Sarkozy e Gheddafi, Trump e la Groenlandia, il prezzo delle auto, eravamo Charlie Hebdo, il prequel di Tolkien
– Former French president Nicolas Sarkozy (C) arrives at Paris courthouse in Paris, on January 6, 2025, for the opening hearing of his trial on charges of accepting illegal campaign financing in an alleged pact with the late Libyan dictator Moamer Kadhafi. Twelve suspects are standing trial, including former close aides, accused of devising a pact with Kadhafi to illegally fund Sarkozy’s victorious 2007 election bid. They deny the charges. If convicted, Sarkozy faces up to 10 years in prison under the charges of concealing embezzlement of public funds and illegal campaign financing. (Photo by Thibaud MORITZ / AFP)L’ex presidente francese Nicolas Sarkozy all’arrivo in tribunale a Parigi, lunedì (Thibaud Moritz / Afp)
editorialista di Elena Tebano

Bentrovati. Nella Rassegna di oggi:

Sarkozy e Gheddafi È iniziato a Parigi il nuovo processo a Nicolas Sarkozy, ex presidente della Repubblica francese, accusato di aver ricevuto fino a 50 milioni di euro dal regime libico di Gheddafi per finanziare la campagna elettorale del 2007. L’inchiesta, scrive Massimo Nava, tocca questioni di portata storica: il ruolo della Francia nella caduta di Gheddafi, l’intervento militare in Libia e l’uso della Nato per finalità politiche.
Trump e la Groenlandia La nota ossessione di Trump per l’isola ricoperta di ghiaccio sembrava una boutade. A pochi giorni dal suo insediamento, il presidente eletto è tornato sull’idea di annettere la Groenlandia e ha detto che non esclude l’uso della forza per accaparrarsela. Insieme alla missione di suo figlio a Nuuk è un assaggio di quello che possiamo aspettarci nei prossimi quattro anni.
Il prezzo delle auto L’anno scorso il costo medio di un’auto in Italia ha toccato i 30 mila euro, rispetto ai 21 mila del 2019. Ma, rassicura Luca, il 2025 potrebbe segnare un’inversione di tendenza, con sconti fino al 10% e prezzi più competitivi.
Eravamo Charlie Dieci anni dopo l’attentato islamista nella sede di Charlie Hebdo, ci si chiede se rivendichiamo ancora con coraggio e determinazione la libertà di espressione e il diritto di satira. Secondo le opinioni raccontate da Alessandro, lo facciamo con sempre minore convinzione.
La Cinebussola Paolo Baldini recensisce La guerra dei Rohirrim, prequel (senza pretese intellettuali) del Signore degli Anelli tratto dal capolavoro di J.R.R. Tolkien.
Buona lettura.

Se vi va, scriveteci:

Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it
Luca Angelini langelini@rcs.it
Elena Tebano etebano@rcs.it
Alessandro Trocino atrocino@rcs.i

Rassegna mediterranea
Il processo a Sarkozy per le presunte mazzette dalla Libia (e i dubbi sull’eliminazione di Gheddafi)
editorialista
Massimo Nava
Non è solo un processo per finanziamenti illeciti. Non è solo un clamoroso atto d’accusa contro un ex presidente della Repubblica. E non è solo uno dei tanti capi d‘imputazione che colpiscono Nicolas Sarkozy, già condannato in altri processi e costretto – clamore dentro clamore – al braccialetto elettronico, anche se questo non gli ha impedito le vacanze di Natale all’estero.

(Prima di Natale, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a tre anni di carcere per la vicenda delle intercettazioni telefoniche. Nel febbraio 2024 è stato condannato in appello a un anno di carcere, per il cosiddetto caso Bygmalion, relativo a una spesa eccessiva per la sua campagna elettorale nel 2012.)

