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mercoledì 04 dicembre 2024
Due parole per Giulia Cecchettin
Prima Ora mercoledì 4Un disegno di Giulia Cecchettin
editorialista di Gianluca Mercuri

 

«Per me c’erano sia la premeditazione sia la crudeltà. E lo stalking era fuori discussione. Se non c’è con centinaia di messaggi al giorno e 75 coltellate, non so allora cosa siano queste aggravanti».

 

Lì per lì, dopo la sentenza che ha condannato l’assassino di sua figlia all’ergastolo, Gino Cecchettin non aveva protestato. Gli erano venute fuori, ancora una volta, parole esemplari:

 

«Abbiamo perso tutti, come società. Nessuno mi ridarà indietro Giulia, non sono né più sollevato né più triste rispetto a ieri. È chiaro che è stata fatta giustizia, ma dovremmo fare di più come esseri umani. E la violenza di genere va combattuta con la prevenzione, non con le pene. Come essere umano mi sento sconfitto, come papà non è cambiato niente rispetto a ieri o a un anno fa».

 

 

Poi, nell’intervista ad Andrea Pasqualetto, è affiorata la delusione perché la Corte d’Assise di Venezia, nel comminare a Filippo Turetta la condanna a vita, ha riconosciuto l’aggravante della premeditazione, ma non quelle della crudeltà e degli atti persecutori, ovvero lo stalking.

C’è dunque attesa per le motivazioni con cui i giudici spiegheranno le loro scelte, tra 90 giorni. Un’attesa che conferma come il femminicidio di Giulia Cecchettin, massacrata l’11 novembre dell’anno scorso, a 22 anni, dall’ex fidanzato oggi 23enne, sia stato un punto di svolta nella nostra percezione della strage di donne per mano di uomini, una donna ogni tre giorni uccisa quasi sempre da un uomo a lei prossimo, spesso partner, spesso ex partner.

 

Giulia Cecchettin era nata il 5 maggio 2001

Ma lo è stata davvero, una svolta? La domanda ruota attorno a due parole, una recente ma ormai stabile nel lessico quotidiano delle italiane e degli italiani, l’altra vecchia ma per alcune e per alcuni attualissima, per altri insostenibile in ogni senso, infatti la scacciano con un puntiglio ideologico che sembra avere priorità su tutto.

Le due parole sono stalking e patriarcato.

Tutti ci eravamo convinti che Turetta fosse anche uno stalker, oltre che un assassino reo confesso. La premeditazione era impossibile da escludere, basta rileggere la lista delle cose che si era appuntato prima del massacro («Fare il pieno, poi scotch, corde, spugna bagnata e coltello»).

 

 

Il senso comune, poi, non poteva che ritenere particolarmente crudele la morte della ragazza. Ieri ci hanno invece spiegato che «la crudeltà nel gergo comune non è la stessa di un processo penale», che il numero di coltellate – 75 in questo caso, di cui due mortali – «non è indicativo di crudeltà», che «l’omicidio efferato può non essere crudele», che «quelle di Turetta sono coltellate alla cieca, in preda a una tempesta emotiva», non dettate dalla «volontà di infliggere sofferenza alla vittima». Distinzioni, quelle dell’avvocato di Turetta, Giovanni Caruso, che Nicodemo Gentile, legale di parte civile per Elena Cecchettin, la sorella di Giulia, ha mostrato di condividere, perché «la crudeltà è un’aggravante scivolosa» e «il numero delle coltellate o l’efferatezza a volte non bastano per provarla», ha ripetuto anche lui.

Appreso e digerito tutto questo, resta la questione dello stalking. L’avvocato di Turetta ha convinto la Corte che quell’aggravante non ci fosse perché «Giulia non aveva paura di Filippo».

Ma qui il senso comune ha un moto di ribellione più forte. Chiunque abbia letto le chat tra vittima e carnefice, fa fatica a  dubitare che Turetta stalkerasse – perseguitasse – Giulia. Rileggiamone qualcuna.

 

 

Giulia, tre giorni prima di essere uccisa:

«Pippo sei ossessionato signore! Sei uno psicopatico! Che cosa devo fare? Lasciarti dirmi quando fare che cosa e controllarmi? Io sinceramente non lo trovo corretto, ok? Quindi io mi sto comportando solo di conseguenza a come ti comporti tu. Se tu ti comporti di merda come uno psicopatico, io mi comporto di conseguenza allontanandoti, allontanandomi, Pippo. Perché mi stai cominciando a fare paura».

Giulia, il 2 ottobre: «Vorrei che sparisse, vorrei non avere più contatti con lui però allo stesso lui mi viene a dire cose del tipo che è super depresso, che ha smesso di mangiare, che passa le giornate a guardare il soffitto, che eh pensa solo ad ammazzarsi (…) Vorrei fortemente sparire dalla sua vita ma non so come farlo perché mi sento in colpa possa farsi male».

 

Filippo, il 31 luglio: «Mi hai tradito, ti farò pentire di tutto il male che mi stai facendo». Non si riferiva a nuove relazioni di Giulia, ma alla pretesa che lei non si laureasse prima di lui, che lo aspettasse: «È una richiesta sensatissima, le nostre vite vanno di pari passo insieme… ci laureiamo entrambi a settembre o novembre, ma per farlo mi serve il tuo aiuto studi i tuoi esami e anche i miei ma insieme», le aveva scritto l’11 febbraio. Fino a esplodere di lì a pochi mesi: «Mettiti in testa stronza che o ci laureiamo insieme o la vita è finita per entrambi… smettila di pensare alla tua inutile carriera».

 

 

Se questo non è stalking, bisogna capire cos’è.

Ma perché è importante, stabilire cos’è stalking? Perché lo stalking è il più chiaro indicatore della tossicità del rapporto, delle pulsioni ossessive e possessive del maschio respinto (o non ancora respinto), del suo potenziale violento. In una parola: della sua pericolosità. Se la parte più consapevole della società si sforza di convincere le donne a non sottovalutare questi segnali – compresi gli stratagemmi per suscitare il senso di colpa – che senso ha che sia poi la giustizia, nella sentenza più attesa degli ultimi anni, a sminuirne l’importanza?

L’avvocato Gentile spiega bene cosa comporti, la mancata aggravante dello stalking per FilippoTuretta: «Penso che sia un arretramento culturale. In questi processi servirebbe un passo nuovo per l’autodeterminazione della donna, invece questo è un passo indietro. Anche rispetto a una giurisprudenza ormai consolidata ed evoluta. Quella che ci dice che anche se i contatti fra la vittima e il suo stalker non sono continui ma intermittenti, anche se ci sono delle pause nel loro rapporto, la persecuzione si configura comunque davanti a determinati comportamenti. Le centinaia di messaggi di Turetta, la sua attività iper-vigilante e assillante sono pacifiche. Fra l’altro, l’altalena emotiva, lo sminuire un pericolo o perdere un punto di vista lucido, sono fra le caratteristiche tipiche delle relazioni tossiche».

Insomma, perché all’assassino venisse riconosciuto anche lo stalking «non mancava nulla: il fatto che lei non avesse paura o che non ci fossero certificati medici attestanti la sua ansia, non significa niente. Anche la reciprocità non esclude gli atti persecutori. Quanti casi conclamati di stalking conosciamo in cui la donna resta nella relazione, cambia idea, fa un passo avanti e poi uno indietro…».

