|
«Per me c’erano sia la premeditazione sia la crudeltà. E lo stalking era fuori discussione. Se non c’è con centinaia di messaggi al giorno e 75 coltellate, non so allora cosa siano queste aggravanti».
Lì per lì, dopo la sentenza che ha condannato l’assassino di sua figlia all’ergastolo, Gino Cecchettin non aveva protestato. Gli erano venute fuori, ancora una volta, parole esemplari:
«Abbiamo perso tutti, come società. Nessuno mi ridarà indietro Giulia, non sono né più sollevato né più triste rispetto a ieri. È chiaro che è stata fatta giustizia, ma dovremmo fare di più come esseri umani. E la violenza di genere va combattuta con la prevenzione, non con le pene. Come essere umano mi sento sconfitto, come papà non è cambiato niente rispetto a ieri o a un anno fa».
Poi, nell’intervista ad Andrea Pasqualetto, è affiorata la delusione perché la Corte d’Assise di Venezia, nel comminare a Filippo Turetta la condanna a vita, ha riconosciuto l’aggravante della premeditazione, ma non quelle della crudeltà e degli atti persecutori, ovvero lo stalking.
C’è dunque attesa per le motivazioni con cui i giudici spiegheranno le loro scelte, tra 90 giorni. Un’attesa che conferma come il femminicidio di Giulia Cecchettin, massacrata l’11 novembre dell’anno scorso, a 22 anni, dall’ex fidanzato oggi 23enne, sia stato un punto di svolta nella nostra percezione della strage di donne per mano di uomini, una donna ogni tre giorni uccisa quasi sempre da un uomo a lei prossimo, spesso partner, spesso ex partner.
Giulia Cecchettin era nata il 5 maggio 2001
Ma lo è stata davvero, una svolta? La domanda ruota attorno a due parole, una recente ma ormai stabile nel lessico quotidiano delle italiane e degli italiani, l’altra vecchia ma per alcune e per alcuni attualissima, per altri insostenibile in ogni senso, infatti la scacciano con un puntiglio ideologico che sembra avere priorità su tutto.
Le due parole sono stalking e patriarcato.
Tutti ci eravamo convinti che Turetta fosse anche uno stalker, oltre che un assassino reo confesso. La premeditazione era impossibile da escludere, basta rileggere la lista delle cose che si era appuntato prima del massacro («Fare il pieno, poi scotch, corde, spugna bagnata e coltello»).
Il senso comune, poi, non poteva che ritenere particolarmente crudele la morte della ragazza. Ieri ci hanno invece spiegato che «la crudeltà nel gergo comune non è la stessa di un processo penale», che il numero di coltellate – 75 in questo caso, di cui due mortali – «non è indicativo di crudeltà», che «l’omicidio efferato può non essere crudele», che «quelle di Turetta sono coltellate alla cieca, in preda a una tempesta emotiva», non dettate dalla «volontà di infliggere sofferenza alla vittima». Distinzioni, quelle dell’avvocato di Turetta, Giovanni Caruso, che Nicodemo Gentile, legale di parte civile per Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, ha mostrato di condividere, perché «la crudeltà è un’aggravante scivolosa» e «il numero delle coltellate o l’efferatezza a volte non bastano per provarla», ha ripetuto anche lui.
Appreso e digerito tutto questo, resta la questione dello stalking. L’avvocato di Turetta ha convinto la Corte che quell’aggravante non ci fosse perché «Giulia non aveva paura di Filippo».
Ma qui il senso comune ha un moto di ribellione più forte. Chiunque abbia letto le chat tra vittima e carnefice, fa fatica a dubitare che Turetta stalkerasse – perseguitasse – Giulia. Rileggiamone qualcuna.
Giulia, tre giorni prima di essere uccisa:
«Pippo sei ossessionato signore! Sei uno psicopatico! Che cosa devo fare? Lasciarti dirmi quando fare che cosa e controllarmi? Io sinceramente non lo trovo corretto, ok? Quindi io mi sto comportando solo di conseguenza a come ti comporti tu. Se tu ti comporti di merda come uno psicopatico, io mi comporto di conseguenza allontanandoti, allontanandomi, Pippo. Perché mi stai cominciando a fare paura».
Giulia, il 2 ottobre: «Vorrei che sparisse, vorrei non avere più contatti con lui però allo stesso lui mi viene a dire cose del tipo che è super depresso, che ha smesso di mangiare, che passa le giornate a guardare il soffitto, che eh pensa solo ad ammazzarsi (…) Vorrei fortemente sparire dalla sua vita ma non so come farlo perché mi sento in colpa possa farsi male».
