testata
venerdì 28 febbraio 2025
Spenderemo di più per le armi
Spenderemo di più per le armi
editorialista
di   Gianluca Mercuri

 

Buongiorno.

 

 

«L’Italia è pronta a salire al 2,5 per cento delle spese militari, rispetto al Pil, per la Nato. I conti li stanno già facendo al ministero dell’Economia. In una triangolazione delle ultime ore che coinvolge Palazzo Chigi, Bruxelles, il comando centrale della Nato stessa e il nostro dicastero del Tesoro sono già partiti i calcoli e gli scenari su un aumento radicale del nostro impegno di spesa in seno all’Alleanza Atlantica, come chiede il presidente degli Stati Uniti Donald Trump».

È il «piano Meloni» per l’Italia della nuova era post-atlantica, svelato dal nostro Marco Galluzzo: il governo pare cioè deciso a rispondere alla pressione americana e all’urgenza della crisi senza precedenti nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa, scaturita da quella pressione e dalle ripetute dichiarazioni di ostilità da parte del presidente Usa (ultima: «L’Europa è nata per fottere l’America»).

 

Sia che si riesca a ricucire il rapporto transatlantico, sia che l’Italia costruisca il «rapporto privilegiato» con la nuova America agognato dalla premier, sia che si inserisca in una qualche forma di integrazione militare con i partner continentali, la strada sembra tracciata per un ampiamento delle spese militari che non può essere indolore: non a caso, siamo sfuggiti alla questione per decenni, al riparo dell’ombrello americano. L’ombrello non c’è più, o non è più sicuro. Si procederà dunque più o meno in questi termini:

  • Dall’attuale 1,56%, l’Italia salirà di un punto di Pil, pari a circa 20 miliardi, nelle spese militari da integrare nel sistema operativo della Nato. «È quello che la Casa Bianca sta chiedendo a tutti gli Stati europei, ed è anche uno snodo non indifferente della stessa credibilità di Giorgia Meloni, che con il via libera della Ue potrà ottemperare a un’assunzione di responsabilità che da anni, e con Trump in modo violento negli ultimi giorni, la Casa Bianca chiede anche a Roma», scrive Galluzzo.

  • Se la scelta è fatta sul piano politico, la sua definizione nel dettaglio economico dovrà attendere almeno un mese, ovvero il tempo necessario perché il Consiglio europeo (l’organo che riunisce i capi di governo dell’Ue e che prende le decisioni fondamentali) si pronunci a favore dello scorporo delle spese per la Difesa dal patto di Stabilità, una richiesta che l’Italia fa da anni. Sarà un ok temporaneo, valido per un periodo da concordare, e su cui andranno superate le ultime resistenze. Finora, per esempio, la Germania è stata favorevole allo scorporo solo per le spese sopra il 2,5% del Pil, un limite che renderebbe insostenibile lo sforzo italiano.

  • Due date cruciali nella accelerazione imposta da Trump sono domenica 2 marzo, quando i leader europei si riuniranno a Londra, e giovedì 6, quando i leader dei 27 Paesi dell’Ue si vedranno a Bruxelles. La Gran Bretagna si sta riavvicinando all’Ue e al tempo stesso sta assumendo un ruolo guida nel processo che dovrà portare all’«autonomia strategica» dell’Europa, da capire se sempre più sganciata o in qualche modo ancora legata all’America. In ogni caso, questo processo chiamerà l’Italia a ulteriori scelte sul piano politico.

Sono scelte che richiederanno prese di posizione precise da parte di Meloni. In queste settimane a dir poco sismiche nel sistema delle relazioni internazionali, la presidente del Consiglio si è distinta dagli altri europei che contano per non avere difeso né l’Unione dagli attacchi di Trump – anche le sue pretese sulla Groenlandia sono state derubricate a mossa anti-cinese più che anti europea – né Volodymyr Zelensky dagli insulti distruttivi del presidente americano, scelta parzialmente compensata dal mantenimento della formula «Russia Paese aggressore» condivisa in questi anni con il resto di ciò che era l’Occidente.

Il silenzio di Meloni è stato rotto solo per contestare, con una certa durezza, le iniziative del presidente francese Macron, che ha convocato due vertici europei a Parigi e si è recato per primo a Washington da Trump. Anche il piano abbozzato da francesi e britannici per l’invio di un contingente europeo di 30 mila uomini come forza di interposizione tra russi e ucraini non è stato per niente apprezzato dal nostro governo, che ha fatto sapere di preferire iniziative «sotto l’egida dell’Onu».

Perché è importante notare questi distinguo? Perché da una parte lo statista italiano più autorevole insieme al presidente Mattarella, Mario Draghi, richiama l’Europa alla necessità del do something, «fare qualcosa» per reagire alla crisi innescata da Trump, per superare la logica-illogica dei veti reciproci e muoversi sempre più «come uno Stato solo». Dall’altra, Meloni sembra muoversi in direzione contraria, bocciando tutti i primi tentativi di «fare qualcosa», di farla con chi ci sta, secondo la formula dell’Europa a più velocità che è l’unica ad aver fatto avanzare l’integrazione del continente (per esempio sulla moneta unica).

