Basta guardarsi in giro, ascoltare le gaffe oppure leggere le improbabili ed impalpabili cose che scrivono i politici “sgrammaticati” di questi tempi per accorgersi che il lascito della politica nel terzo millennio ha il valore della sabbia in un deserto. Il perché credo sia noto a molti ma non ai più, ossia a quelli che della politica non si sono mai interessati come dottrina di governo del bene comune. Per intenderci: quelli che si avvicinano ai politici nella veste di clienti-elettori per chiedere qualcosa, quelli che sotterrano i propri talenti senza mai spenderli (se non per se stessi), quelli che si vantano di avere le mani pulite, ben conservate, inoperose nelle tasche dei pantaloni. Salvo poi proferire “peste e corna” nei confronti di quanti si espongono e si sottopongono al responso dell’urna per partecipare alla vita politica e sociale. Costoro si fanno ampollosamente chiamare “esponenti della società civile”. Sono sussiegosi quanto basta e non alzano mai un dito né sono disposti a sacrificarsi per qualcuno. Quando cedono alle blandizie che si accompagnano ad un invito a candidarsi, avanzano pretese confacenti alla stoffa pregiata del “fumo di Londra” ma innanzi alla complessità dell’agire politico mostrano la consistenza scadente del “panno di Prato”. Noi che militammo fin da giovani in un partito ed avemmo maestri che ci insegnarono a farla, la politica, apprendemmo da loro che risolvere i propri problemi è l’egoismo e che risolvere i problemi degli altri è “la” politica (cit. don Lorenzo Milani).
Apprendemmo, leggendo, di valori ed ideali, del dovere di dare una mano, di testimoniare che la democrazia, come la libertà, è una conquista di tutti i giorni e che il disimpegno è disonorevole in quanto espressione delle anime mediocri. Imparammo che senza solidarietà ed umanità il mondo diventa un luogo invivibile e pericoloso e che dalla “Dottrina Sociale” della Chiesa ci arrivava il sollecito, anche come credenti, ad essere partecipi per realizzarla. Apprendemmo anche che non dovevamo cadere nel baratro delle ideologie liberticide che produssero i totalitarismi del secolo breve, che la carica pubblica non santifica chi la ricopre e non è un simbolo di potere, bensì uno strumento per operare. Ci fu insegnato che l’incenso è il fumo più tossico per la mente dell’uomo e che, pur indomiti alla mediocrità, dovevamo essere umili e disponibili. Apprendemmo poi che chi ha idee è forte, chi ha ideali è imbattibile e che si possono anche perdere le elezione ma mai il decoro e la costanza nella fede dei propri ideali. Come lo imparammo? Non occasionalmente ma militando in un movimento politico plurale ove la dialettica ed il confronto erano serrati. Quel partito fu la nostra scuola politica. Aveva come insegna uno “scudo crociato”, bianco nel politico e rosso nel sociale: popolare, antifascista ed anti comunista, liberale e solidale. Lì servimmo con onore. Lì crescemmo, maturammo accompagnati da un leader generoso e lungimirante. Diventammo uomini e donne, che credevano nella politica come servizio. Vi fui accompagnato da un mentore illuminato, dai capelli prematuramente canuti, il sorriso timido, i modi gentili, una vasta cultura dissimulata per umiltà. Si chiamava Giuseppe Santonastaso, un uomo dal carattere intransigente sui principi politici. Gli volli molto bene, come lo si vuole ad un padre che ti dà coraggio, forza e fiducia.
E’ passato un secolo dalla nascita di questo illustre figlio della Terra di Lavoro, di questo uomo tenace ed instancabile, privo di oratoria ma dotato di un’intelligenza straordinaria, che seppe attorniarsi di giovani capaci per farli crescere e per farne i dirigenti del futuro. Non ne tesserò le lodi né enumererò le realizzazioni che sono testimoniate dalle opere e dalle opportunità di cui pure fu il principale artefice. Non lo faccio perché in fondo, ad un padre, ci si lega per stima e per affetto non perché abbia compiuto grandi cose nella vita. Questa è sempre stata la cifra distintiva di un lungo percorso che ancor non abbandona né il mio cuore, né la mia mente.