Quello che si è aperto a Parigi nel giorno della Befana è il grande processo a un sistema di potere, al diritto internazionale piegato agli interessi della politica, alla genesi di una rivoluzione – quella libica – che ha sconvolto i delicati equilibri del Medio Oriente, in uno scenario di cui noi europei pagheremo le conseguenze politiche ed economiche per generazioni. Sarkozy e la sua «squadra» di ministri, funzionari, intermediari e amici – in tutto una dozzina di altri imputati, tra cui gli ex ministri Claude Guéant, Brice Hortefeux ed Éric Woerth – dovranno rispondere del principale capo d’imputazione – il finanziamento illecito della campagna elettorale del 2007, grazie a decine di milioni di euro ricevuti sulla rotta Tripoli-Parigi. Ma le accuse storiche, forse non del tutto decifrabili con il codice penale alla mano, sono altre e ben più gravi: come e perché fu decisa l’eliminazione del leader libico Gheddafi? In che misura il futuro politico di Sarkozy (e quindi della guida suprema della Francia) fu determinato dalla relazione con Gheddafi e poi dall’eliminazione del dittatore? Fino a che punto l’interesse di un clan politico poté scompaginare il quadro politico internazionale, coinvolgendo nelle operazioni militari (il bombardamento della Libia) le potenze alleate, Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia? Il leitmotiv dell’epoca era quello del «bombardamento umanitario» dell’esportazione della democrazia con le bombe, in un’ipocrita sceneggiatura che teneva insieme Afghanistan, Iraq, Kosovo e appunto la Libia, nell’illusione che l’eliminazione di un dittatore facesse sbocciare tante primavere arabe.

Nicolas Sarkozy è accusato di aver ricevuto fino a 50 milioni di euro. Le indagini hanno ricostruito le spedizioni occulte di denaro, scovato cassette di sicurezza segrete, acquisito testimonianze, clamorose confessioni e altrettanto clamorose ritrattazioni, in un clima di ricatti e spregiudicati tentativi di sopravvivenza, secondo il classico copione che quando la barca affonda i topi scappano. Eppure, paradossalmente, un certo potere d’influenza resiste, dato che persino il presidente Macron, oltre a imprenditori e uomini politici di alto livello lo consultano regolarmente.

Il processo dovrebbe alzare il velo sull’assassinio del leader libico e di conseguenza sulle finalità del piano messo in atto dall’ex presidente della Repubblica: favorire lo sviluppo della democrazia in Libia o eliminare, con Gheddafi, anche le prove dei finanziamenti ricevuti? In altre parole, i raid occidentali, scatenati innanzi tutto dalla Francia, andarono in aiuto del popolo libico (secondo la narrazione ufficiale) o scatenarono l’inferno per coprire interessi politici? Del resto, la questione del finanziamento delle campagne elettorali dei politici francesi da parte dei capi di Stato africani è una pratica indecente che non riguarda soltanto Sarkozy. L’avvocato Robert Bourgi ha raccontato a suo tempo il passaggio di mazzette a favore di Jacques Chirac. La differenza è che Chirac manifestò sempre gratitudine, mentre Sarkozy avrebbe preferito una coltre di bombe sull’uomo che aveva ricevuto a Parigi in pompa magna, consentendogli di piantare addirittura una tenda nei giardini dell’Eliseo.

È interessante notare come diversi media africani abbiano già emesso una sentenza politica, sostenendo che i milioni di Gheddafi hanno permesso a Sarkozy di diventare presidente, condizione che gli ha garantito pieno poteri per attaccare la Libia e arrivare all’assassinio del leader di Tripoli. Per di più, l’attacco è stato condotto sotto le insegne della Nato, in nome della difesa dei diritti umani e in segno di solidarietà con il popolo libico minacciato di genocidio, come sosteneva peraltro il guru mediatico Bernard Henri Levy, consigliere allora di Sarkozy come oggi di Macron.

Il sito del Burkina Faso Observateur Paalga ha sottolineato una strana coincidenza: «È stato il giorno dopo l’annuncio della candidatura del figlio di Gheddafi, Seïf Al-Islam, alle elezioni presidenziali libiche che si terranno quest’anno, che la magistratura francese ha arrestato l’ex presidente francese e lo ha preso in custodia. Si è trattato di una coincidenza o di una maliziosa strizzata d’occhio di cui solo il destino conosce il segreto?». L’Observateur Paalga nota che questo è soprattutto il processo al finanziamento occulto della politica francese con valigette e «djembe», «una salsa fetida in cui molti politici francesi, di destra e di sinistra, hanno intinto impunemente. Prima di Sarkozy, Giscard, Mitterrand e Chirac hanno avuto tutti la loro decima, pagata da Bongo père (Gabon, ndr), Sassou (Congo-Brazzaville, ndr), Eyadema (Togo, ndr), Houphouët (Costa d’Avorio, ndr) e altri».