Il punto è che a «starci», a dare l’idea di volere «fare qualcosa» e con urgenza, sono le tre massime potenze del continente: Gran BretagnaFrancia e anche la rediviva Germania di Friedrich Merz, che è arrivato a prefigurare l’estensione della protezione nucleare anglo-francese a tutto il continente e a dichiarare ormai finito – per volontà di Trump – il legame atlantico.

Le domande sono dunque: Meloni può essere davero più utile all’Italia e all’Europa astenendosi dal condividere queste prime iniziative dei partner naturali e coltivando di più il «rapporto privilegiato» con Trump? O, come la accusano i suoi critici, intende in realtà tornare alle sue antiche pulsioni anti-europee e sovraniste, privilegiare le affinità «valoriali» col trumpismo e sabotare i tentativi di costruire nuclei di Europa più integrata?

In attesa delle (vitali) risposte, può essere utile a tutti una seria definizione dell’interesse nazionale offerta da Angelo Panebianco nel suo editoriale:

«Da un lato, non c’è incompatibilità fra interesse italiano e interesse europeo (avvertimento per chi continua a coltivare, a destra, sogni sovranisti) e, dall’altro, non esiste un interesse europeo che possa mangiarsi, sostituirsi all’interesse italiano (avvertimento per gli euro-entusiasti di sinistra). Dalla sicurezza militare al controllo dei flussi migratori, alla cooperazione economica, non c’è modo, né ha alcun senso, contrapporre interesse italiano e interesse europeo. Così come non ha alcun senso raccontarsi che dobbiamo perseguire l’interesse europeo a scapito dell’interesse nazionale. Poiché c’è un solo modo sensato di definire l’interesse europeo: come il frutto della negoziazione fra interessi nazionali, fra Paesi che convergono su una piattaforma comune pur avendo differenti priorità, sensibilità, tradizioni nazionali. L’interesse europeo è ciò che resta dopo che queste differenze siano state smussate e rese compatibili grazie a concessioni reciproche».

 

 

I due interessi, probabilmente, finiscono poi per coincidere in una fase drammatica in cui l’alleato di sempre ti molla. E se non ti metti con gli altri, gli altri comunque procedono senza di te.

Benvenuti all’ultima Prima Ora di febbraio, che parlerà anche di Ucraina, Papa, bollette, Anm, Fontana, Pkk, Gene Hackman, Cocciante e altre cose che vale forse la pena sapere e leggere.

Che fine farà l’Ucraina?

Spenderemo di più per le armiLeonid Lobchuk, soldato ucraino della 127esima brigata che ha perso una gamba nel 2015, libera il suo tank dal camuffamento, nella regione di Kharkiv (Ap)

La visita di Starmer negli Usa, l’incontro di oggi tra Trump e Zelensky, la risposta dell’Europa all’America: punto per punto.

  • Il vertice alla Casa Bianca Il primo ministro britannico ha scelto lo stesso approccio di Macron: blandire Trump, provare a salvare il salvabile dell’asse transatlantico, ma senza rinunciare a correggerlo pubblicamente. Per esempio, sul fatto che gli europei hanno aiutato l’Ucraina con soldi veri, non prestiti. Starmer ha usato anche la soft diplomacy della casa reale, quella ben nota agli spettatori della serie The Crown, portando a Trump l’invito di re Carlo a Balmoral, nella Scozia dei suoi avi. Ha cercato di convincere Trump a evitare i dazi, e ha messo a posto il vicepresidente Vance quando ha assurdamente accusato il Regno Unito di violare la libertà di espressione: «Noi ce l’abbiamo da molto tempo e ne siamo fieri».

  • Il backstop che serve Starmer ha riconosciuto a Trump un ruolo positivo: «Non penso che l’accordo sarebbe possibile se non ci fosse lo spazio creato da Trump». Ma con quel termine, spiega Viviana Mazza, ha ribadito «la garanzia di sicurezza che gli europei vorrebbero dagli Usa a sostegno di un contingente di truppe del Vecchio Continente dopo un cessate il fuoco in Ucraina».

  • L’ha ottenuta? Resta «una domanda aperta». Trump ha dato l’impressione di considerare come garanzia di sicurezza l’accordo imposto all’Ucraina per lo sfruttamento dei minerali, che firmerà oggi con Zelensky. Ha detto il presidente: «C’è un backstop. Prima devi avere i Paesi europei, perché sono là. Noi siamo molto lontani, c’è un oceano tra di noi, ma vogliamo assicurarci che funzioni. Non so, quando dite backstop, se intendete psicologico o militare, ma noi siamo una barriera di sicurezza perché saremo là, lavoreremo nel Paese».