E poi c’è l’altra parola, quella «vecchia».

«Patriarcato», osò dire Elena Cecchettin dopo la morte della sorella: «Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato».

Ma cos’è, questo benedetto patriarcato che ancora fa alzare gli occhi al cielo a tanti uomini appena lo sentono nominare? Detto semplice, è il dominio che gli uomini continuano a esercitare, o a pretendere, nei rapporti sociali, familiari, aziendali. Per le donne, scrive Giusi Fasano, «la negazione della libertà e del potere di decidere di se stesse è stata mitigata nel tempo ma mai cancellata del tutto e il patriarcato che Elena ha tirato fuori dal cassetto ha fatto rumore per questo. Perché ha costretto la politica e la discussione pubblica a tornare a quel vecchio concetto».

Una parte della politica, specialmente, continua a diffidare di quella parola, a sentirla come un atto di accusa rivolto alla storia, alla cultura e alle tradizioni nazionali. Tende a considerare Turetta, il giovane maschio italiano benestante e beneducato, l’eccezione mostruosa, non il sintomo di una patologia diffusa. Non a caso, nei giorni scorsi, il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha scelto proprio la presentazione della fondazione intitolata a Giulia Cecchettin per dire che «il patriarcato non esiste più» e che «l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale». La patologia c’è ma viene da fuori, non siamo noi, non sono i nostri valori.

 

 

Anche allora Gino Cecchettin, che di quella parola non ha paura, e che della lotta al patriarcato, in nome delle figlie, ha fatto una missione, aveva reagito in modo esemplare. Anche allora, anziché polemizzare, aveva dialogato:

«Non è che se neghi una cosa questa non esiste. Il ministro ha parlato di soprusi, di violenze, di prevaricazione. È esattamente quello il patriarcato ed è tutto ciò che viene descritto nei manuali. È la parola, oggi, che mette paura: “patriarcato” spaventa più di “guerra”».

Oggi Cecchettin rivedrà Valditara e proverà a rispiegarglielo. Probabilmente con parole simili a quelle di Elena Tebano, sulla nostra Rassegna:

«Dobbiamo fare di più per cambiare la cultura che ha reso possibile quel delitto, che ha fatto sentire Turetta in diritto di controllare Giulia. È un lavoro lungo, da fare giorno per giorno, in famiglia, nelle scuole, sui luoghi di lavoro, in politica. Ci chiama in causa tutti».

Venezia, 03/12/2024 - Processo per l'omicidio di giulia cecchettin - il giorno della sentenza - gino cecchettin ©Marco Sabadin/Vision - processo cecchettin - l'uscita degli attori dall'aula del tribunale - fotografo: marco sabadinGino Cecchettin ieri all’uscita dal tribunale (Vision)

E poi, in questa newsletter: i tumulti improvvisi in Corea del Sud, la Francia in crisi, il primo sì alla riforma della giustizia, la sentenza sulla strage di Rigopiano e altre cose che può essere utile sapere e leggere oggi.

 

Benvenuti alla Prima Ora di mercoledì 4 dicembre.

 

Il quasi-golpe in Corea del Sud

South Korean martial law soldiers try to enter the National Assembly compound in Seoul, South Korea, Wednesday, Dec. 4, 2024. (Cho Sung-bong/Newsis via AP)Soldati cercano di entrare nell’Assemblea nazionale a Seul (Ap)

 

Siamo abituati a pensare a quel Paese come a un avamposto asiatico dell’Occidente. Anzi, nelle nostre vite sono bien trapiantati tanti pezzi di Corea, i Samsung in tasca, le serie tv alla Squid Game, i capolavori del cinema come Parasite, il K-Pop, e ultimo pure il Nobel alla scrittrice Han Kang. Per questo sembra surreale il colpo di Stato tentato dal presidente in carica. Punto per punto:

  • La legge marziale Yoon Suk Yeol, conservatore eletto nel 2022 con pochi voti di vantaggio, ha provato a imporla a tarda sera, con l’aiuto dell’esercito. Motivo: «Eliminare gli elementi antistatali che tramano una ribellione e vogliono rovesciare la democrazia» e «sradicare le forze che simpatizzano per i comunisti nordcoreani».

  • Lo stop alle libertà politiche Il generale Park, capo delle forze di terra, ha eseguito immediatamente l’ordine presidenziale dichiarando fuorilegge ogni attività politica e dimostrazione pubblica e chiudendo il Parlamento per «evitare confusione sociale».

  • La reazione dei partiti È stato lo stesso capo dei Conservatori Han Dong-hoon a opporsi al colpo di mano del suo collega di partito, invocando «l’aiuto del popolo» per bloccarlo. Il leader dell’opposizione liberale, Lee Jae-myung, vincitore delle ultime elezioni politiche in aprile, ha fatto appello ai cittadini di Seul perché si radunassero davanti al Parlamento in modo da «resistere al tradimento».

  • Il no dei deputati Racconta Guido Santevecchi: «Davanti alla sede dell’Assemblea nazionale la situazione si è fatta subito tesa: circa 190 dei 300 deputati sono arrivati per la seduta d’emergenza; fuori, cordoni di polizia e di soldati hanno cercato di forzare le porte del palazzo, ma sono stati fermati dalle barricate costituite dagli assistenti dei parlamentari e si sono trovati di fronte anche migliaia di cittadini di Seul. Dopo un breve dibattito, i 190 deputati presenti hanno votato all’unanimità il rigetto della legge marziale».

  • Il dietrofront del presidente A quel punto Yoon – che per l’opposizione non può  più essere considerato presidente – ha deciso di revocare la legge marziale appena dichiarata. Nonostante il generale Park avesse detto che avrebbe obbedito solo al presidente, il portavoce del Parlamento ha provato a minimizzare le responsabilità dei militari: un tentativo di sanare la pericolosa frattura tra democrazia ed esercito, a lungo cronica nel Paese ma che sembrava superata dagli anni ’80.

  • L’allarme degli americani La Casa Bianca ha espresso tutto il suo stupore: «Non eravamo informati di questo annuncio, siamo seriamente preoccupati, ci siamo messi in contatto con il governo di Seul». Per gli Usa è un colpo grave: in Corea del Sud hanno 28 mila soldatila presidiano da 70 anni, la considerano fondamentale, non meno del Giappone, per contrastare la minaccia nordcoreana e l’influenza cinese.

  • Ma che tipo è Yoon Suk Yeol? È la versione asiatica del populista reazionario, con venature autoritarie ora evidenti. Sempre più impopolare e colpito da scandali familiari, mal sopporta un’opposizione divenuta maggioranza nel Paese e non accusabile seriamente di intelligenza col nemico a Nord. È ultraconservatore e antifemminista: per lui l’emancipazione delle donne è la causa della drammatica denatalità sudcoreana.

  • E ora che succede? All’improvviso sembra venire meno un perno della stabilità mondiale, e il primo a rallegrarsene è il dittatore nordcoreano armato di atomiche, sottolinea Guido: «Da molti mesi Kim ha ripreso i suoi preparativi per soggiogare la Sud Corea. E la destabilizzazione politica di Seul, la ferita inferta dal suo stesso capo di Stato a una democrazia che davamo per pienamente matura potrebbe ispirare al dittatore nordista qualche mossa azzardata».

