della più potente democrazia del mondo avevano fatto sfregare le mani a Putin, Xi e autocrati vari. Ma la grazia di Biden al figlio rischia di avere un effetto non molto diverso, come nota la corrispondente Viviana Mazza: «Alla fine, la vera vittima di questa storia è la Giustizia americana. “Che caricatura della democrazia“, commenta con soddisfazione il Cremlino». (Del resto, come ha scritto Simon Jenkins sul Guardian, «la giustizia è una libertà universale, una di quelle libertà che gli Stati Uniti rivendicano di appoggiare in giro per il mondo»).
«Spero che gli americani capiscano perché un padre e un presidente abbia preso questa decisione», ha scritto Biden. Ma in quel comunicato, sottolinea ancora Mazza, il presidente uscente «a tratti sembra ripetere le accuse mosse per anni da Trump al dipartimento di Giustizia, ai procuratori e ai giudici».
Il presidente americano Joe Biden con il figlio Hunter (foto Susan Walsh,/Ap)
Il rebus siriano
A dare man forte alle deboli forze del presidente siriano Bashar Assad per fronteggiare l’avanzata dei ribelli islamisti arrivano anche le milizie sciite irachene sostenute dall’Iran, entrate nella Siria orientale durante la notte tra domenica e lunedì. Secondo l’agenzia Associated Press, i miliziani iracheni, tra cui figurano combattenti dei gruppi Kataib Hezbollah e Fatemiyoun, hanno passato il confine nei pressi della città di Bukamal. Per tutta risposta, i ribelli jihadisti dell’Hayat Tahrir ash Sham (Hts, ndr) hanno continuato a tenere alta la pressione sulla città di Hama per respingere i rinforzi inviati dall’Iraq, mentre i caccia russi intensificavano i bombardamenti su Idlib. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), organizzazione non governativa con sede a Londra ma con una vasta rete di contatti sul campo, sono almeno 446 le vittime causate dagli scontri.
Il primo ministro iracheno, Mohammed Shia al-Sudani, ha parlato dei repentini cambiamenti in Siria con il re di Giordania Abdullah II. Il ministro degli Esteri iraniano AbbasAraghchi è volato ad Ankara per discutere degli sviluppi della situazione con l’omologo turco Hakan Fidan che ha dichiarato:«Non vogliamo un’escalation della guerra civile in Siria», sottolineando come Ankara tema un ulteriore flusso di rifugiati.
Il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo iraniano Masoud Pezeshkian hanno ribadito un «sostegno incondizionato» ad Assad durante una conversazione telefonica, mentre il portavoce del dipartimento di Stato Usa Matthew Miller ha rivolto un appello a tutti i Paesi che hanno influenza in Siria affinché lavorino per la de-escalation.
Le nuove regole sugli affitti brevi
Basta con l’identificazione da remoto degli ospiti delle strutture ricettive a breve termine mediante trasmissione informatica delle copie dei documenti alle Questure di riferimento e anche all’accesso «negli alloggi con codice di apertura automatizzata, ovvero tramite installazione di keybox», i contenitori per le chiavi spesso sotto forma di lucchetti agganciati a pali, cancelli o grate.
Sono alcune delle disposizioni contenute nella circolare del capo della polizia, Vittorio Pisani, inviata alle Prefetture. «Apprezzo molto l’iniziativa del Viminale e sottolineo la piena e proficua collaborazione con il ministro Piantedosi – dice la ministra del Turismo, Daniela Santanché -. La cooperazione tra i nostri dicasteri è fondamentale per creare un ambiente sicuro e accogliente per tutti, specie in vista di importantissimi eventi come il Giubileo 2025».
Pisani pone l’accento sui motivi di sicurezza dietro le nuove regole: «In un momento storico delicato a livello internazionale caratterizzato da eventi che a vario modo impongono un elevato livello di allerta si conferma l’obbligo posto a carico dei gestori di strutture ricettive di ogni genere o tipologia di accertare l’identità degli ospiti mediante verifica de visudella corrispondenza tra persone alloggiate e documenti forniti, comunicandola alla questura territorialmente competente».