Fra i personaggi di spicco del processo figura Ziad Takieddine, uomo d’affari franco-libanese con stretti legami con le reti dell’ex premier Balladur e l’ex presidente Chirac. Da tempo presente in Libia, agiva come intermediario commerciale per conto del regime. Altro personaggi chiave, Alexandre Djouhri, uomo d’affari franco-algerino, intermediario per la vendita di Airbus e missili alla Libia, amico di Bechir Saleh, capo di gabinetto di Gheddafi e grande finanziatore. Secondo la ricostruzione del dossier fatto da Le Monde, Nicolas Sarkozy, quando era ministro degli interni, incontra per la prima volta Muammar Gheddafi, che lo riceve nella sua tenda a Tripoli. Il colloquio si concentra su questioni di migrazione e cooperazione. Ufficiosamente, è in questa occasione che Sarkozy avrebbe chiesto al dittatore libico un sostegno finanziario per la sua futura campagna presidenziale, secondo diverse testimonianze, tra cui quelle di Ziad Takieddine, che ha svolto un ruolo cruciale nella preparazione della visita, e di Bechir Saleh.

Ziad Takkieddine ha confidato al sito Mediapart nel 2016 di aver trasportato personalmente 5 milioni di euro in tre valigie di contanti tra Tripoli e Parigi – due per l’ex ministro Claude Guéant e una per Sarkozy. Thierry Gaubert, stretto collaboratore dell’ex ministro Brice Hortefeux e Nicolas Sarkozy, avrebbe ricevuto un bonifico di 440 mila euro su un conto alle Bahamas da una società offshore di proprietà di Ziad Takieddine e rifornita con fondi del regime di Gheddafi. Notando consistenti prelievi di contanti nei mesi successivi, i giudici sospettano che questi fondi possano essere stati utilizzati per finanziare la campagna elettorale di Sarkozy. Sebbene Sarkozy abbia negato di essere stato in contatto con Thierry Gaubert all’epoca, diverse prove indicano il contrario. Inoltre, Thierry Gaubert ha avuto numerosi incontri e scambi con Brice Hortefeux durante questo periodo, oltre a un incontro registrato come “«Ns-Campagne”».

Fra i particolari più scabrosi, si è anche appreso che nei mesi precedenti e successivi alla vittoria di Nicolas Sarkozy alle elezioni presidenziali del 2007, Claude Guéant, allora responsabile della sua campagna elettorale, aveva affittato una cassaforte molto grande dalla filiale del BNP Opéra per poi «visitarla» sette volte. Guéant sostiene di avervi conservato solo discorsi e archivi, ma gli inquirenti sospettano che la cassaforte possa essere stata utilizzata per conservare denaro contante proveniente dalla Libia. Una perizia commissionata dai tribunali ha poi confermato l’uso spregiudicato di contanti nel team della campagna elettorale di Nicolas Sarkozy, con almeno 250 mila euro di bonus pagati in contanti ai dipendenti.

Rassegna geopolitca
Donald Trump alla conquista della Groenlandia
editorialista
Elena Tebano
L’aereo dei Trump a Nuuk in Groenlandia (Emil Stach/Ritzau Scanpix via AP)

Chissà come avrebbe reagito l’Europa se lo avessero fatto i Putin. Due settimane fa, il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump aveva scritto sul suo Truth Social che «la proprietà e il controllo della Groenlandia sono una necessità assoluta». «La Groenlandia è un luogo incredibile e la popolazione ne trarrà enormi benefici se e quando diventerà parte della nostra nazione. La proteggeremo e la custodiremo, da un mondo esterno molto cattivo», aveva dichiarato Trump. Ieri dopo che suo figlio Donald Jr. è atterrato in Groenlandia, a Nuuk, a bordo dell’aereo Trump Force One, Trump senior ha insistito: «Questo è un affare da concludere». Terminologia da immobiliarista, che dice molto dell’atteggiamento con cui il miliardario star dei reality affronterà la sua seconda presidenza. «Il popolo della Groenlandia dovrebbe decidere del proprio futuro e credo che voglia far parte dell’America» gli ha fatto prontamente eco il fido Elon Musk su X.

Trump aveva già detto di voler comprare la Groenlandia durante il suo primo mandato, salvo sentirsi rispondere subito con un secco no preventivo dalle autorità groenlandesi e danesi. Ma in politica spesso quello che un tempo era impossibile, improvvisamente non lo è più. «Non siamo in vendita e non lo saremo mai» aveva detto a dicembre il primo ministro della Groenlandia Mute Egede, del partito indipendentista Comunità del Popolo. Ma nel suo discorso di Capodanno ha detto anche che: «È giunto il momento di fare il prossimo passo per il nostro Paese». «La nostra cooperazione con altri Paesi e le nostre relazioni commerciali non possono continuare a svolgersi solo attraverso la Danimarca» ha aggiunto. «Il lavoro è già iniziato per creare il quadro di riferimento per la Groenlandia come stato indipendente». La Groenlandia può, in base a un accordo con la Danimarca, ottenere l’indipendenza tramite referendum. Ed Egede potrebbe indirlo in concomitanza con le elezioni di aprile.

