di Vincenzo D’Anna*

Fu Alessandro Manzoni a dare alle stampe (nel 1840), come appendice del suo più famoso romanzo, “I Promessi Sposi”, la “Storia della Colonna Infame”, un saggio-inchiesta sulle ingiustizie e le corruzioni del sistema giuridico milanese del diciassettesimo secolo. Nell’opera, il grande scrittore lombardo mise in luce l’inefficienza e la brutalità delle autorità politiche e degli stessi giudici meneghini rei di aver condannato a morte due presunti untori, ritenuti responsabili del contagio della peste (1630), sulla scorta di un’accusa – del tutto infondata – da parte di una “donnicciola” del popolo. Un racconto che ancora oggi fa venire i brividi e che rappresenta un’importante riflessione sul rapporto tra legge e verità, sugli abusi di un potere assoluto ed intangibile che cancella gli elementari diritti di cui i cittadini sono portatori e come tali indisponibili a qualsiasi autorità costituita. Il filosofo liberale Isaiah Berlin li chiamerà diritti “negativi”, ossia non soggetti ad alcuna preventiva autorizzazione da parte delllo Stato e dei suoi poteri per poter essere esercitati liberamente, in quanto consustanziali agli stessi uomini. La colonna infame eretta come monito per i rei, nel tempo passò a ricordare, al popolo ed ai governanti dell’epoca, quanta infamia e violenza avessero patito coloro che furono soggetti ad una giustizia ingiusta. Vista da questa angolatura, tutta la lunga e tormentata vicenda del conflitto tra politica e magistratura travalica la lotta tra i due poteri dello Stato ed assume invece le caratteristiche di un vero e proprio scontro che la politica di ispirazione liberale ha intrapreso in difesa dei diritti e delle prerogative dei cittadini. Questa si muove in nome del popolo invocando una giustizia equa e serena che rispetti, nelle sue procedure, i diritti e la libertà dell’indagato, la necessità di un giudice terzo nel valutare tra accusa e difesa. Ora, chi si muove con questo scopo non può certo essere tacciato come figlio di un Dio minore, se non proprio ritenuto un eversore che tenta di minare le prerogative e le guarentigie costituzionali riservate all’ordine giudiziario!! Se nello stato di diritto la morale (etica pubblica) risiede nella legge a nessuno, neanche ai magistrati, è concesso disattenderla oppure modificarla in nome di un moralismo soggettivo, di un personale convincimento. Viceversa quelli che difendono ad oltranza lo status quo ante, ossia quelli che vogliono che le cose continuino a scorrere così come sono, nonostante errori ed abusi, non possono fregiarsi dell’aura di garanti della legge, portatori di una superiore etica dei fini, non fosse altro perché non c’è giustizia se questa aliena o disconosce la verità dei fatti e la terzietà del giudice che pure sarebbe chiamato ad accertarla. E tuttavia queste pur elementari considerazioni sono del tutto ignorate da una parte, non marginale, del ceto politico e dell’opinione pubblica nazionale. Per quanto concerne la resistenza di una certa parte politica – la sinistra ed il M5S – la risposta risiede nella semplice considerazione che parte del mondo togato si è politicizzata esercitando la giurisdizione con il preconcetto che la legge dovesse avere una declinazione sociale, applicata, cioè, per equiparare e proteggere i deboli dai soprusi. Un uso ideologico, insomma, che poi, dopo le inchieste di “Tangentopoli”, è diventato addirittura etico, con il giudice che è arrivato ad arrogarsi il diritto di condannare o assolvere secondo la propria scala di valori ed idee. Una specie di eroe senza macchia che, codice alla mano, ben protetto dall’intangibilità che gli deriva dalle guarentigie costituzionali, è andato incontro ai moti di piazza assecondandone la voglia di gogna mediatico-giudiziaria. C’è invece da interrogarci sul perché la questione morale, o per meglio dire moralistica, abbia preso il sopravvento sulla questione politica e perché prima il Pci e poi i surrogati di quel partito venuti in seguito, abbiano deciso di prendere il potere per via giudiziaria, raccogliendo i frutti caduti dall’albero durante la tempesta dei processi imbastiti secondo il rito ambrosiano (quello dell’uso della carcerazione preventiva per estorcere confessioni) dal pool di “Mani Pulite”. Perché insomma una grande forza popolare e democratica, che pure poteva giungere al governo con il consenso elettorale, abbia deciso di deviare da quel percorso in compagnia di larghi strati della società civile. Sissignore, anche di quelli che tanto civili non erano, poi scopertisi collusi con l’andazzo dei favori e del finanziamento occulto ai partiti. Pci compreso!! Ma quello che è ancor più strabiliante è che anche dopo lo scandalo Palamara, l’ex membro del Csm nonché il più giovane presidente dell’Anm che ha poi “aiutato” a fare piena luce sulla comprovata contiguità politica ed organizzativa (leggi nomine pilotate ai vertici delle Procure del Belpaese) tra Pd e magistrati, ancora si insiste nel non voler riformare la giustizia!! Ancora si indugia nel non voler tipizzare il fumoso reato, creato dalla giurisprudenza, del “concorso esterno”, lasciando ai magistrati la possibilità di fare come meglio gli pare. Oggi ci prova il centrodestra. Invece di gridare allo scandalo meglio farebbe, il centrosinistra, a dare una mano così da abbattere definitivamente quella “colonna infame” che ancora troneggia in Italia!!

*già parlamentare