Le altre cose importanti

TOPSHOT - France's Prime Minister Michel Barnier (C) is seen on monitors as he delivers remarks during a televised interview by news anchors Gilles Bouleau (L) and Anne-Sophie Lapix (R), broadcasted on the evening news on French TV channels TF1 and France 2, at Hotel Matignon in Paris, on December 3, 2024. France is headed into a new political crisis on December 3, 2024, as opposition lawmakers vowed to topple the minority government of Prime Minister Michel Barnier in a no-confidence vote after just three months in office. A standoff over an austerity budget follows months of tension since President Emmanuel Macron appointed the 73-year-old in September. (Photo by JULIEN DE ROSA / AFP)Il premier francese Michel Barnier ieri sera in tv (Afp)

La crisi in Francia 

L’appuntamento è alle 8 di stasera: a quell’ora l’Assemblea nazionale voterà la mozione di sfiducia presentata dalla sinistra contro il governo di Michel Barnier, nato solo tre mesi fa. Con ogni probabilità, la destra lepenista, che finora lo ha tenuto in piedi, stavolta lo farà cadere. Le parole di Marine Le Pen non lasciano infatti molti dubbi: «I francesi speravano in una nuova visione, ma inscrivendo la sua legge di bilancio nella continuità catastrofica di Emmanuel Macron, il primo ministro non poteva che fallire».

il presidente cosa dice? Macron respinge la pressione delle due estreme perché si dimetta: «Non ha senso lasciare prima del 2027. Sono stato eletto per due volte dal popolo francese. Ne sono estremamente fiero e onorerò la fiducia che mi è stata data con tutta l’energia che ho a disposizione, fino all’ultimo istante». Dopodiché, ha fatto appello alla «coerenza» dei deputati contro il «cinismo» della destra che vota con la sinistra. Toni più accorati da parte del premier, apparso ieri sera sulle due reti tv principali: «Oltre 18 milioni di francesi vedranno le loro tasse aumentare, se il governo cade senza che sia stata approvata la mia legge di bilancio».

Ma come si è arrivati a tanto? La crisi, ricorda Stefano Montefiori, si trascina ormai dalla rielezione di Macron, nel 2022: i premier da lui nominati, prima Elisabeth Borne e poi Gabriel Attal, hanno governato senza maggioranza e a colpi di decreti. Fino alle elezioni europee del giugno scorso, con la grande avanzata dei lepenisti. Macron ha provato a sparigliare con una decisione-choc: Parlamento sciolto e immediate elezioni politiche. Il successo lepenista al primo turno è stato neuatralizzato ai ballottaggi dagli accordi tra sinistra e macroniani, ma ne è uscito un Parlamento ancora senza maggioranza, con Le Pen padrona del destino di Barnier. Fino a stasera.

Cosa vuol dire per l’Europa? Vuol dire che a Parigi si avvicina una Bastiglia nera, con i lepenisti mai così vicini al potere. Sarebbe la prova della verità anche per il governo Meloni: approfondire l’intesa europeista con i democristiani tedeschi, o tornare su posizioni euroscettiche al fianco di Madame Le Pen?

Giustizia sì, autonomia no

Ieri ha fatto un passo in avanti la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, con il primo sì alla Commissione Affari costituzionali della Camera: il 9 dicembre comincia la discussione in Aula. Nelle stesse ore, la Corte Costituzionale ha reso note le motivazioni della sentenza con cui due settimane fa ha accolto in gran parte il ricorso di quattro regioni contro l’autonomia differenziata.

Sui territori servono prestazioni uniformi che garantiscano pari diritti e pari servizi a tutti i cittadini, ribadisce la Corte, e certe materie – scuola, energia, ambiente, commercio estero – non spettano alle Regioni. Quanto al referendum abrogativo, sarà la Cassazione a stabilire se a questo punto è superato. Di certo, nonostante i tentativi leghisti di salvare il salvabile della riforma cara soltanto a loro, la legge Calderoli appare piuttosto picconata.

 

 

Scrive Massimo Franco: «L’impressione è che l’unica riforma della maggioranza destinata a andare avanti più o meno nei tempi previsti potrebbe essere quella della giustizia». Con il premierato congelato almeno fino all’anno prossimo, sull’autonomia «si profila una lunga finzione di dialogo: una finzione soprattutto all’interno della stessa maggioranza». Dove né forzisti né fratellisti si sognano di consentire un decentramento così spinto come quello che vorrebbero i leghisti.

La crisi Stellantis

Per la terza volta, il presidente del gruppo automobilistico John Elkannha rifiutato l’invito a confrontarsi con i membri della Commissione Attività produttive della Camera. Elkann preferisce aspettare il tavolo sull’automotive convocato il 17 dicembre al Ministero delle Imprese con sindacati e componentisti. Il governo però, scrive Andrea Rinaldi, «un segnale intanto lo ha dato: l’arrivo di nuovi incentivi per l’automotive nella Finanziaria. Non bonus per l’acquisto di vetture, questa volta, ma circa 400 milioni di euro a sostegno delle imprese della filiera, che andrebbero ad aggiungersi al fondo per l’auto; per altro già decurtato di 4,6 miliardi».

Quanto alla presunta maxi-buonuscita da 100 milioni per l’ad Carlos Tavares, Stellantis parla di «cifre fantasiose». E per la successioni emerge il nome di Luca Maestri.

Intanto, nonostante la reiterata richiesta del governo italiano, la Commissione europea ribadisce che non ci sarà nessun ripensamento sullo stop ai motori diesel e benzina in programma dal 2035: «Non è una cosa che stiamo prendendo in considerazione e direi che non è una cosa che praticamente nessuno sta prendendo in considerazione», ha detto l’eurocommissaria Teresa Ribera. Semmai, Bruxelles starebbe pensando a un congelamento delle multe alle case automobilistiche e all’introduzione di carburanti alternativi.

Rigopiano, nuovo processo

Riparte quasi da zero la vicenda giudiziaria relativa al disastro del 18 gennaio 2017, quando una valanga di neve travolse l’Hotel Rigopiano a Farindola, in provincia di Pescara, uccidendo 29 persone.

Riepiloga Ilaria Sacchettoni: «Processo bis a Perugia per il sindaco e i dirigenti regionali coinvolti nella strage di Rigopiano. Così hanno stabilito i giudici della sesta sezione penale della Cassazione riformando la sentenza di secondo grado. Per tutti eccetto che per il prefetto Francesco Provolo condannato in via definitiva a un anno e otto mesi le condanne degli altri saranno da ricalcolare». Soddisfatti i parenti delle vittime.

Da leggere/ascoltare

  • L’editoriale di Paolo Valentino: «Effetto Putin nell’Est Europa».

  • La rubricaFrammenti di Ferruccio de Bortoli: «Giustizia universale, quello che l’Italia si è dimenticata di fare».

  • La recensione del Mereghetti sul film di Pedro Almodovar sull’eutanasia, La stanza accanto: in sintesi, «un capolavoro» e 5 stelle 5.

  • Il podcast Giorno per giorno, con Giovanni Viafora sul processo Turetta, Emanuele Buzzi sulle nuove schermaglie Grillo-Conte e Alessia Conzonato sulla partenza di IT Wallet, il nuovo portafoglio digitale aperto a tutti i cittadini italiani maggiorenni: potete ascoltarli qui.


