di Vincenzo D’Anna*

In molti hanno cercato (e ancora cercano) di contrabbandare per “vero capitalismo” le tipologie di modelli che prevedono un importante ruolo dello Stato in campo economico. Un furbo compromesso volto a coniugare i principi di efficienza, merito e concorrenza, che sono tipici del libero mercato (detto “liberismo”), con le pratiche politiche delle aziende partecipate e gestite direttamente dallo Stato. Un artificio antico in una nazione, la nostra, che si professa liberale di mattina ma socialista di pomeriggio, ossia che consegna agli apparati centrali (ed alla politica che li occupa in quel momento, per volontà popolare), il monopolio di quasi tutti i servizi e i principali ambiti delle attività produttive: dall’energia, ai trasporti, dalla scuola alla sanità, dalla giustizia alle comunicazioni, dall’assistenza alla previdenza sociale. Per raggiungere il loro scopo, i falsi liberali ricorrono a giochi di prestigio dialettici o ad improbabili mescolanze. Il tutto pur di portare, nell’alveo del “capitalismo”, una serie di contaminazioni concettuali ad esso estranee, ma utili alle clientele politiche ed alla gestione delle ingenti somme che lo Stato utilizza per gestire e ripianare i deficit accumulati dalle aziende pubbliche. La sfida per chi crede nei principi del capitalismo è quella di separare il grano dal loglio affermando e comunicando che liberalismo e liberismo non hanno né surrogati, né brutte copie. Men che meno quelle caratteristiche spurie erroneamente attribuitegli. Si tratta di declinare il capitalismo per quello che esso è realmente, senza compromessi di comodo: dalla libertà di impresa a quella dei diritti sostanziali in capo ad ogni cittadino, al consapevole vincolo della responsabilità per l’esercizio delle libertà, affinché possano essere raggiunti i benefici economici, sociali e morali che esso è in grado di garantire. E’ certamente arduo, per la nostra secolare abitudine al compromesso, all’ammiccamento, ai favoritismi elettorali, alla forza che scatenano il rancore e l’invidia sociale,al timore che si diffonda la libera concorrenza senza il paracadute dello Stato. Si tratta di pura utopia pensare di superare quei difetti ontologici degli italiani? Forse, ma è proprio nell’esercizio di tutte le “ libertà” che si celano le uniche idee e le precise condizioni per riuscire ad applicare la ricetta del capitalismo e del rilancio dell’economia, con la correlata limitazione delle pastoie burocratiche. In fondo e’ quella la condizione che legittimi la pretesa, per il governo attualmente in carica in Italia (ma anche di quelli che verranno), di potersi annoverare tra le nazioni più efficienti, floride, apprezzate ed autorevoli al mondo. L’unico modo per uscire dal provincialismo politico e dalla atavica furbizia statalista. Il ruolo dell’esecutivo di governo però, da questo punto di vista, dovrebbe limitarsi alla sola difesa dei diritti degli individui e della loro libertà economica senza adoperarsi per violare gli uni e l’altra. Insomma, per consentire al capitalismo di produrre i propri effetti sarebbe necessario stabilire una netta separazione tra la sfera statale e quella economica. Una missione certamente non facile da portare a compimento in regimi di tipo democratico, nei quali un numero sempre crescente di decisioni viene preso ricorrendo a procedimenti di natura politica ed il potere viene conferito da una sempre più esigua fetta di elettori che peraltro votano per trarne dei vantaggi. Tuttavia nella nostra “politica di fatto” si procede a tentoni e senza mai raggiungere sintesi virtuose di una futura prospettiva, ma guardando solo alla cronaca quotidiana. Mai oltre il piccolo interesse. Il che si traduce in un perenne muro contro muro, tra chi governa e chi si oppone, in un dileggio preconcetto delle tesi del campo avverso. Risultato : si naviga a colpi di maggioranza governativa la quale si arroga pure il diritto di imporre, alla minoranza, ogni sorta di agenda economica, se non facendosi guidare da specifici gruppi di interesse. Le riforme per ammodernare ed attualizzare la cara vecchia carta costituzionale? Abortiscono in Parlamento oppure vengono affossate con i referendum popolari, spaventando la popolazione sulle catastrofiche conseguenze derivanti da quella riforma stessa. A ben vedere, questo stato di cose ha paradossalmente poco a che fare con l’ideale di una moderna democrazia. Semmai tratta di una forma di populismo che si avvale del grande potere coercitivo dello Stato. Ed è proprio per evitare queste degenerazioni politiche che i padri fondatori degli Stati Uniti fissarono limiti stringenti all’operato del governo, prevedendo che i poteri fondamentali della nazione fossero posti in capo ai cittadini chiamati ad esercitarli nelle istituzioni. E tuttavia nel terzo millennio neanche quel concetto di libertà diffusa e di diritti negativi, ossia non soggetti all’imperio dello Stato, ha evitato che il capitalismo, cresciuto in quella stessa patria, l’America, venisse ormai disatteso dalle nuove teorie di governo capitanato da Donald Trump e dalla sua corte di multi miliardari. Un governo che si accinge a disconoscere solidarietà, pari opportunità, equità sociale ed accoglienza per deboli e diseredati, propinare un falso capitalismo ammantato di scadente modernità.

*già parlamentare