di Vincenzo D’Anna*

Non so quanti si saranno chiesti che fine abbia fatto l’autonomia differenziata, il progetto approvato dal governo tra mille polemiche e chiamate alle armi da parte delle opposizioni. Il tema ha destato tante preoccupazioni a tal punto che nel Belpaese si sono costituiti anche appositi comitati per raccogliere le firme necessarie per sottoporre la cosiddetta “legge Calderoli” ad un referendum abrogativo. Per quanto concerne tale consultazione, una volta depositate le firme necessarie, si attende ancora la sentenza della Corte Costituzionale per la sua ammissibilità. La stessa Corte, nel frattempo, si è però espressa sui contenuti del “progetto”, ossia sugli eventuali profili di incostituzionalità di una legge che, è bene ribadirlo, non sottrae risorse a nessuna regione italiana in quanto non incide, come dicono alcuni detrattori, sul fondo di riparto statale. Insomma: non modifica nessuno dei criteri di assegnazione della “provvista” statale. E tuttavia la medesima Corte ha cassato alcune parti della legge sull’autonomia differenziata, imponendo il criterio della spesa standard (anziché di quella storica) e richiedendo che le regioni siano responsabili di eventuali scostamenti tra la spesa effettiva ed il costo delle funzioni devolute. In parole povere: le regioni non possono avere grandi differenze di costi per erogare i servizi e le prestazioni dovute ai cittadini, i cosiddetti LEP (livelli essenziali di prestazioni). In tal modo dovrebbe finire la voragine dei debiti fatta registrare da taluni enti territoriali che sono indebitati perché hanno dilatato a dismisura i propri costi di gestione. Un esempio per tutti: l’ente regionale campano, con la metà degli abitanti della Lombardia, ha alcune migliaia di dipendenti in più sul libro paga; la Sicilia ha il quadruplo degli operai forestali rispetto alla Finlandia, che pure è ricoperta di boschi!! Facile desumere che le assunzioni pletoriche di personale fanno parte della rete politico clientelare imbastita in taluni “governatorati” locali. Se il primo punto (quello sui costi standard) potrebbe contrad­dire il principio di neutralità finanziaria quando la spesa storica regionalizzata risulti inferiore a quella determinata secondo il criterio dei costi standard..Il secondo principio ( quello della responsabilizzazione sui centri di spesa) , diventa sacrosanto. Il percorso dell’autonomia deve pertanto riprendere da qui, nel tentativo di farne realmente un’oppor­tunità di maggiore responsabilità’
In capo alle regioni. In parole povere: dovrebbe finire l’era dei piagnistei e delle commiserazioni che si ode soprattutto nel nostro Mezzogiorno allorquando la voragine della spesa diventa uno stato di fatto ricorrente, o peggio ancora inteso come risultato della diffusa pratica della benevolenza assistenziale, e non intesa come una violazione di legge che comporta una assunzione di diretta responsabilità amministrativa. Responsabilità che dovrebbe a sanzioni, finanche portare anche alla effettiva decadenza della giunta o del suo presidente. Tuttavia il vero nodo da sciogliere è come finanziare il fabbisogno di prestazioni e, prima di questo, come arrivare a prevedere l’effettivo fabbisogno dei LEP. Un esempio viene sempre dalle regioni del Sud: la spesa sanitaria, ancorché sotto finanziata, risulta sempre deficitaria per gli sprechi e gli sperperi della gestione statale. L’eccesso di spesa sommato alla sottostima del fondo sanitario assegnato alle regioni meridionali ( che non tiene conto della differenza di ricchezza esistente tra i cittadini di regioni diverse), spinge le Regioni più indebitate a sottostimare volutamente il fabbisogno effettivo di prestazioni sanitarie per i propri residenti , pertanto il fabbisogno rilevato andrà a coincidere con la sola parte finanziabile del medesimo. Le ulteriori prestazioni o le paga il cittadino o le acquisisce fuori regione ( migrazione sanitaria ). Ne consegue che è già difficile rientrare nei costi standard, al posto dei costi storici, figuriamoci se le medesime prestazioni (scaturenti dalla devoluzione di funzioni dallo Stato alle regioni)
fossero anche sottostimate come fabbisogno. Insomma si rischia di avere taluni prestazioni in quantità minore alle reali necessità e di qualità peggiore perché rientranti nei costi standard. Questo il timore, il retro pensiero degli amministratori del Sud e questo forse il recondito scopo della premiata ditta nordista Calderoli & C. quella che da decenni cerca di accreditare il Meridione come spendaccione e truffaldino!! Insomma su entrambi i versanti il non detto, il sottinteso, vale più dell’esplicitato!! Ma l’asino casca per entrambe le fazioni allorquando la Corte Costituzionale afferma : le regioni che chiedono devoluzione di funzioni, ossia di prestazioni tra quelle previste dalla legge ) devono poterle erogare ai cittadini con costi inferiori a quelli che pagava lo Stato, per erogare le medesime prestazioni. Tutto ciò spiega perché siano state le regioni del Nord più ricche a chiedere devoluzioni di più funzioni, avendo più ricchezza prodotta. Dopo la sentenza della suprema Corte anche le Regioni più ricche dovranno stringere i cordoni della borsa che, pur più capiente di risorse economiche, non potranno essere utilizzate perché devono rientrare anch’esse nei costi Standard. Le Regioni indebitate , invece, non chiederanno altre funzioni lasciandole allo Stato e quindi si guarderanno bene dal farsi carico di altri oneri e di altre prestazioni. Da questa reciproca delusione nasce il sopraggiunto disinteresse per l’attuazione dell’ legge Calderoli, è sorto il silenzio di tomba sul tema dell’autonomia differenziata. Insomma: quindi i conti non tornano per nessuno, e non serviranno né un Montesquieu né un Calderoli. Servirebbero solo una buona gestione amministrativa e criteri d’impresa privatistici per realizzarla.

*già parlamentare