Filippo, il 31 luglio: «Mi hai tradito, ti farò pentire di tutto il male che mi stai facendo». Non si riferiva a nuove relazioni di Giulia, ma alla pretesa che lei non si laureasse prima di lui, che lo aspettasse: «È una richiesta sensatissima, le nostre vite vanno di pari passo insieme… ci laureiamo entrambi a settembre o novembre, ma per farlo mi serve il tuo aiuto studi i tuoi esami e anche i miei ma insieme», le aveva scritto l’11 febbraio. Fino a esplodere di lì a pochi mesi: «Mettiti in testa stronza che o ci laureiamo insieme o la vita è finita per entrambi… smettila di pensare alla tua inutile carriera».
Se questo non è stalking, bisogna capire cos’è.
Ma perché è importante, stabilire cos’è stalking? Perché lo stalking è il più chiaro indicatore della tossicità del rapporto, delle pulsioni ossessive e possessive del maschio respinto (o non ancora respinto), del suo potenziale violento. In una parola: della sua pericolosità. Se la parte più consapevole della società si sforza di convincere le donne a non sottovalutare questi segnali – compresi gli stratagemmi per suscitare il senso di colpa – che senso ha che sia poi la giustizia, nella sentenza più attesa degli ultimi anni, a sminuirne l’importanza?
L’avvocato Gentile spiega bene cosa comporti, la mancata aggravante dello stalking per FilippoTuretta: «Penso che sia un arretramento culturale. In questi processi servirebbe un passo nuovo per l’autodeterminazione della donna, invece questo è un passo indietro. Anche rispetto a una giurisprudenza ormai consolidata ed evoluta. Quella che ci dice che anche se i contatti fra la vittima e il suo stalker non sono continui ma intermittenti, anche se ci sono delle pause nel loro rapporto, la persecuzione si configura comunque davanti a determinati comportamenti. Le centinaia di messaggi di Turetta, la sua attività iper-vigilante e assillante sono pacifiche. Fra l’altro, l’altalena emotiva, lo sminuire un pericolo o perdere un punto di vista lucido, sono fra le caratteristiche tipiche delle relazioni tossiche».
Insomma, perché all’assassino venisse riconosciuto anche lo stalking «non mancava nulla: il fatto che lei non avesse paura o che non ci fossero certificati medici attestanti la sua ansia, non significa niente. Anche la reciprocità non esclude gli atti persecutori. Quanti casi conclamati di stalking conosciamo in cui la donna resta nella relazione, cambia idea, fa un passo avanti e poi uno indietro…».
E poi c’è l’altra parola, quella «vecchia».
«Patriarcato», osò dire Elena Cecchettin dopo la morte della sorella: «Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato».
Ma cos’è, questo benedetto patriarcato che ancora fa alzare gli occhi al cielo a tanti uomini appena lo sentono nominare? Detto semplice, è il dominio che gli uomini continuano a esercitare, o a pretendere, nei rapporti sociali, familiari, aziendali. Per le donne, scrive Giusi Fasano, «la negazione della libertà e del potere di decidere di se stesse è stata mitigata nel tempo ma mai cancellata del tutto e il patriarcato che Elena ha tirato fuori dal cassetto ha fatto rumore per questo. Perché ha costretto la politica e la discussione pubblica a tornare a quel vecchio concetto».
Una parte della politica, specialmente, continua a diffidare di quella parola, a sentirla come un atto di accusa rivolto alla storia, alla cultura e alle tradizioni nazionali. Tende a considerare Turetta, il giovane maschio italiano benestante e beneducato, l’eccezione mostruosa, non il sintomo di una patologia diffusa. Non a caso, nei giorni scorsi, il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha scelto proprio la presentazione della fondazione intitolata a Giulia Cecchettin per dire che «il patriarcato non esiste più» e che «l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale». La patologia c’è ma viene da fuori, non siamo noi, non sono i nostri valori.
Anche allora Gino Cecchettin, che di quella parola non ha paura, e che della lotta al patriarcato, in nome delle figlie, ha fatto una missione, aveva reagito in modo esemplare. Anche allora, anziché polemizzare, aveva dialogato:
«Non è che se neghi una cosa questa non esiste. Il ministro ha parlato di soprusi, di violenze, di prevaricazione. È esattamente quello il patriarcato ed è tutto ciò che viene descritto nei manuali. È la parola, oggi, che mette paura: “patriarcato” spaventa più di “guerra”».