Il Caffè di Gramellini

Il nostro comune amico

«Silvio Orlando ha interrotto per qualche minuto il suo spettacolo teatrale a Bologna, dopo che il ronzio e l’illuminarsi di un cellulare avevano sporcato il silenzio e il buio della sala in un momento culminante. Lo ha fatto quasi scusandosi per l’ardire, com’è costume di questo attore mite e gentile, quindi deliziosamente fuori moda. Ma non aspettatevi che io aderisca a una romantica crociata contro l’onnipresenza telefonica invocando sanzioni o precauzioni obbligatorie, quale sarebbe quella di consegnare l’ordigno tascabile all’ingresso come si fa con i cappotti. Siamo realisti, e soprattutto sinceri. L’esigenza di rimanere perennemente accesi, così da illudersi di controllare i movimenti dei parenti stretti e le notizie del mondo intero, non l’ha certo inventata il telefonino. Semmai è il telefonino che è stato inventato per poterla finalmente soddisfare. Dirselo non migliora le cose, ma almeno sgombra il campo dalla retorica dei “si dovrebbe” e dalla nostalgia per un tempo di connessioni saltuarie che, se tornasse, dopo un’iniziale euforia getterebbe la maggioranza degli umani nello sconforto.

Accettare il cambiamento non significa rassegnarvisi, ma averne consapevolezza. Nessuno è più capace di concentrarsi in esclusiva su un libro, uno spettacolo, una conversazione di lavoro o di piacere. Prenderne coscienza è il primo passo per imparare ad autoregolarsi. (Ho scritto questo Caffè fermandomi solo due volte a controllare i messaggi: ditemi se non è già una piccola impresa)».

Grazie per aver letto Prima Ora, e buon mercoledì.

(gmercuri@rcs.itlangelini@rcs.itetebano@rcs.itatrocino@rcs.it)

 

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martedì 03 dicembre 2024
Le parole di Cecchettin, auto no grazie, l’economia della Russia, le spose dell’Isis oggi, il cielo grigio della Bielorussia
Gino Cecchettin, ieri fuori dalla Corte d’assise di Venezia. ieri.
editorialista di Elena Tebano
 

Bentrovati. Nella Rassegna di oggi:

Le parole di Cecchettin Filippo Turetta è stato condannato all’ergastolo per il femminicidio di Giulia Cecchettin. Il padre di lei, ancora una volta, ha detto la cosa giusta, mostrando anche nei fatti come si supera la cultura della violenza maschile.

Auto, no grazie Le ragioni della crisi del mercato dell’auto (Stellantis a pienissimo titolo inclusa) sono tante. Una forse poco indagata è la disaffezione per le quattro ruote dei ventenni della Gen Z. Ce ne parla Luca.

Il dilemma di Putin Dopo oltre 2 anni di conflitto in Ucraina e di sanzioni, l’economia russa inizia ad accusare l’inflazione. E per il presidente-padrone della Russia, spiega Federico Fubini, è venuto il momento di una scelta difficile tra stagflazione o iperinflazione.

Le spose dell’Isis Nel nord-est della Siria ci sono oltre quarantamila persone di circa quaranta nazionalità diverse ancora detenute nel campo di Al-Hol. Sono le vedove (e i figli) di combattenti dell’Isis morti o imprigionati. Vivono in condizioni di violenza, la loro unica speranza di fuga è essere vendute come schiave e sono state dimenticate dal mondo. Con il riaccendersi della guerra siriana, scrive Massimo Nava, il loro destino è ancora più precario.

La Cinebussola Paolo Baldini recensisce Under The Grey Sky della polacca Mara Tamkovich, sulla storia vera della giornalista Katsiaryna Andreyeva e della sua operatrice Darya Chultsova, imprigionate in Bielorussia per non essersi piegate alla censura del dittatore filo-putiniano Aleksander Lukashenko.

Buona lettura! 

Se vi va, scriveteci: Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it; Luca Angelini langelini@rcs.it; Elena Tebano etebano@rcs.it; Alessandro Trocino atrocino@rcs.it

La 27esima Ora

Ancora una volta Gino Cecchettin ha detto la cosa giusta

editorialista

Elena Tebano

«Abbiamo perso tutti come società. Nessuno mi ridarà indietro Giulia, non sono né più sollevato né più triste rispetto a ieri. È chiaro che è stata fatta giustizia, ma dovremmo fare di più come esseri umani, la violenza di genere va combattuta con la prevenzione, non con le pene. Come essere umano mi sento sconfitto, come papà non è cambiato niente rispetto a ieri o a un anno fa».

 

 

Ancora una volta Gino Cecchettin ha detto la cosa giusta in un momento impossibile. E ha dato una lezione di civiltà a tutti.

Dopo che la Corte d’assise di Venezia ha condannato Filippo Turetta all’ergastolo per il femminicidio dell’ex fidanzata Giulia Cecchettin, avvenuto l’11 novembre 2023 a Fossò, in provincia di Venezia, il padre di Giulia, Gino, ha pronunciato parole che poche persone sarebbero state in grado di dire. Ma che danno il senso profondo sia dei limiti della giustizia umana, sia del lavoro che tutti, collettivamente e come società, dobbiamo ancora fare contro la violenza sulle donne. Oggi più che mai.

 

 

Cecchettin non è entrato nel merito della sentenza di primo grado, che ha escluso le aggravanti della crudeltà e dello stalking, ma ha condannato Turetta al carcere a vita per omicidio aggravato dalla premeditazione, sequestro di persona e occultamento di cadavere. È una sentenza che farà discutere, visto che Turetta si è accanito con 75 coltellate sul corpo di Giulia (senza dubbio una forma di crudeltà). E visto quello che è emerso durante il processo: «La sua azione manipolatoria» e le decine di messaggi al giorno e videochiamate per sapere dove si trovava, con chi era, o se era andata a dormire, per i quali la Procura aveva chiesto la condanna anche per il reato di stalking.

Saranno aspetti che verranno discussi nei prossimi gradi di giudizio, se Turetta farà appello contro la sentenza, come c’è da aspettarsi. Ma rimane la verità di ciò che ha detto oggi Gino Cecchettin fuori dall’aula del tribunale. La violenza di Turetta ha tolto la vita a una ragazza di 22 anni, che aveva tutto il futuro davanti. Ha travolto quella dei familiari di lei. Turetta, che non ha ancora compiuto 23 anni, dovrà passare gran parte della sua vita in carcere. Anche la vita dei suoi familiari è stata dirottata per sempre.

 

Meritava una condanna dura per le sue azioni. Ma questo non riporterà in vita Giulia. È il limite della giustizia penale: può intervenire solo quando il crimine è stato commesso. Ma il fatto che un ragazzo di buona famiglia di 23 anni abbia potuto compiere un femmincidio come quello di Giulia è una sconfitta per tutti. Dobbiamo fare di più per cambiare la cultura che ha reso possibile quel delitto, che ha fatto sentire Turetta in diritto di controllare Giulia. È un lavoro lungo, da fare giorno per giorno, in famiglia, nelle scuole, sui luoghi di lavoro, in politica. Ci chiama in causa tutti.