Keybox in una via di Venezia (foto Marco Sabadin/Vision)
Le altre notizie
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Cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e manganelli. Ieri sera la polizia ha usato la forza contro le migliaia di persone che, per la quinta sera consecutiva, manifestavano davanti al Parlamento georgiano a Tbilisi, per chiedere di ripetere il voto del 26 ottobree la ripresa delle trattative per l’adesione alle Ue che il governo ha deciso di sospendere fino al 2028. Le forze speciali, che agiscono con il volto completamente coperto dai caschi, non hanno solo disperso la folla,
hanno poi inseguito i cittadini che avevano cercato riparo in strade secondarie per far loro capire che, come ha ripetuto ieri il premier Irakli Khobadidze, «non ci sarà alcuna rivoluzione in Georgia». «
La protesta è finanziata dall’estero» continua a ripetere Khobadidze, sottintendendo quanto fosse necessaria
la legge contro le influenze straniere, molto simile a quella russa, approvata lo scorso maggio. Un provvedimento che, insieme a quello «per la protezione dei valori familiari e dei minori», entrato in vigore ieri,
aveva spinto l’Unione Europea a congelare il processo di adesione all’Ue, iniziato a dicembre 2023 e fortemente auspicato dalla popolazione, tanto da essere sancito nella Costituzione.
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Ci sono quattro indagati per omicidio colposo per la morte, il 31 maggio scorso, di Patrizia Cormos, Bianca Doros e Christian Molnar nel fiume Natisone a Premariacco, in provincia di Udine. Si tratta di un operatore della Sores, la sala operativa regionale per le emergenze sanitarie, e di tre vigili del fuoco della centrale operativa di Udine. Domani saranno interrogati.
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«Edoardo? Sta bene e dice in continuazione vojo gioca’, fatemi gioca’». È passata da poco l’ora di pranzo di ieri quando il d.g. della Fiorentina Alessandro Ferrari strappa un sorriso a chi lo ascolta. Edoardo Bove, accasciatosi per un arresto cardiaco durante Fiorentina-Inter, è lucido e pimpante, una notizia bellissima e già emersa in mattinata dopo che il 22enne centrocampista romano si era svegliato da solo ed era stato estubato perché in grado di respirare autonomamente. Il peggio insomma è ormai alle spalle.
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Meglio aspettare un giudizio «superiore» – quello della Corte di giustizia europea – anziché decidere con il rischio di essere poi smentiti. A questa conclusione è giunta la Procura generale della Corte di cassazione in vista dell’udienza di domani, davanti ai giudici della prima Sezione civile, sulla questione dei cosiddetti «Paesi sicuri» dove rispedire i migranti sbarcati irregolarmente in Italia. Di qui la richiesta dei sostituti procuratori generali Luisa De Renzis e Anna Maria Soldi, sintetizzata nelle ultime righe della requisitoria: «Sospendere il presente giudizio sino all’esito del procedimento pendente dinanzi alla Corte di giustizia europea».
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I pm di Firenze Luca Turco e Antonino Nastasi hanno confermato ieri la richiesta di rinvio a giudizio per gli 11 imputati (più quattro società) nell’inchiesta su presunte irregolarità nei finanziamenti a Open, la fondazione attiva tra il 2012 e il 2018 per sostenere Matteo Renzi, prima come sindaco di Firenze e poi come segretario del Pd. I pm hanno contestato il reato di finanziamento illecito ai partiti, ritenendo Open un’articolazione di partito riconducibile e funzionale all’ascesa politica di Renzi. L’udienza è stata aggiornata al 12 dicembre, in cui parleranno i difensori.
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L’economia non cresce, con il prodotto interno lordo invariato tra il secondo e terzo trimestre,
ma l’occupazione aumenta a livelli record. Ottobre, secondo i dati Istat, fa segnare il
minimo della disoccupazione da quasi vent’anni a questa parte, il 5,8% della forza lavoro. Giorgia Meloni è soddisfatta, rispetto a un anno fa ci sono 363 mila posti di lavoro in più (121 mila nell’ultimo trimestre), ma le speranze del governo di una ripartenza rapida dell’economia si affievoliscono. Per quest’anno l’Istat dà per acquisita una crescita dello 0,5%, un po’ più alta di quanto si profilasse tre mesi fa, ma lontana dall’obiettivo dell’1% del governo.