Oggi Cecchettin rivedrà Valditara e proverà a rispiegarglielo. Probabilmente con parole simili a quelle di Elena Tebano, sulla nostra Rassegna:
«Dobbiamo fare di più per cambiare la cultura che ha reso possibile quel delitto, che ha fatto sentire Turetta in diritto di controllare Giulia. È un lavoro lungo, da fare giorno per giorno, in famiglia, nelle scuole, sui luoghi di lavoro, in politica. Ci chiama in causa tutti».
Gino Cecchettin ieri all’uscita dal tribunale (Vision)
E poi, in questa newsletter: i tumulti improvvisi in Corea del Sud, la Francia in crisi, il primo sì alla riforma della giustizia, la sentenza sulla strage di Rigopiano e altre cose che può essere utile sapere e leggere oggi.
Benvenuti alla Prima Ora di mercoledì 4 dicembre.
Il quasi-golpe in Corea del Sud
Soldati cercano di entrare nell’Assemblea nazionale a Seul (Ap)
Siamo abituati a pensare a quel Paese come a un avamposto asiatico dell’Occidente. Anzi, nelle nostre vite sono bien trapiantati tanti pezzi di Corea, i Samsung in tasca, le serie tv alla Squid Game, i capolavori del cinema come Parasite, il K-Pop, e ultimo pure il Nobel alla scrittrice Han Kang. Per questo sembra surreale il colpo di Stato tentato dal presidente in carica. Punto per punto:
-
La legge marziale Yoon Suk Yeol, conservatore eletto nel 2022 con pochi voti di vantaggio, ha provato a imporla a tarda sera, con l’aiuto dell’esercito. Motivo: «Eliminare gli elementi antistatali che tramano una ribellione e vogliono rovesciare la democrazia» e «sradicare le forze che simpatizzano per i comunisti nordcoreani».
-
Lo stop alle libertà politiche Il generale Park, capo delle forze di terra, ha eseguito immediatamente l’ordine presidenziale dichiarando fuorilegge ogni attività politica e dimostrazione pubblica e chiudendo il Parlamento per «evitare confusione sociale».
-
La reazione dei partiti È stato lo stesso capo dei Conservatori Han Dong-hoon a opporsi al colpo di mano del suo collega di partito, invocando «l’aiuto del popolo» per bloccarlo. Il leader dell’opposizione liberale, Lee Jae-myung, vincitore delle ultime elezioni politiche in aprile, ha fatto appello ai cittadini di Seul perché si radunassero davanti al Parlamento in modo da «resistere al tradimento».
-
Il no dei deputati Racconta Guido Santevecchi: «Davanti alla sede dell’Assemblea nazionale la situazione si è fatta subito tesa: circa 190 dei 300 deputati sono arrivati per la seduta d’emergenza; fuori, cordoni di polizia e di soldati hanno cercato di forzare le porte del palazzo, ma sono stati fermati dalle barricate costituite dagli assistenti dei parlamentari e si sono trovati di fronte anche migliaia di cittadini di Seul. Dopo un breve dibattito, i 190 deputati presenti hanno votato all’unanimità il rigetto della legge marziale».
-
Il dietrofront del presidente A quel punto Yoon – che per l’opposizione non può più essere considerato presidente – ha deciso di revocare la legge marziale appena dichiarata. Nonostante il generale Park avesse detto che avrebbe obbedito solo al presidente, il portavoce del Parlamento ha provato a minimizzare le responsabilità dei militari: un tentativo di sanare la pericolosa frattura tra democrazia ed esercito, a lungo cronica nel Paese ma che sembrava superata dagli anni ’80.
-
L’allarme degli americani La Casa Bianca ha espresso tutto il suo stupore: «Non eravamo informati di questo annuncio, siamo seriamente preoccupati, ci siamo messi in contatto con il governo di Seul». Per gli Usa è un colpo grave: in Corea del Sud hanno 28 mila soldati, la presidiano da 70 anni, la considerano fondamentale, non meno del Giappone, per contrastare la minaccia nordcoreana e l’influenza cinese.
-
Ma che tipo è Yoon Suk Yeol? È la versione asiatica del populista reazionario, con venature autoritarie ora evidenti. Sempre più impopolare e colpito da scandali familiari, mal sopporta un’opposizione divenuta maggioranza nel Paese e non accusabile seriamente di intelligenza col nemico a Nord. È ultraconservatore e antifemminista: per lui l’emancipazione delle donne è la causa della drammatica denatalità sudcoreana.