La Groenlandia, che conta circa 57 mila residenti, è l’isola più grande del mondo, è coperta per l’80% dal ghiaccio e si trova in una regione di importanza strategica per Stati Uniti, Russia, Cina e altri Paesi. È un territorio autonomo che fa parte della Danimarca e ha importanti risorse minerarie, petrolifere e di gas naturale. Ma attualmente la sua economia dipende dalla pesca e dalle sovvenzioni della Danimarca e difficilmente potrebbe prosperare come Paese del tutto indipendente. La capitale, Nuuk, è più vicina a New York che alla capitale danese, Copenaghen.

Che la Groenlandia sia finita al centro di rivendicazioni contrapposte, intanto, lo dimostra anche il fatto che il re danese Frederik X ha rivendicato l’appartenenza dell’isola al regno modificando lo stemma della Danimarca per includere campi che rappresentano la Groenlandia e le Isole Faroe. «Siamo tutti uniti e ognuno di noi si impegna per il Regno di Danimarca», ha detto il re nel suo discorso di Capodanno, aggiungendo: «fino alla Groenlandia».

In un comunicato, il governo della Groenlandia ha dichiarato che la visita di Trump Jr. è avvenuta «come privato» e non come visita ufficiale. Secondo l’agenzia Ap, Trump Jr. è stato in Groenlandia per un giorno per girare contenuti video per il suo podcast, che però è anche una piattaforma politica per sostenere i programmi del padre. E oggi, durante una conferenza stampa Trump non ha escluso l’uso della forza (militare o economica) per cercare di ottenere il controllo di Panama e alla Groenlandia. A una domanda in proposito ha risposto: «Non posso assicurarvi che… state parlando di Panama e della Groenlandia. No, non posso assicurarti nulla su nessuno dei due, ma posso dire che ne abbiamo bisogno per la sicurezza economica». Ha anche affermato che imporrà «dazi alla Danimarca a un livello molto alto» se non consegnerà la Groenlandia agli Stati Uniti (oltre a dire di voler fare del Canada il 51esimo stato degli Usa).

Le sue affermazioni e la missione di Trump Jr possono sembrare una boutade. Ma sono l’ennesimo segnale che la seconda presidenza Trump porterà sconvolgimenti imprevisti in tutto il mondo. Allacciamo le cinture.

Rassegna economica
E se il 2025 fosse l’anno del ribasso dei prezzi delle auto?
editorialista
Luca Angelini
Del fatto che le auto, elettriche ma non solo, non si vendano anche perché sono troppo care, abbiamo già scritto (vedi la Rassegna del 3 dicembre). Del resto, se è vero che i principali gruppi europei, a partire da Volkswagen, sono oggi in crisi, è altrettanto vero che il settore viene da anni di profitti e dividendi record. Come hanno scritto sul Corriere Francesco Bertolino e Rita Querzè a proposito di Stellantis, «la strategia di Tavares si è rivelata a lungo molto redditizia per i soci. Il manager ha mantenuto la produzione degli stabilimenti al minimo, sfruttando ogni picco di domanda di auto per alzare i prezzi. Il piano ha scontentato governi e dipendenti, ma ha trasformato Stellantis in una macchina da soldi, capace di macinare utili con pochi precedenti nell’industria dell’auto».

La conferma che il prezzo medio dei veicoli sia troppo alto è arrivata, qualche giorno fa, anche dai dati del Centro Studi Fleet&Mobility, riportati dal Sole 24 Ore, che svelano numeri record: in Italia nel 2024 il prezzo medio di un’auto è stato di 30 mila euro, con un aumento di oltre mille euro rispetto al valore medio – già molto alto – del 2023 (nel 2019, anno prima del Covid, il prezzo medio era di soli 21 mila euro). «Gli italiani, insomma – ha sintetizzato Massimiliano Jattoni Dall’Asén – non hanno mai speso così tanti soldi per mettersi al volante di un’auto nuova.