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La premier Giorgia Meloni, nella già citata intervista su Rete 4, è intervenuta sull’offerta lanciata da Unicredit per Bpm: «L’operazione è di mercato, dopodiché il governo ha degli strumenti per intervenire qualora dovesse rilevare che non rientra nell’ambito dell’interesse nazionale. È un file che sta seguendo il ministro Giorgetti, mi fido molto del suo giudizio sulla materia e quindi facciamo delle valutazioni assolutamente neutrali».
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È morto, a 80 anni, lo storico Giovanni Sabbatucci. Di lui, Antonio Carioti scrive che centro dei suoi studi è stata «l’anomalia italiana»: «Aveva analizzato il fenomeno del trasformismo, la mancanza di una forte sinistra riformista, la debolezza patologica di una classe dirigente liberale che si era piegata al fascismo, ovviamente la dittatura stessa e le sue durature conseguenze. Tutto ciò che, dall’epoca risorgimentale in poi, aveva allontanato il nostro Paese dal cammino verso l’instaurazione di una solida democrazia liberale di stampo europeo».
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Si è spenta, a 104 anni, Iole Mancini. È stata l’ultima superstite testimone degli orrori delle prigioni nazifasciste di via Tasso, a Roma, dove fu sottoposta a interrogatori da parte di Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine.
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L’Atalanta non si ferma più: i bergamaschi hanno battuto in trasferta per 2 a 0 la Roma di Ranieri con gol di De Roon e dell’ex Zaniolo e ora sono secondi in classifica, a un solo punto dal Napoli.
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Sembravano destinate alla Cina, invece le Finals di Coppa Davis si giocheranno in Italia fino al 2027. Il prossimo anno a Bologna, poi forse a Torino e Milano. Un’altra conquista dopo il successo delle Atp Finals di Torino. Una decisione che potrebbe favorire la presenza di Jannik Sinner.
Da leggere e ascoltare
L’analisi di Antonio Polito su perché il centrodestra regge e il centrosinistra è instabile.
La rubrica di Paolo Di Stefano. Titolo: «Niente sconti per una banana?»
L’inserto «Buone Notizie».
Il podcast Giorno per giorno, in cui si parla di Stellantis, caos francese e «perdono» di Biden con Federico Fubini, Stefano Montefiori e Viviana Mazza.
Il Caffè di Gramellini
L’intoccabile
Lungi da me manifestare perplessità per la presenza di Fedez a Sanremo: il suo talento di imprenditore musicale è fuori discussione, come la sua perizia nei giochi di parole. Però se Carlo Conti avesse annunciato il ritorno di Chiara Ferragni sul palco dell’Ariston, mezza Italia avrebbe inarcato il sopracciglio. Invece per quello di Fedez si è indignato soltanto Gasparri. Per quale motivo da Fedez si accetta tutto, persino le frequentazioni con i peggiori arnesi della città? Certo, nessuno si aspetta che un rapper osservi le regole «borghesi». Ma, se l’immagine di Fedez ha retto agli scandali meglio di quella dell’ex moglie, non è perché lui ha rimediato «solo» una denuncia per rissa. Credo dipenda dal fatto che non si è mai scusato. Anzi: è diventato più attaccabrighe di prima.
I caratteri come il suo — pensate a Trump o a certi opinionisti alla moda — non moderano gli eccessi, né si piegano all’intimidazione morale rappresentata dai giudizi e pregiudizi altrui. Restituiscono le accuse colpo su colpo. Non vogliono essere perdonati, ma temuti. Dal loro punto di vista hanno ragione: gli uomini, ed è un comportamento tipico dei branchi, tendono a infierire sulle persone gentili, pensandole deboli, mentre rispettano chi ostenta con strafottenza la propria aggressività, temendone la reazione. Comportarsi da bulli aiuta nella vita, anche se ha un prezzo. Davanti ai bulli si tace, si sopporta o ci si inchina. Quasi mai, però li si ama. Arrivano alla pancia. Non al cuore.
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