Quando Giulia, prima di essere uccisa, ha scritto i motivi per cui aveva lasciato Turetta ne ha annotato uno che adesso spicca in modo particolare: «Ha idee strane riguardo al farsi giustizia da soli per i tradimenti, alla tortura, robe così». In quella voglia di farsi giustizia da solo c’era la stessa pretesa di poter esercitare a piacimento la violenza sugli altri che l’ha portato a uccidere Giulia. Per questo le parole di Gino Cecchettin sono importanti: nel ribadire che quello che conta è la prevenzione, nel dire no a ogni forma di vendetta, Cecchettin sta indicando ancora una volta una strada oltre la violenza. È una lezione per tutti.

 

Rassegna socio-economica

E se per capire il futuro dell’auto bisognasse guardare alla Gen Z?

editorialista

Luca Angelini

Ha scritto Daniele Manca, nel suo editoriale sulla crisi di Stellantis e del mercato dell’auto, che da parte dei grandi gruppi sono state «ignorate le nuove generazioni che sembrano non considerare più l’acquisto di un’auto come il passaggio all’età adulta. E così quando il mercato inizia a cambiare, il settore sembra impreparato». È un tema sul quale torna Claudio Cerasa, direttore del Foglio.

 

 

«La crisi del settore dell’automotive – scrive Cerasa, il cui quotidiano è da sempre piuttosto «tiepido» sulla lotta ai cambiamenti climatici – nasce anche per ragioni ideologiche, per conseguenze cioè legate agli effetti di lungo termine generati dalla lenta e inesorabile demonizzazione dell’auto. Non è solo, come si dice, un tema legato alla fine dell’automobile come status symbol, della fine di quella stagione magica durante la quale ottenere una patente di guida era un rito di passaggio verso l’età adulta. Il tema è più sottile e riguarda gli effetti di lungo termine della trasformazione dell’auto nel simbolo nocivo di tutto ciò che rappresenta la modernità e dunque il capitalismo. L’auto inquina, l’auto uccide, l’auto ingombra, l’auto disturba, l’auto è pericolosa, l’auto è un peso, l’auto è contro l’ambiente, l’auto è un pericolo per la nostra vita, l’auto è un pericolo per le nostre città, l’auto non deve andare in centro, l’auto deve essere tassata di più, l’auto è un intralcio al tentativo dei politici più genuini di restituire la città ai propri abitanti, come ha avuto modo di dire la sindaca verde di Parigi Anne Hidalgo».

Viene quasi da dare una ragione postuma, a oltre trent’anni di distanza, a Colin Ward, giornalista e architetto anarchico di cui, nel 1992, quando i ventenni di oggi ancora dovevano nascere, Elèuthera pubblicò il pamphlet Dopo l’automobile. «Riusciremo, nel XXI secolo, a sfuggire all’era automobilistica del XX? – si chiedeva Ward -. L’automobile vi si è insinuata come giocattolo da ricchi, condannata dalla gente normale come un’arma letale sguinzagliata per le strade. Man mano che il secolo procedeva, è stata considerata sempre più una necessità per tutte le famiglie, distruggendo l’economicità di altre forme di traffico, trasformando l’ambiente e facendo sì che le sue vittime fra gli altri utenti della strada venissero considerate responsabili della propria stessa vulnerabilità. Grosse industrie sono sorte per soddisfare le sue esigenze. Le idee della gente possono cambiare, mentre invece è difficilissimo cambiarne le abitudini. Eppure, milioni di decisioni individuali hanno portato al nostro asservimento alla macchina. Riusciranno milioni di libere scelte a liberarcene?».

 

 

L’annuncio di una morte dell’automobile resta, ancora oggi, largamente esagerato, come direbbe Mark Twain. Però, anche se una cantante molto amata dai ventenni, Olivia Rodrigo, qualche anno fa ha intitolato Drivers license il suo singolo di debutto, a quel che scrive Cerasa, citando in parte dati che aveva già riportato qualche tempo fa l’Economist, i post-Millennials della Gen Z (convenzionalmente, i nati fra la fine degli anni Novanta e il primo decennio del Duemila) quei «milioni di libere scelte» contro l’automobile le starebbero facendo. «Nel 1997, il 43 per cento dei sedicenni statunitensi possedeva una patente di guida, nel 2020, questa percentuale è scesa al 25 per cento. Nel 1983, solo un americano su dodici, tra i 20 e i 24 anni non aveva la patente, mentre nel 2020 questa proporzione è arrivata a uno su cinque. Negli ultimi vent’anni, la percentuale di adolescenti britannici con patente è scesa dal 41 per cento al 21 per cento. Dal 2011 al 2021, il numero di auto intestate a giovani sotto i 25 anni in Italia è diminuito del 43 per cento, passando da oltre un milione a 590 mila unità. E infine: tra il 1990 e il 2017 la distanza percorsa dai conducenti adolescenti negli Stati Uniti è diminuita del 35 per cento e quella dei conducenti di età compresa tra i venti e i 34 anni è scesa del 18 per cento».

Quanto ai possibili motivi del «totale, progressivo e clamoroso disinteresse per le auto delle nuove generazioni», Cerasa scrive: «C’entra probabilmente il fatto che la tecnologia, rendendo facile fare acquisti online o guardare film in streaming a casa, ha reso meno impellenti di un tempo, nei grandi centri abitati, le ragioni per prendere l’auto per spostarsi. C’entra probabilmente anche un pizzico di ideologia, e le generazioni più sensibili alla sostenibilità non potendosi permettere un’auto elettrica potrebbero avere un senso di colpa in più a possedere una macchina più inquinante, ma queste sono solo supposizioni. Probabilmente, piuttosto, in questo caso c’entra molto anche la possibilità di avere alternative in città, all’utilizzo delle macchine, car sharing, bike sharing, mezzi pubblici, e alternative maggiori anche per spostarsi da una città all’altra, treno, pullman, aerei, pazienza se inquinanti».

 

 

Va detto che non tutte le analisi concordano. A fine agosto, su Newsweek, Suzanne Blake scriveva che la Gen Z sta in realtà trainando, dopo la pandemia, un boom del ritorno all’auto. «Secondo il sondaggio sulla mobilità “On the Move” di Enterprise Mobility – riportava Blake – il 47%, degli appartenenti alla Gen Z ha dichiarato di guidare anche più di cinque anni fa. Anche i Millennial stanno contribuendo alla tendenza, con il 41% che dice di aver guidato più di cinque anni fa, prima che la pandemia colpisse». Michael Ryan, esperto di finanza e fondatore di michaelryanmoney.com, ha detto a Newsweek che «dopo anni passati a fare affidamento su Uber e Lyft, molti stanno ora scoprendo che possedere un’auto è più conveniente per i loro stili di vita in evoluzione. Molti preferiscono la flessibilità e la sicurezza percepita dei veicoli personali». Ryan si diceva anche fiducioso sul fatto che, a mano a mano che i giovani americani usciranno dalla trappola del debito scolastico (il macigno dei costi esorbitanti dell’istruzione universitaria), torneranno a comprare auto.

Anche Daniel Knowles, autore di Carmageddon: How Cars Make Life Worse and What To Do About It, citato da Anya Jaremko-Greenwold su The Week, pensa che sia più che altro una questione di tempo, come dimostrerebbe il precedente dei Millennials, almeno negli Stati Uniti: quando cominciano a guadagnare si spostano a vivere nei sobborghi, e l’auto diventa indispensabile. «La presa di distanza dalle auto – dice Knowles – è un po’ come quella dallo sposarsi e dal fare figli. Le persone aspettano molto più a lungo, ma sono cose che, alla fine, stanno ancora facendo».

