*Il ballon d’essai della tentazione statalista*
di Vincenzo D’Anna.
Lo statalismo è un retaggio antico che discende dall’ambiguità della nostra Costituzione, redatta nell’immediato dopoguerra quando le macerie morali e materiali del Belpaese erano ancora tutte da sanare. I padri costituenti appartenevano a schieramenti che si equivalevano numericamente: un equilibrio tra realtà con visioni e progetti in aperta antitesi tra loro. Fu così che l’insufficienza numerica e la debolezza decisionale, diedero vita ad un compromesso che partorì la Magna Carta. Un’ambiguità che ci trasciniamo dietro da oltre settant’anni come un paese ibrido sul piano economico, tra statalismo monopolistico e libera iniziativa imprenditoriale. Con l’avvento dei governi di centrosinistra e l’ingresso dei socialisti di Nenni al governo, i democristiani, avidi di potere per il potere, svendettero tutta la tradizione culturale liberal popolare nata nel 1919 con la fondazione del partito popolare italiano di don Luigi Sturzo. Ad essere accantonata fu anche la logica centrista di Alcide De Gasperi. Il tutto solo per dare “via libera” alle nazionalizzazioni ed allo Stato interventista in economia. Insomma: la tesi di un’economia libera, senza interferenze statali di Luigi Einaudi, fu soppiantata dai piani quinquennali che gli apparati centrali redigevano per governare ed incanalare la libertà di impresa (e di iniziativa) entro l’alveo della statalità. Insomma: l’applicazione dell’assunto socialista che debba essere lo Stato a gestire lasciando alla libera iniziativa quel che le sarebbe stato consentito dal legislatore, così come recita J.M. Keynes, padre dell’intervento statale. Nacque in quel modo un mastodontico apparato che ancora oggi vanta “presenze” del ministero dell’Economia in circa diecimila aziende. La scomparsa di ogni idealità tra le fila della Dc, minata, al suo interno, dalla frangia cattocomunista facente capo a Giuseppe Dossetti (i cattolici democratici), consentì la progressiva deriva verso l’imperio dello Stato in ogni ambito economico sociale. Un cripto-socialismo mai dichiarato ma posto al riparo della teorica “vocazione liberale” che però è finita stritolata dagli interessi delle partecipate statali. Queste ultime ripianano i loro debiti ogni anno ed utilizzano i soldi dei contribuenti, chiamati soldi pubblici, per gli investimenti. Una concorrenza gestionale che elude ed appiattisce ogni possibile competizione con altre imprese. In pratica, è stata sapientemente indotta l’idolatria dello Stato il quale viene ritenuto depositario di un’etica dei fini di valore morale superiore, in quanto pubblica, rispetto al privato. Bisognerebbe chiedersi quale superiorità morale si sia avverata con tre milioni di miliardi di euro di debito statale e circa cento milioni annui di interessi passivi!! Sia come sia, la vulgata socialista diventa un assioma in quanto privo di alcuna verifica di produttività, qualità dei servizi, economicità e governance virtuosa. Se la superiorità etica della gestione diventa apodittica non c’è più nessuno che la metta in discussione, tantomeno coloro che utilizzano prebende, stipendi e guadagni nella greppia del denaro pubblico. Alle imprese private, quelle di grandi dimensioni, viene dato il “contentino” sotto forma di fiscalità di vantaggio, denari a fondo perduto, bonus di vario genere come le rottamazioni e gli incentivi statali per i loro prodotti merceologici. Un sistema compromissorio per legare al carro pubblico – ed alla politica che lo governa – anche la parte non gestita dallo Stato. Quest’ultimo, dismettendo le imprese che fanno debiti, le svende, esausto, al privato il quale poi pubblicizza le perdite e privatizza gli utili salvo rivenderle nuovamente allo…Stato per mancati adempimenti di sicurezza, efficienza, prezzo (acciaio, agro-alimentare, autostrade, navigazione, assicurazioni, banche, telefonia)!! E tuttavia guai a toccare altri ambiti più convenienti sotto il profilo del consenso elettorale che se ne può ricavare in ambiti come scuola e sanità. La prima è stata ormai ridotta ad accogliere e parificare: persegue finalità sociali al posto della didattica, con oltre un milione di addetti ai lavori e circa 8 di studenti. La seconda, con seicentomila addetti, è apoditticamente di natura pubblica nella gestione, del tutto priva di rilevatori di qualità, economicità ed efficacia. Una caratteristica costante fatta di lassismo, approssimazione, sperpero di soldi, in perenne deficit nonostante il monopolio della gestione. Per entrambe la colpa viene accollata al privato concorrente che non c’entra nulla. Ora, Giorgia Meloni ed il suo governo si trovano innanzi questo “ballon d’essai”: cambiare o proseguire. Soggiacere, per quieto vivere e durare, alla tentazione statalista o cambiare le cose. Il futuro è tutto qui.
*già parlamentare