Secondo Sandro Iacometti di Libero, la colpa è tutta di Bruxelles, non della volontà di compiacere gli azionisti (e/o di «ingrassare» i propri bonus-risultato): «La corsa verso i veicoli a batteria ha costretto le imprese a rimodulare gli investimenti, ha disorientato e spaventato i consumatori, ha innescato una competizione fatale con i produttori asiatici sui costi di produzione, ha mandato in tilt la filiera della componentistica. Insomma, la tempesta perfetta. Nel mezzo della bufera i costruttori hanno compiuto il secondo gesto insano. Invece di lottare con tutte le forze fin dall’inizio contro la scelta scriteriata, mandando al diavolo le anime belle dell’ecologismo ideologico, hanno provato ad adattarsi. E il risultato è in quei numeri snocciolati da Fleet&Mobility. Vendendo sempre meno auto, per far tornare i conti le aziende non solo hanno iniziato a ridurre la produzione e a tagliare i costi, ma hanno pensato bene di alzare i prezzi di quelle che ancora si riescono a piazzare. Fenomeno che ha riguardato non solo i veicoli elettrici, i cui costi di realizzazione sono più onerosi, ma anche le vecchie auto a diesel e benzina».

Sia come sia, il 2025 potrebbe però essere l’anno in cui la musica cambia. E – al netto di incognite come guerre commerciali (e non), aumenti del costo dell’energia e altro – gli sconti potrebbero prendere il posto degli aumenti. Almeno è quanto pronostica il quotidiano economico francese Les Echos, citando vari analisti del mercato. «Il periodo post-Covid, con le sue carenze e le interruzioni della catena di approvvigionamento che hanno creato una carenza di auto in vendita, ha permesso ai marchi di aumentare i prezzi come mai prima d’ora. Questa folle impennata si è conclusa nel 2024, secondo le dichiarazioni rilasciate dai produttori in occasione delle presentazioni dei risultati del terzo trimestre». «Negli ultimi dodici mesi, gli incentivi sono aumentati per tutti i tipi di motore in Francia» osserva Jato Dynamics in uno studio pubblicato a metà dicembre. In particolare, gli sconti sono aumentati del 7% per le auto elettriche e ibride plug-in e del 10% per quelle a benzina e diesel. «L’impennata dei prezzi dei veicoli a combustione contraddice la convinzione comune che sia l’arrivo delle “wattures” (le auto elettriche, ndr) ad alimentare il problema dell’accessibilità dei modelli in Europa», insiste Felipe Munoz, di Jato Dynamics. L’anno prossimo i clienti potrebbero beneficiare di prezzi di listino più bassi. «Nel 2025, il mantra “valore e margini piuttosto che volumi” dovrà finire», hanno previsto gli analisti di HSBC in una nota pubblicata all’inizio di questa settimana». Quelli di Morgan Stanley fanno notare che l’accessibilità economica delle auto non è mai stata così bassa dal 2008. «I prezzi devono scendere per tornare ai volumi di vendita pre-pandemia, ma si tratta di un processo graduale» – spiegano. «I produttori – aggiunge Les Echos – hanno bisogno di recuperare i volumi per mantenere in funzione le loro fabbriche. E questo è particolarmente vero per i veicoli elettrici».

La spinta ai ribassi dovrebbe arrivare anche da un altro fronte: «I concessionari hanno già un’ampia gamma di auto e i prezzi potrebbero scendere se i consumatori non recupereranno presto appetito per quei modelli», dicono gli analisti di HSBC, prevedendo che i prezzi scenderanno di altri 5-10 punti percentuali, oltre agli sconti del 10% già visti oggi.

Poi c’è, naturalmente, il peso degli obiettivi green dell’Unione europea. «Oltre alla necessità di mantenere in funzione le linee di produzione, l’anno prossimo i produttori dovranno ridurre le emissioni di CO2 in Europa del 15%. Ciò richiederà un aumento sostanziale delle vendite di auto elettriche, anche se questo varierà da un produttore all’altro. Gli analisti di UBS avvertono che “l’industria automobilistica deve accelerare per raggiungere i suoi obiettivi, il che potrebbe potenzialmente portare a una guerra dei prezzi dei veicoli elettrici, che non sarà priva di effetti sui loro profitti”. In questo contesto, il calo dei costi delle materie prime e dei prezzi delle batterie dovrebbe comunque dare un po’ di respiro ai produttori, con un risparmio di circa 100-200 euro per veicolo, secondo gli stessi analisti».