 

 

Un ottimismo non condiviso da tutti. E difficile da condividere in Italia, unico Paese Ue in cui i salari reali sono diminuiti rispetto al 1990. Cerasa, infatti, è di tutt’altra idea rispetto a Ryan: «L’unica auto sostenibile per le tasche di chi non può permettersi di spendere 30 mila euro per un’auto non a motore a scoppio è un’auto figlia a sua volta di un’altra demonizzazione: quelle cinesi, uniche auto ormai a prezzi accessibili (…). Gli automobilisti del futuro, per ragioni insieme pratiche e ideologiche, hanno perso interesse per le auto, hanno di fronte a sé auto che non possono permettersi, hanno alternative infinite per i propri riti di passaggio all’età adulta e non ci vuole molto a capire di fronte alla parabola di Tavares qual è il dito e qual è la luna. Il dito è Stellantis. La luna è un mondo che cambia e che in troppi vogliono provare a cambiare senza fermarsi un attimo per provare a capirlo».

Conclusione non molto distante da quel che scrive Manca: «Il passaggio è epocale. Discende da quei mutamenti di mercato, dalle transizioni digitale e ambientale, dalle discontinuità tecnologiche che hanno velocità imprevedibili e che stanno mettendo a dura prova tutte le maggiori case. (…) Non si trattava di sostituire un propulsore con un altro di diverso tipo. E non necessariamente elettrico. Ma anche avere a bordo tecnologie, modalità di utilizzo diverse. Come dimostra l’accelerazione del noleggio».

 

 

Certo, Carlos Tavares ci ha messo del suo. Come scrive Paolo Bricco sul Sole 24 Ore, il suo è «un fallimento doppio: di merito e di metodo. Tavares ha fallito nel merito. Ha dilapidato le doti che due vecchie signore come Peugeot e Fiat avevano portato al loro matrimonio in età matura. Una base non irrilevante di cultura e di tecnologia dell’elettrico la componente francese. Il Nord America la componente italiana. Il Nord America è, nella realtà e ancora di più nell’ombra del futuro, un disastro nei volumi e nella redditività. L’auspicio di un atterraggio morbido nell’elettrico rischia di essere una caduta clamorosa. Tavares ha fallito nel metodo. Perché il suo stile di “spremitore” di fabbriche, di tagliatore di costi, di riduttore dei tempi per arrivare dall’idea di un’auto alla sua messa in strada non ha funzionato: le fabbriche sono semivuote, la rete vendita è a disagio (in Europa) e in rivolta (negli Stati Uniti), i nuovi modelli non esistono. (…) Tavares è un ingegnere. È partito dai prodotti e dalle fabbriche. Ma il problema è come ha interpretato tutta questa dimensione manifatturiera e organizzativa. Tutti lo sapevano, quando nella fusione fra Fca e Psa ha prevalso la componente francese nei concambi, nella composizione del Cda, nelle scelte strategiche e negli equilibri di potere. Il capoazienda indiscusso sarebbe stato lui, con il suo profilo di ingegnere anomalo: né dedito alle tecnologie né innamorato delle fabbriche, ma concentrato sulla loro trasformazione in numeri e conti, indici e report finanziari. Non ha funzionato. L’ingegnere dei numeri ha fallito».

Ma è difficile dare torto a Manca quando, come Cerasa, pronostica che «servirà molto di più che un nome da indicare al posto di quello di Tavares».

 

Rassegna economica
Russia, cosa succede all’economia e perché Putin è tra due fuochi (e dovrà decidere)
editorialista
Federico Fubini
putin

 

In Russia discutere le scelte del potere è pericoloso e tutte le scelte più importanti sono nelle mani di un comitato informale di tre ultrasettantenni. Il primo è Vladimir Putin, il presidente. Gli altri sono Alexander Bortnikov e Nikolai Patrushev, i suoi vecchi compagni del Kgb di quattro decenni fa. Eppure c’è un’area in cui il conflitto fra strutture dello Stato e gruppi d’interesse è ormai alla luce del sole. In gioco c’è un fattore decisivo per la capacità della Russia di continuare ad aggredire l’Ucraina: l’inflazione, che sta sfuggendo di mano e mette Putin improvvisamente fra due fuochi.

Stagflazione o iperinflazione?
Quanto a questo, le opzioni per il dittatore sono poche e per niente invidiabili. Putin deve scegliere e il tempo stringe. Da un lato ha davanti la strada della stagflazione, con l’economia che rallenta mentre i rincari continuano; dall’altro quella di un’iperinflazione in cui la corsa dei prezzi finisce fuori controllo. Putin deve compiere un arbitraggio fra i grandi oligarchi dell’acciaio e delle armi che alimentano la sua guerra – uomini come Alexei Mordashov di Severstal o Sergei Chemezov di Rostec – e la governatrice della Banca di Russia Elvira Nabiullina. I primi si stanno arricchendo grazie alle forniture militari e vogliono continuare a farlo, senza restare schiacciati dai debiti. La seconda cerca di alzare il costo degli investimenti e frenare l’economia per non perdere del tutto il controllo del carovita. I due fronti sono ormai in conflitto aperto, ma in mezzo non c’è solo Putin. C’è soprattutto un Paese in cui il burro costa il 30% o il 40% più che all’inizio della guerra, milioni di persone non possono più permetterselo e gli scassinatori sfondano i vetri delle latterie a notte fonda per saccheggiarlo.

La minaccia
Che l’inflazione minacci la Russia non è più solo un sospetto degli avversari in Occidente. È una realtà ammessa apertamente. A metà novembre il tasso annuale ufficiale era dell’8,56%, con aumenti mensili simili a quelli annuali registrati in Italia per gran parte del 2024. Il ritmo effettivo degli aumenti dei prezzi potrebbe essere in realtà anche superiore, perché Nabiullina ha alzato i tassi d’interesse al 16% in luglio e perfino al 21% a novembre.
Gli ultimi verbali del consiglio della Banca di Russia indicano, per chi li sa leggere, che i prezzi stanno accelerando per colpa della guerra e per effetto delle sanzioni. Dicono anche che l’economia si sta fermando ma Nabiullina intende continuare ad alzare i tassi d’interesse, benché già a livello astronomico.

Rallenta l’economia
Si legge nei verbali: «La domanda elevata, non sostenuta da un adeguato aumento della produzione, è il principale fattore inflazionista. L’aumento inatteso della spesa nel bilancio federale di 1.500 miliardi di rubli (13,4 miliardi di euro, ndr) nel quarto trimestre è un altro significativo fattore inflazionista». E ancora: «L’economia sta rallentando in modo notevole. La carenza di lavoratori è ai suoi massimi da sempre ed è un fattore importante che limita la produzione». Infine: «Evitare l’aumento dei tassi a dicembre sarà possibile solo se se si verifica un significativo rallentamento dell’inflazione, ma per ora non ce ne sono i presupposti».