-
E ora che succede? All’improvviso sembra venire meno un perno della stabilità mondiale, e il primo a rallegrarsene è il dittatore nordcoreano armato di atomiche, sottolinea Guido: «Da molti mesi Kim ha ripreso i suoi preparativi per soggiogare la Sud Corea. E la destabilizzazione politica di Seul, la ferita inferta dal suo stesso capo di Stato a una democrazia che davamo per pienamente matura potrebbe ispirare al dittatore nordista qualche mossa azzardata».
Le altre cose importanti
Il premier francese Michel Barnier ieri sera in tv (Afp)
La crisi in Francia
L’appuntamento è alle 8 di stasera: a quell’ora l’Assemblea nazionale voterà la mozione di sfiducia presentata dalla sinistra contro il governo di Michel Barnier, nato solo tre mesi fa. Con ogni probabilità, la destra lepenista, che finora lo ha tenuto in piedi, stavolta lo farà cadere. Le parole di Marine Le Pen non lasciano infatti molti dubbi: «I francesi speravano in una nuova visione, ma inscrivendo la sua legge di bilancio nella continuità catastrofica di Emmanuel Macron, il primo ministro non poteva che fallire».
E il presidente cosa dice? Macron respinge la pressione delle due estreme perché si dimetta: «Non ha senso lasciare prima del 2027. Sono stato eletto per due volte dal popolo francese. Ne sono estremamente fiero e onorerò la fiducia che mi è stata data con tutta l’energia che ho a disposizione, fino all’ultimo istante». Dopodiché, ha fatto appello alla «coerenza» dei deputati contro il «cinismo» della destra che vota con la sinistra. Toni più accorati da parte del premier, apparso ieri sera sulle due reti tv principali: «Oltre 18 milioni di francesi vedranno le loro tasse aumentare, se il governo cade senza che sia stata approvata la mia legge di bilancio».
Ma come si è arrivati a tanto? La crisi, ricorda Stefano Montefiori, si trascina ormai dalla rielezione di Macron, nel 2022: i premier da lui nominati, prima Elisabeth Borne e poi Gabriel Attal, hanno governato senza maggioranza e a colpi di decreti. Fino alle elezioni europee del giugno scorso, con la grande avanzata dei lepenisti. Macron ha provato a sparigliare con una decisione-choc: Parlamento sciolto e immediate elezioni politiche. Il successo lepenista al primo turno è stato neuatralizzato ai ballottaggi dagli accordi tra sinistra e macroniani, ma ne è uscito un Parlamento ancora senza maggioranza, con Le Pen padrona del destino di Barnier. Fino a stasera.
Cosa vuol dire per l’Europa? Vuol dire che a Parigi si avvicina una Bastiglia nera, con i lepenisti mai così vicini al potere. Sarebbe la prova della verità anche per il governo Meloni: approfondire l’intesa europeista con i democristiani tedeschi, o tornare su posizioni euroscettiche al fianco di Madame Le Pen?
Giustizia sì, autonomia no
Ieri ha fatto un passo in avanti la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, con il primo sì alla Commissione Affari costituzionali della Camera: il 9 dicembre comincia la discussione in Aula. Nelle stesse ore, la Corte Costituzionale ha reso note le motivazioni della sentenza con cui due settimane fa ha accolto in gran parte il ricorso di quattro regioni contro l’autonomia differenziata.
Sui territori servono prestazioni uniformi che garantiscano pari diritti e pari servizi a tutti i cittadini, ribadisce la Corte, e certe materie – scuola, energia, ambiente, commercio estero – non spettano alle Regioni. Quanto al referendum abrogativo, sarà la Cassazione a stabilire se a questo punto è superato. Di certo, nonostante i tentativi leghisti di salvare il salvabile della riforma cara soltanto a loro, la legge Calderoli appare piuttosto picconata.
Scrive Massimo Franco: «L’impressione è che l’unica riforma della maggioranza destinata a andare avanti più o meno nei tempi previsti potrebbe essere quella della giustizia». Con il premierato congelato almeno fino all’anno prossimo, sull’autonomia «si profila una lunga finzione di dialogo: una finzione soprattutto all’interno della stessa maggioranza». Dove né forzisti né fratellisti si sognano di consentire un decentramento così spinto come quello che vorrebbero i leghisti.