Già oggi, fa notare David Barroux in un editoriale sempre su Les Echos, «alcuni marchi, come Dacia, sono riusciti a offrire un buon rapporto qualità-prezzo. Per stimolare la domanda, anche la concorrenza e le promozioni rimangono armi relativamente efficaci, anche se i produttori non potranno comprimere troppo i loro margini». E, visto che i prezzi non potranno scendere al di sotto di una certa soglia, gli analisti del settore prevedono un ulteriore ricorso di costruttori e venditori ai loro rami finanziari, con la spinta su formule diversificate come finanziamenti, leasing con possibilità d’acquisto e noleggi a lungo termine.

Non tutti, però, concordano sul calo dei prezzi. C’è anche chi pronostica che quelli dei veicoli non elettrici potrebbero persino aumentare, per disincentivarne l’acquisto e mettere le case al riparo dalle – assai discusse e appena riconfermate – multe Ue per chi supera la quota di produzione di auto inquinanti. E Luigi del Viscovo, del Centro Studi Fleet&Mobility, dice che «avendo preferito i margini ai volumi, pensare che le immatricolazioni possano tornare ai livelli pre-Covid è solo fantasia, nel senso letterale di cosa irrealizzabile. Pensare invece che possano essere i contribuenti a calmierare questi prezzi con gli incentivi ha dentro qualcosa di perverso».

Una speranza, ha fatto notare Jattoni Dall’Asén, arriva però dal Nord Europa. «La Norvegia, infatti, si conferma paradiso delle elettriche. Come mostrano i dati della Norwegian Road Federation, quasi il 90% delle vendite di nuove vetture nel 2024 è stato composto da modelli full electric. Secondo gli esperti, il successo delle politiche norvegesi sulle auto elettriche è anche merito di una linea ben precisa portata avanti dai diversi governi che si sono succeduti nel tempo. Mentre in gran parte dei Paesi Ue gli incentivi fiscali o le esenzioni sono stati introdotti per poi fare marcia indietro. “Questa è la nostra grande lezione – ha dichiarato il viceministro dei Trasporti Cecilie Knibe Kroglund – mettere insieme un ampio pacchetto di incentivi e renderlo adattabile a lungo termine”». Con la postilla fatta, però, da Andrea Paoletti su Corriere Motori: «Anche se molti amano citare la Norvegia come esempio, è evidente che si tratta di un caso a sé stante, difficile da replicare altrove per svariati motivi. Non va dimenticato infatti che è un Paese che, paradossalmente, può permettersi la maggior percentuale di vetture elettriche al mondo anche grazie all’esportazione di petrolio, del quale è il maggior produttore europeo, con quasi 2 milioni di barili al giorno. E poi il governo ha portato avanti una decisa politica di incentivi alla mobilità sostenibile a partire dal 2007, a cui si aggiunge una lunga serie di agevolazioni per chi si sposta a elettroni: esenzioni dalle imposte sull’acquisto di auto, da eco-pass e da tariffe autostradali, parcheggi gratis, possibilità di utilizzare le corsie preferenziali… Se la Norvegia rappresenti un apripista di quello che succederà in futuro anche negli altri Paesi europei piuttosto che un esperimento irripetibile, frutto di una particolare congiuntura di condizioni favorevoli, è per ora tutto da vedere».

Rassegna politica
Charlie Hebdo, la satira sotto assedio
editorialista
Alessandro trocino
A dieci anni dall’attentato del 7 gennaio 2015, Charlie Hebdo pubblica un’edizione speciale con i risultati di un sondaggio dell’istituto Ifop, dal quale risulta che il 76 per cento dei francesi ritiene che «la libertà di espressione sia un diritto fondamentale». Il 62 per cento è convinto che sia giusto «criticare anche in modo oltraggioso una religione». Eppure, l’impressione generale è che l’atmosfera sia molto cambiata. Per l’Economist oggi «la satira è sotto assedio». Ci sono altri dati da riportare: nel 2016 i francesi che dicevano «Je suis Charlie», in segno di solidarietà dopo la strage islamista, erano il 71 per cento. Nel 2023 erano scesi al 58 per cento. Non è l’unico segnale, in realtà, che ci dice come il tanto proclamato orgoglio occidentale per la libertà di espressione e di satira stia lentamente battendo in ritirata.