Offerta di lavoro esaurita
In altri termini il massiccio reclutamento di uomini per il fronte ucraino e la fuga dalla Russia di poco meno di un milione di lavoratori specializzati hanno del tutto esaurito l’offerta di lavoro. La produzione non può più crescere, perché non si trovano addetti. Intanto il continuo aumento della spesa militare per aumentare la fabbricazione di armi e l’impatto delle sanzioni sulle forniture hanno tutti lo stesso effetto: stanno mandano i prezzi in orbita, perché mancano risorse mentre tutta l’economia è condizionata dallo sforzo di guerra. Così dice Nabiullina, la governatrice. Che il carovita continui a correre persino con i tassi al 21% e l’economia ufficialmente in frenata indica che il Paese sarebbe travolto dall’iperinflazione, se la banca centrale allentasse la presa.

Il rischio di una frenata economica
Eppure questo è ciò che i grandi oligarchi dell’apparato militare-industriale reclamano. Uno dopo l’altro, tutti attaccano Nabiullina e chiedono a Putin di riportare la banca centrale sotto il controllo del governo. In ottobre Chemezov di Rostec, il produttore dell’80% delle armi usate in Ucraina, ha dichiarato al Consiglio federale che le politiche di Nabiullina minacciano di far fallire gran parte delle imprese dell’apparato militare. Miliardari dell’alluminio e dell’acciaio Oleg Deripaska e Sergei Mordashev di recente l’hanno attaccata in pubblico. Infine, il «Centro russo di analisi macroeconomica e previsione di breve termine» ha accusato la banca centrale di provocare il rischio di una frenata dell’economia e «di un collasso degli investimenti nel futuro prossimo». È stato l’attacco più feroce, perché quel centro studi è parte del sistema: fondato dall’attuale ministro della Difesa Andrei Belousov, è guidato oggi da suo fratello Dmitri.

Le opzioni rimaste
In sostanza, l’apparato militare-industriale sta chiedendo a Putin la testa di Nabiullina. Ma se Nabiullina salta e i tassi d’interesse scendono, la Russia rischia di avvitarsi in un’inflazione venezuelana provocata dalla guerra voluta da Putin stesso e alimentata dall’apparato militare-industriale.
Le opzioni a disposizione sono sempre di meno e tutte poco appetibili.

Per ora il presidente tace, prendendo tempo. Eppure di tempo ne ha sempre di meno, mentre il rublo crolla persino sullo yuan rendendo più care le importazioni anche dalla Cina. La Russia per ora regge e continua la sua aggressione all’Ucraina. Le vendite di petrolio a Cina, India, Turchia, Malesia o Indonesia garantiscono il suo finanziamento. Ma non tutto va nel migliore dei modi possibili, nel sogno imperiale del dittatore del Cremlino.

 

Rassegna geopolitica

Donne e bambini, i prigionieri del Califfato

editorialista

Massimo Nava

Molte cose oscure succedono ai margini del caos siriano. Nel campo di Al-Hol, nel nord-est della Siria sopravvivono in una prigione e cielo aperto alcune migliaia di donne e bambini. Le donne possono essere «esportate» a pagamento come schiave, vittime di matrimoni per procura, unica possibilità di fuga e ritorno alla vita. I bambini rimangono abbandonati, a volte «esportati», altri «educati» per diventare guerriglieri. È la generazione post Daesh  (l’acronimo arabo di Isis), come l’hanno raccontata un documentarista libanese e un cronista turco che sono riusciti ad avere contatti con i carcerieri, boss senza scrupoli che moltiplicano i profitti al servizio dell’islamismo radicale e soprattutto di se stessi.

 

Quella del Califfato, prodotto delle guerre del Golfo, è una delle tante tragedie dimenticate che andrebbero riportate all’attualità. Non solo per attenzione e solidarietà con le vittime, ma anche perché è un permanente serbatoio di tensione e nuovi militanti.

 

Il campo di detenzione di Al-Hol, sorvegliato dai curdi nel nord-est della Siria, ospita più di mille bambini i cui genitori si sono uniti alle file di Daesh. Completamente abbandonati, potrebbero diventare i terroristi di domani. Il sito libanese Daraj – ripreso dal Courrier International – ha lanciato l’allarme.

I bambini sono accuditi da donne e dalle loro madri, molte delle quali erano militanti nello Stato Islamico. La maggior parte ha perso il padre, morto sul campo di battaglia o in prigione. Difficile immaginare un futuro per loro, se non rappresentare una nuova generazione erede delle tragedie precedenti. Nelle prigioni sono confinati i padri jihadisti sopravvissuti, sorvegliati dai combattenti curdi, che a loro volta corrono il rischio di una nuova offensiva turca dopo essere stati abbandonati al loro destino. Nessuno può avere un accesso agevole al campo, come conferma il Comitato Internazionale della Croce Rossa.

Non si tratta di un’esclusiva nella martoriata Siria, anche se la geografia siriana e la caduta di Aleppo di questi giorni aggravano ancora di più il caos. Il campo – riporta il Courrier International – ospita cittadini di oltre sessanta Paesi, la metà circa siriani. Ci sono iracheni, tunisini, europei arruolati a suo tempo e persino comoriani. Nessuno sembra preoccupato di recuperare questi cittadini che avevano deciso di andare a combattere in Iraq e Siria. La Francia avrebbe chiesto che i suoi «espatriati» siano consegnati alla giustizia in Siria, lo stesso Paese in cui hanno commesso i loro crimini! In Libano, ci sono organizzazioni che ricattano i genitori dei detenuti offrendo una speranza di recupero.

«Dire che queste persone meritano il loro destino è una semplificazione, ben lontana dalla verità». «Alcuni lo meritano, altri sono stati mandati lì dai loro governi. Alcuni continuano a creare cellule terroristiche, altri sono vittime di mariti, padri o fratelli». Secondo fonti raccolte da Daraj, alcune donne sarebbero state obbligate da vedove dello Stato Islamico a sposare adolescenti per ingrossare i ranghi dell’organizzazione.

Un giornalista turco, Hale Gönültaş, spesso minacciato di morte dall’organizzazione terroristica, ha indagato sulle reti di fuga delle donne jihadiste detenute in Siria e inviate in diversi Paesi, soprattutto in Europa. Quando lo Stato Islamico è stato sconfitto dalle Forze Democratiche Siriane (Fds, prevalentemente curde e vicine al gruppo di guerriglieri curdi della Turchia, il Pkk), migliaia di jihadisti e le loro famiglie sono stati fatti prigionieri. Gli uomini sono stati rinchiusi in diverse prigioni, mentre le famiglie, le donne e i bambini sono stati radunati nel campo di Al-Hol, ai confini del Paese.

 

 

Secondo gli ultimi dati, oltre quarantamila fra donne e bambini di una quarantina nazionalità diverse sono ancora detenuti in questo campo. Una parte dei detenuti proviene da Paesi occidentali, ma i Paesi in questione di solito rifiutano di riprendere i loro cittadini per processarli.

 

 

«Ho visitato questo campo due volte – scrive Hale Gönültaş – Le regole interne sono stabilite dalle donne più anziane e radicali, che mantengono un ordine spietato. Il semplice fatto che una donna annuisca o dondoli mentre ascolta la musica, ad esempio, è motivo di violenza fisica da parte delle altre detenute jihadiste. I bambini nati in questa zona di guerra, privati dei diritti all’istruzione e alla salute, crescono in questa atmosfera di violenza».