La crisi Stellantis
Per la terza volta, il presidente del gruppo automobilistico John Elkannha rifiutato l’invito a confrontarsi con i membri della Commissione Attività produttive della Camera. Elkann preferisce aspettare il tavolo sull’automotive convocato il 17 dicembre al Ministero delle Imprese con sindacati e componentisti. Il governo però, scrive Andrea Rinaldi, «un segnale intanto lo ha dato: l’arrivo di nuovi incentivi per l’automotive nella Finanziaria. Non bonus per l’acquisto di vetture, questa volta, ma circa 400 milioni di euro a sostegno delle imprese della filiera, che andrebbero ad aggiungersi al fondo per l’auto; per altro già decurtato di 4,6 miliardi».
Quanto alla presunta maxi-buonuscita da 100 milioni per l’ad Carlos Tavares, Stellantis parla di «cifre fantasiose». E per la successioni emerge il nome di Luca Maestri.
Intanto, nonostante la reiterata richiesta del governo italiano, la Commissione europea ribadisce che non ci sarà nessun ripensamento sullo stop ai motori diesel e benzina in programma dal 2035: «Non è una cosa che stiamo prendendo in considerazione e direi che non è una cosa che praticamente nessuno sta prendendo in considerazione», ha detto l’eurocommissaria Teresa Ribera. Semmai, Bruxelles starebbe pensando a un congelamento delle multe alle case automobilistiche e all’introduzione di carburanti alternativi.
Rigopiano, nuovo processo
Riparte quasi da zero la vicenda giudiziaria relativa al disastro del 18 gennaio 2017, quando una valanga di neve travolse l’Hotel Rigopiano a Farindola, in provincia di Pescara, uccidendo 29 persone.
Riepiloga Ilaria Sacchettoni: «Processo bis a Perugia per il sindaco e i dirigenti regionali coinvolti nella strage di Rigopiano. Così hanno stabilito i giudici della sesta sezione penale della Cassazione riformando la sentenza di secondo grado. Per tutti eccetto che per il prefetto Francesco Provolo condannato in via definitiva a un anno e otto mesi le condanne degli altri saranno da ricalcolare». Soddisfatti i parenti delle vittime.
Da leggere/ascoltare
-
L’editoriale di Paolo Valentino: «Effetto Putin nell’Est Europa».
-
La rubricaFrammenti di Ferruccio de Bortoli: «Giustizia universale, quello che l’Italia si è dimenticata di fare».
-
La recensione del Mereghetti sul film di Pedro Almodovar sull’eutanasia, La stanza accanto: in sintesi, «un capolavoro» e 5 stelle 5.
-
Il podcast Giorno per giorno, con Giovanni Viafora sul processo Turetta, Emanuele Buzzi sulle nuove schermaglie Grillo-Conte e Alessia Conzonato sulla partenza di IT Wallet, il nuovo portafoglio digitale aperto a tutti i cittadini italiani maggiorenni: potete ascoltarli qui.
Il Caffè di Gramellini
Il nostro comune amico
«Silvio Orlando ha interrotto per qualche minuto il suo spettacolo teatrale a Bologna, dopo che il ronzio e l’illuminarsi di un cellulare avevano sporcato il silenzio e il buio della sala in un momento culminante. Lo ha fatto quasi scusandosi per l’ardire, com’è costume di questo attore mite e gentile, quindi deliziosamente fuori moda. Ma non aspettatevi che io aderisca a una romantica crociata contro l’onnipresenza telefonica invocando sanzioni o precauzioni obbligatorie, quale sarebbe quella di consegnare l’ordigno tascabile all’ingresso come si fa con i cappotti. Siamo realisti, e soprattutto sinceri. L’esigenza di rimanere perennemente accesi, così da illudersi di controllare i movimenti dei parenti stretti e le notizie del mondo intero, non l’ha certo inventata il telefonino. Semmai è il telefonino che è stato inventato per poterla finalmente soddisfare. Dirselo non migliora le cose, ma almeno sgombra il campo dalla retorica dei “si dovrebbe” e dalla nostalgia per un tempo di connessioni saltuarie che, se tornasse, dopo un’iniziale euforia getterebbe la maggioranza degli umani nello sconforto.
Accettare il cambiamento non significa rassegnarvisi, ma averne consapevolezza. Nessuno è più capace di concentrarsi in esclusiva su un libro, uno spettacolo, una conversazione di lavoro o di piacere. Prenderne coscienza è il primo passo per imparare ad autoregolarsi. (Ho scritto questo Caffè fermandomi solo due volte a controllare i messaggi: ditemi se non è già una piccola impresa)».
Grazie per aver letto Prima Ora, e buon mercoledì.
|
|