Poggioreale di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore
Ad un certo punto, le urla da dentro diventano più forti del trambusto dell’ora di punta nel centro storico di Napoli. Il direttore manda a controllare, ma l’ispettore ha già la risposta: «È il reparto Salerno…». Come ad indicare una certa consuetudine di tensione. E in fondo, se il carcere di Poggioreale macina record di sovraffollamento (130 per cento come altri ) e suicidi (4 nel 2024, l’ultimo a togliersi la vita aveva 28 anni), all’interno ci sono padiglioni dove l’allerta è sempre a livello di guardia. Come il Salerno: 298 presenze a fine dicembre, compresi i sex offenders. Basta allora un pretesto – come un gruppo che si attarda sotto le docce come in questo caso – per far alzare i toni e innescare una potenziale reazione a catena. Il carcere è anche questo.
Varcato il portone, la visita nella casa circondariale G.Salvia – edificata a inizio Novecento nella riserva di caccia dei re, da qui il nome Poggioreale del quartiere – promette un viaggio in Italia attraverso i padiglioni Roma, Salerno, Genova, Napoli. Ben presto, ci si ritrova dentro lo specchio deformato delle città, a cominciare dalle ambizioni tradite, i disagi stratificati e le antiche storie di questo rione partenopeo popolato anche da lazzaroni «c’o volto santo ’mpietto e ’a guerra dint’e mmane», cantava Pino Daniele (con il volto santo in petto e la guerra nelle mani). Tutto si ritrova dentro, dove le conquiste quotidiane, che pur ci sono, si perdono tra reparti che sembrano un cimitero di vivi, con corpi stesi a fissare il soffitto in una batteria di letti a castello. Anche nove per cella, con un unico bagno a fare pure da cucina. Si è arrivati a contare fino a 15 persone in uno stesso ambiente poi trasformato: «un’indecenza», ammette Carlo Berdini, l’ormai ex direttore che ci ha accompagnato, prima di diventare provveditore degli istituti penitenziari in Puglia.
Mentre attraversiamo lunghi corridoi, braccia tatuate si protendono al di là delle inferriate, riversando nuvole di fumo di sigarette. Come affacciati dai bassi di quei vicoli di Napoli non bagnati dal sole né dal mare. Quando 2.150 detenuti (per delitti in prevalenza contro famiglia e patrimonio) sono stipati in spazi che potrebbero ospitarne 1.624, assicurare una detenzione dignitosa è arduo. «Basti pensare a duemila pasti al giorno! Un gigantismo dei numeri», come lo chiamano qui, che rende la convivenza un equilibrio fragile. Ancor di più se gli spazi sono ulteriormente ridotti dalla ristrutturazione di due degli otto padiglioni, Napoli e parte del Genova, con ancora i ballatoi. Come nelle Vele di Scampia. I lavori, fermi dopo il fallimento dell’impresa, sono ricominciati tra le difficoltà, compreso il «faticoso dialogo» tra istituzioni penitenziarie e Sovrintendenza ai beni archeologici. Oggetto, gli archi delle celle in piperno, roccia vulcanica. Da un lato, la richiesta di rimuoverli, restaurarli e riporli; dall’altra, l’urgente bisogno di nuovi ambienti. A conclusione dell’opera (prevista nel 2027, per un costo di 16 milioni), saranno disponibili 380/400 posti, ma «ai cittadini detenuti – lamenta un dirigente – restituiremo gli stessi ballatoi , vincolati e senza spazio per nulla».