 

L’unico modo di venirne fuori sarebbe combinare un matrimonio via cellulare e social network, l’arma tecnologica che disinnesca anche l’oscurantismo medievale. I jihadisti con cui formano queste unioni si trovano in Turchia e in varie città europee. Non si tratta di una politica sostenuta dallo Stato Islamico, ma di iniziative delle detenute per uscire dall’inferno. I promessi sposi pagherebbero la rete clandestina per ottenere il rilancio. Qualcuno afferma di «volersi prendere cura di un orfano per ottenere il paradiso».

 

 

«Per ottenere il rilascio della futura moglie e talvolta dei suoi figli, passano attraverso le reti legate ai nuovi padroni di Aleppo, l’Hayat Tahrir Al-Cham (Hts, il gruppo islamista che si è scisso da Al-Qaeda, ndr) – che domina la provincia di Idlib, nel nord-ovest della Siria – e si occupa di organizzare le fughe». Le donne sono fatte uscire dal campo e portate in Turchia attraversando la frontiera nei pressi di Idlib. Se futuri mariti vivono in Europa, l’Hts  organizza l’uscita clandestina dalla Turchia. «Pur provenendo dalla stessa matrice ideologica jihadista, l’Hts e il Daesh sono in conflitto armato da molti anni, ma sembra esserci una sorta di patto di non aggressione tra le due organizzazioni per quanto riguarda la fuga delle detenute». Business is business.

 

 

Le donne, i cui mariti sono morti o imprigionati, usano un account sui social network. Raccontano la loro storia e chiedono un sostegno finanziario, pubblicando il numero del loro conto in criptovaluta. L’inchiesta ricostruisce il sistema finanziario alla base delle fughe. Lo stesso giornalista si è finto sposo promesso e ha avviato le trattative. «Occorrono più di quarantamila dollari o euro perché il “matrimonio” vada a buon fine. Il primo approccio avviene attraverso una foto sul profilo social. In genere si usa un leone o un piccione per far sapere che la donna ha anche figli».

 

 

Dopo un incontro sulle reti, le procedure sono avviate ufficialmente. «Dalla sua tenda, la futura sposa entra in contatto telefonico. Al telefono è presente anche un uomo di fiducia del marito o un chierico che legge le preghiere. È considerato sconveniente per la donna far sentire la propria voce, quindi deve semplicemente alzare il telefono dopo la proposta di matrimonio, un gesto interpretato come espressione del consenso».

Il giornalista si è presentato come un uomo d’affari benestante, con attività nel settore agricolo. È entrato in contatto con un un certo Ayyub Hauq, pseudonimo di un comandante uzbeko dell’Hts. Ecco il suo racconto. «Mi ha dato un numero di telefono per comunicare sull’applicazione criptata Telegram. Gli ho spiegato che la mia prima moglie era malata e costretta a letto, che avevo sposato per telefono una giovane uigura detenuta nel campo e che volevo farla uscire e portarla in Turchia e poi in Europa, dove vivo. Inizialmente mi ha proposto una somma tra i 27.000 e i 30.000 euro con la “garanzia ” che avrebbe fatto uscire la donna dal campo e l’avrebbe portata a Reyhanli» (una città turca di confine).«”In caso di spese impreviste, il trasporto a Reyhanli potrebbe costare fino a 45.000 euro”, mi ha avvertito, spiegandomi che avrebbe potuto organizzare anche il suo viaggio in Europa».

 

 

Il giornalista chiede tempo per raccogliere i soldi. Il boss gli propone di creare un conto in cripto valuta e di inviare un primo acconto di venticinquemila euro, di cui quindicimila da consegnare ai contrabbandieri di esseri umani che porteranno fuori dal campo la donna e i bambini. In alternativa alla cripto valuta, l’organizzazione gli propone di depositare denaro contante a Gaziantep, città turca nei pressi del confine con la Siria, presso un negozio di abbigliamento islamico. I jihadisti usano questo antico sistema di pagamenti attraverso fiduciari, il che permette di aggirare banche e trasferimenti ufficiali. Una terza possibilità era quella di affidarsi a un cittadino turco residente in Europa che avrebbe organizzato i pagamenti in cripto valuta, ma con una commissione di seimila euro.

«Hauq mi ha chiesto di andare alla filiale della banca della città in cui avrei dovuto trovarmi, ritirare il denaro, fotografarlo e aspettare il contatto. Ogni tre minuti, un nuovo messaggio mi chiedeva se avevo prelevato il denaro. Gli ho spiegato che stavo ancora aspettando in filiale. A quel punto si è insospettito e ha iniziato a cancellare i nostri messaggi sull’app». «Le cose vanno fatte in ordine: prima incontri tua moglie in Turchia, poi discuteremo di come portarla in Europa», mi ha detto. «Il giornalista turco ha anche intervistato tre donne fuggite dal campo. Una di loro vive in in Uzbekistan, non con l’uomo che ha sposato al telefono, ma con l’attivista uzbeko dell’Hts che l’ha fatta uscire dal campo e «con il quale sta vivendo il primo vero amore della vita». La donna ha oggi 34 anni, è originaria di Ankara, ha dato alla luce il suo primo figlio in Siria. Il suo primo marito, un jihadista, è morto in battaglia. Ha avuto un secondo figlio dal matrimonio con un jihadista egiziano.

 

La Cinebussola
La storia vera delle giornaliste che hanno sfidato il dittatore Lukashenko
editorialista
Paolo Baldini
Parte dalle contestazioni dopo le elezioni del 2020 nella Bielorussia del filo-putiniano Lukashenko la riflessione di Under The Grey Sky della polacca Mara Tamkovich per raccontare la vera storia della giornalista Katsiaryna Andreyeva e della sua operatrice Darya Chultsova, vittime delle repressioni nei confronti della libera stampa. Laddove una giornalista antiregime, Lena, trasmette la telecronaca di una manifestazione nella Piazza del Cambiamento di Minsk.

 

Lena si apposta nell’appartamento all’ultimo piano di una coppia di oppositori e comincia un racconto appassionato sui colpi di bastone della polizia contro i manifestanti.
Un drone si alza in cielo, la scopre e viene arrestata. Lena e la sua assistente finiranno in carcere. Il film è il diario degli sforzi compiuti dal marito di Lena, anche lui giornalista e militante antigovernativo, affinché la moglie si dichiarasse colpevole in un video di propaganda ottenendo in cambio la libertà.

 

Fedele ai suoi principi, Lena non cede, ottenendo tuttavia la solidarietà del compagno. Il titolo, Sotto il cielo grigio, viene da un inno rivoluzionario intitolato Sono nato qui. Sappiamo che nella realtà come nel film Katsiarna/Lena è stata condannata per alto tradimento a 8 anni di reclusione ancora da scontare in un severo carcere bielorusso, mentre l’operatrice Daria è uscita dopo due anni di detenzione.

Eccellente nella prima parte, quando descrive il clima a Minsk, Under The Grey Sky, diventa uno psicodramma nella seconda metà, tuttavia confermando una linea tra impegno civile e di denuncia politica che rende l’opera degna di particolare attenzione.

SOTTO IL CIELO GRIGIO: UNDER THE GREY SKY di Mara Tamkovich
(Polonia, 2024, durata 81’ Invisible Carpet)

con Palina Chabatarova, Valentin Novopolskij
Giudizio: 3 ½ su 5
Nelle sale