Allora ci siamo indignati, abbiamo pianto, abbiamo considerato incredibile che una rivista satirica diventasse bersaglio della furia ideologica e criminale di al-Qaeda e che sotto i colpi dei kalashnikov cadessero 12 persone. Poi questa rabbia, questa incrollabile fiducia nella necessità di esprimersi, ha cominciato a deflettere. Nel dibattito pubblico in Occidente si è imposto a sinistra, ridicolizzato a destra, un movimento che impone un maggior rispetto delle differenze. Una presa di coscienza che si debbano considerare con attenzione le identità diverse dalle nostre e che si debbano tutelare le fragilità, evitando offese e parole che possano ferire. L’altro lato della medaglia è che siamo andati oltre e che il rispetto sacrosanto è sbordato talvolta nell’ipocrisia formale, nella tutela radicale e ideologica di qualunque sensibilità culturale, religiosa e politica, con la conseguenza di rendere la vita difficile a chi vuole raccontare la realtà senza infingimenti, senza perifrasi, senza sconti e trasformando ogni discorso pubblico in un campo minato. A maggior ragione, ha reso la satira uno strumento sospetto, fuori tempo, pericoloso.

Nel 2015 un gruppo di scrittori americani ha boicottato una cena di gala a New York, nella quale il giornale avrebbe dovuto ricevere un premio per il coraggio, con la motivazione che le sue vignette offendevano i musulmani. Nel 2019, dopo una polemica provocata da una caricatura di Benjamin Netanyahu, il New York Times ha interrotto la pubblicazione di vignette politiche. È di pochi giorni fa il caso di Ann Telnaes che si è dimessa dal Washington Post dopo essere stata censurata per un disegno che ironizzava sul proprietario del giornale, Jeff Bezos.

Una vignetta di Biche per Charlie Hebdo
L’Economist scrive che Charlie Hebdo, dieci anni dopo l’attentato, ha continuato inflessibilmente per la sua strada ed è rimasto un «settimanale di cattivo gusto, sciocco e provocatorio». Continua a pubblicare il fondoschiena brufoloso del profeta, disegna Marine le Pen che si rade i peli pubici, deride tutti e tutto, con una furia iconoclasta che non conosce confini, buon gusto e decenza. Racconta Cesare Martinettisull’Huffington Post che la solidarietà c’era ma era molto frenata in certi ambienti: «Eravamo tutti Charlie, certo, ma con qualche esitazione. Molti pensavano che quel giornale, così provocatorio, sguaiato e anche cazzaro, fosse un’inclassificabile mina vagante da tempo finito ai margini dell’editoria periodica. Era di destra? Di sinistra? Forse troppo anarco-chic-snob? Ogni settimana cacciava le dita negli occhi a qualcuno. E non tutti gradivano».

La voce di Charlie, però, scrive il settimanale britannico, «è volgare ma preziosa». Perché altrove l’autocensura dilaga. Lo ammette Plantu, il famoso fumettista di Le Monde, che però è sempre stato più «moderato» e «responsabile» dei ragazzacci di Rue Nicolas-Appert: «Con la pressione sociale che c’è, non abbiamo più la stessa libertà di prima». Riss, il direttore di Charlie Hebdo, sostiene che le loro caricature non sono poi così provocatorie: «Lo sembrano, perché si è ristretto il margine di tolleranza».

La destra rimprovera la sinistra di cedimento al nemico, di avere trasformato la tolleranza in sottomissione, per dirla con Michel Houellebecq, di giustificare la violenza degli oppressi. Quattro mesi dopo l’attacco, racconta Alain Finkielkraut sul Figaro, venne pubblicato un libro di Emmanuel Todd dal titolo «Qui est Charlie?». Dove si leggevano cose così: «La blasfemia ripetuta contro Maometto, figura centrale di un gruppo debole e discriminato, dovrebbe essere qualificata, qualunque cosa dicano i tribunali, come incitamento all’odio religioso, etnico o razziale». O ancora: «Milioni di francesi sono scesi in piazza per definire come un’esigenza prioritaria della loro società il diritto di sputare sulla religione dei deboli».

Dieci anni dopo l’attentato, scrive ancora Martinetti, «il discorso pubblico è avvelenato da islamofobia e wokismo, reciproche accuse di antisemitismo alternate al razzismo. La strage di ebrei del 7 ottobre 2023, l’offensiva di Israele su Hamas e Gaza, gli avvenimenti in Siria, rimbalzano come un’eco immediata sul sistema nervoso francese, paralizzato dalle posture del politicamente corretto». Nel frattempo c’è stato il Bataclan, e poi un professore, Samuel Paty, decapitato per avere osato mostrare ai ragazzi una vignetta di Charlie su Maometto.