«Come un olandese col mare, ho cercato di recuperare ogni piccolo angolo», racconta l’ex direttore, mentre indica l’ufficio matricola nel seminterrato. «Le condizioni sono indecenti anche per chi lavora: verrà spostato. Le ristrutturazioni dovrebbero essere continue, con linee preferenziali sia per quelle straordinarie che ordinarie». Quanto dovrebbe garantire il commissario per l’edilizia penitenziaria, nominato su proposta dei ministri Nordio e Salvini. Nel frattempo, a Poggioreale «solo il 15-20% dei detenuti ha accesso a dei percorsi», conferma Berdini. Significa che per la maggioranza il tempo della detenzione è tempo vuoto. Privo di orizzonte, come il soffitto fissato per ore. Il rischio è restituire alla città persone ancora più propense al crimine, tradendo ogni funzione costituzionale della pena e ogni bisogno di sicurezza. Il lavoro poi è una chimera come in quasi tutta la Campania, dove solo il 27 per cento dei detenuti vi ha accesso: nei 14 istituti solo 2.083 detenuti hanno un impiego per lo più per l’Amministrazione penitenziaria; 128 per esterni. Solo Basilicata e Molise fanno peggio. Per attivare nuovi circuiti, la provveditrice ha introdotto gli «open-days, per mostrare le potenzialità in termini di risorse umane e strumentali – spiega Lucia Castellano – e far incontrare offerte di lavoro e disponibilità». Anche a questo dovrebbe contribuire la commissione regionale sul lavoro penitenziario, che coinvolge istituzioni e imprese. A questo tende la raccolta di dati sulle competenze dei detenuti e questo è l’obiettivo di due progetti di inclusione previsti per Napoli e Salerno. «Ce la mettiamo tutta, ma siamo indietro», ammette Castellano, che dopo anni alla guida del carcere di Bollate e dell’Ufficio esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia sa bene quanto decisivo sia il ruolo del tessuto esterno. Ma Napoli gira intorno a questo fortino senza integrarlo, benché ogni giorno 1.500 persone entrino nella sala colloqui.
Tra scale, cancelli e gallerie, all’improvviso ci si ritrova in botteghe dove i pochi ammessi ai laboratori stupiscono con maschere di Pulcinella o tele con la corona di Poggioreale. O col profumo di una pizza. «Noi siamo fortunati», ripetono Antonio e Pasquale, che usciranno con un attestato da pizzaioli dopo essere stati formati dalla Gesco (gruppo di imprese sociali);«ci hanno aiutato a cambiare vita rispetto ai tempi della droga e delle rapine. Prima al lavoro non ci pensavamo». Loro sono anche rider dentro Poggioreale – «oggi 100 pizze consegnate» – e sanno che le condizioni della parte aperta del padiglione Genova (3 per cella, doccia interna, tutti definitivi) – non sono quelle del Salerno o del Roma, con «anche nove/dieci persone».
Le tensioni tra nazionalità (300 gli stranieri) sono rare a Poggioreale, che condivide invece con le altre case circondariali il dramma della malattia mentale: due gli psichiatri in servizio solo al mattino, per 220 detenuti con diagnosi certificate. Come in tutta Italia, sono insufficienti i servizi delle Rems (residenze che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari), a cui ogni giorno la direzione chiede posti, «a prescindere». Dopo i suicidi, si sono susseguite riunioni per implementare il supporto, ma come spesso succede, spenti i riflettori, svanita l’emergenza. Eppure, a Poggioreale si riescono anche a garantire prestazioni «che fuori ti sogni», assicura un agente mentre accende le luci della sala dialisi. Spazi e macchinari profumano di nuovo. Poco più in là, nel vecchio spazio operatorio dell’Asl, bilance e lettini accatastati. Contraddizioni del mondo penitenziario che diventano ancor maggiori se si arriva nell’altra casa circondariale di Napoli, a Secondigliano. 384 mila mq, 1.495 detenuti a gennaio e nessuna delle emergenze di Poggioreale, con cui lo separano 4 km e 200 anni. Inaugurato negli anni Novanta, è il primo centro per l’Alta sicurezza, con 900 detenuti affiliati a camorra e ‘ndrangheta: anche a loro è diretta l’opera di «risocializzazione, riabilitazione e rieducazione», racconta la direttrice Giulia Russo, mentre snocciola l’ampia offerta formativa: il polo universitario con 120 studenti; la riparazione di auto della polizia penitenziaria, la realizzazione di protesi dentarie in 3d o la sartoria, dove sono state modellate le toghe per le lauree honoris causa di Andrea Bocelli o Alberto Angela alla Federico II.
Le stesse mani stanno cucendo paramenti per il Giubileo. A Sting, che qui ha cantato, è stata donata la prima chitarra ultimata con assi dei barconi dei migranti. «L’amministrazione deve essere credibile e non si possono realizzare cattedrali di formazione e lasciare al detenuto cuscini ridotti a polvere», premette Russo, prima di spiegare come «con la gestione di fondi ordinari sia riuscita ad assicurare docce nella metà delle celle, acqua calda e formazione professionale». Condizioni minime, ma niente affatto scontate.
Dopo la chiusura del carcere femminile di Pozzuoli con l’ultima crisi bradisismo, ci sono anche 91 donne e da tempo sono state accolte le trans di Poggioreale, divenute sul palco voci dei versi di Euripide. A Napoli anche per il carcere «ognuno aspetta a’ sciorta».
Raffaella Calandra
Libano