Una vignetta di Zorro del 3 gennaio 2025 per Charlie Hebdo
Sempre sull’Huffington c’è un’intervista a uno dei nostri migliori fumettisti, Gipi (Gianni Pacinotti), che spiega come «la reazione che abbiamo avuto davanti alla strage di Charlie non sia stata sufficiente» e come non ci sia stato «un radicamento profondo della convinzione che la libertà d’espressione è veramente un bene intoccabile». E ancora: «Mi sembra che in alcuni ambienti intellettuali, soprattutto progressisti, scatti un pericoloso automatismo: da un lato il timore di offendere, che porta addirittura a rinunciare a rivendicare diritti fondamentali, e dall’altro cercare le cause del male che è stato fatto ai disegnatori di Charlie Hebdo, come in tante altre occasioni, nelle responsabilità dell’Occidente. Come se l’Occidente, in fondo, meritasse in qualche modo quel sangue versato».

Scrive Paul Quinio in un editoriale su Liberation: «I terroristi non hanno vinto. No. Ma il “sì ma” ha conquistato le menti e sta corrompendo la libertà di espressione. L’autocensura è progredita. I terroristi hanno distillato un lento veleno che attacca il secolarismo. Ad alcuni, anche a sinistra, hanno dato l’idea che questa lotta per tenere la religione al suo posto, nella sfera privata, lontana dai valori repubblicani di emancipazione, non fosse una lotta cardinale». E dunque, conclude, dieci anni dopo, è più che mai «fondamentale dire je suis Charlie», con la consapevolezza che per preservare questa «fragile libertà» si dovrà lottare ancora.

La Cinebussola
Il prequel del Signore degli Anelli
editorialista
Paolo Baldini
Epica, sentimenti estremi, battaglie, glorie, inganni, tradimenti, rinascite, gesti travolgenti: tutto quel che s’addice al cinema dell’avventura e degli slanci ideali. Pensate alla saga de Il Signore degli Anelli, nata dal best seller di J.R.R. Tolkien ambientato nella Terza Era della Terra di Mezzo, pubblicato nel 1955, tradotto in 38 lingue, con oltre 150 milioni di copie vendute, adottato dal cinema fino a diventare un classico. La guerra dei Rohirrim diretto da Kenji Kamiyama, regista di Blade Runner: Black Lotus e Ghost in the Shell, è un prequel rispetto alle vicende raccontate da Tolkien. L’azione si svolge centinaia di anni prima degli eventi della trilogia originale, Lo Hobbit.

Qui c’è un re guerriero, Helm Hammerland Mandimartello, sovrano di Rohan, che deve difendersi dall’assalto di Wulf, giovane signore del Dunlending. Il padre del disturbato giovanotto cercò di rovesciare Mandimartello e da quest’ultimo fu respinto, umiliato, annientato. Da quel momento Wulf vive solo per la vendetta, nonostante l’amicizia con i figli di Helm, in particolare la coraggiosa Héra, di cui è innamorato in maniera patologica.

Educato all’odio, Wulf vuole sterminare la stirpe di Helm e mette sotto assedio Rohan, il cui esercito è arroccato nella Fortezza di Hornburg. La resistenza è impervia e solo Héra riuscirà a trovare una via d’uscita quando resterà sola di fronte ai nemici e tutto sembrerà perduto. Il film racconta la battaglia da cui nacque la mitica Terra di Mezzo con una fiera bagarre di duelli all’ultimo sangue, promesse non mantenute, cavalcate a perdifiato, presenze magiche, premonizioni, colpi fatali e resurrezioni. Se non si cercano significati che non siano quelli palesi legati ai sentimenti puri e ai principi del bene, se non si cercano improponibili similitudini con i conflitti del mondo moderno, La guerra dei Rohirrim funziona, corre, non lascia indifferenti. Favolona di sangue e spada che, partendo da un budget ridotto, 30 milioni di dollari, punta soprattutto al mercato delle piattaforme digitali. Prova ne è che negli Stati Uniti, dove il film è uscito il 13 dicembre registrando un successo consistente ma inferiore al previsto, è già stato dirottato in fretta e furia sui canali streaming.

IL SIGNORE DEGLI ANELLI – LA GUERRA DEI ROHIRRIM di Kenji Kamiyama
(animazione, Usa-Giappone, 2024, durata 130’, Warner Bros Italia)
Giudizio: 3 ½ su 5
Nelle sale