  • Una Nato a guida UK? E quella che si profila leggendo un documento inviato dagli americani a tutti gli alleati europei, tramite il comando Nato di Bruxelles. Lo ha potuto fare Marco Galluzzo, che rivela: «Gli Stati Uniti hanno comunicato in modo riservato a tutti i Paesi della Ue che d’ora in poi, e sin quando resterà in piedi, il cosiddetto formato Ramstein, il gruppo di contatto che ai Paesi Nato ha aggiunto un’altra ventina di Stati nel punto operativo sull’assistenza militare a Kiev, cambierà leadership: dalla prossima riunione saranno gli inglesi a dettare l’agenda. In sintesi Washington ha già spostato su Londra la responsabilità di proteggere l’Ucraina, e sembra che Starmer si sia assunto volentieri l’onere politico e finanziario. Meloni andrà a Londra domenica con questa consapevolezza, d’ora in avanti il numero utile per ogni cosa che riguarda Kiev potrebbe essere quello di Downing Street». Che di certo le è meno indigesto di quello dell’Eliseo.

  • Ed ecco che arriva Zelensky Il presidente ucraino sarà eroico anche nello stringere la mano all’uomo che sta cercando di demolirlo, che sta probabilmente tradendo il suo Paese e che gli ha estorto con metodi predatori l’accordo sulle terre rare. Un uomo, Trump, che non gli ha mai perdonato di essersi rifiutato di incastrare il figlio di Joe Biden per i suoi interessi in Ucraina. Oggi Zelensky sbarca a Washington per l’incontro forse più importante della sua vita. Lorenzo Cremonesi, che segue le sue vicende da due anni, descrive così il suo approccio: «Negoziare a oltranza, non lasciarsi scoraggiare, neppure dalle offese più gravi e intime: Zelensky sa che il sostegno degli Stati Uniti per l’Ucraina è una questione vitale e oggi a Washington farà del suo meglio per garantirlo. Non importa che Trump l’abbia attaccato personalmente chiamandolo “dittatore impopolare che è stato la causa della guerra” e così distorcendo la sua figura di aggredito in quella del tutto falsa – e funzionale alla propaganda del Cremlino – di aggressore. Lui fa spallucce. “Trump non è stato simpatico nei mei confronti, ma non me la prendo, c’è ben altro in gioco. Il motivo è evidente: c’è da salvare il salvabile. “Senza l’aiuto americano perderemo la guerra”».

  • Sperare disperatamente in Trump È questo il paradosso: con tutto il male che ha già fatto estorcendo agli aggrediti i loro beni e premiando gli aggressori prima ancora di cominciare a negoziare (no a Kiev nella Nato, territori occupati irrecuperabili), Trump resta l’unica speranza. Si tratta di andare a pescarla, la speranza, in certe sue frasi qua e là. Due giorni fa: «Anche la Russia dovrà fare qualche concessione». Ieri a Starmer: «Fidarsi di Putin? Fidarsi ma verificare». E nei mesi scorsi, in campagna elettorale: «Se sarà evidente che Putin non vuole la pace, potremmo armare l’Ucraina meglio che ai tempi di Biden». Riflette Lorenzo: «Solo parole al vento, le solite farneticazioni provocatorie, oppure c’è qualche verità? Vale la pena di esplorarlo».

  • Intanto l’Europa Intanto l’Europa risponde a Trump. Lo fa con le iniziative delle sue maggiori potenze, e lo fa con le sue istituzioni. Fondamentale il vertice straordinario di giovedì 6 marzo, per «prepararsi a un possibile contributo europeo alle garanzie di sicurezza che saranno necessarie per assicurare una pace duratura in Ucraina». Poi, le risposte alla frase di Trump sull’Ue «nata per fottere l’America». Dopo la Commissione Ue, ha parlato il Donald europeo, il premier polacco Tusk, presidente di turno dell’Unione: «L’Ue non è stata costituita per fregare nessuno. Al contrario, è stata creata per mantenere la pace, per costruire il rispetto tra le nostre nazioni, per creare un commercio libero ed equo e per rafforzare la nostra amicizia transatlantica».

L’amicizia forse è finita, l’Europa forse sta cominciando.

Le altre cose importanti

 

Spenderemo di più per le armi

Come sta il Papa?

 

«Le condizioni cliniche del Santo Padre si confermano in miglioramento»: quello di ieri è stato uno dei bollettini più ottimisti tra quelli diffusi dal Policlinico Gemelli negli ultimi giorni, infatti stavolta a precedere l’indicazione del «miglioramento» non c’era neanche l’aggettivo «lieve». Sembra lontana insomma la drammatica giornata di sabato, quando sono state necessarie trasfusioni e alti flussi di ossigeno per salvare il Papa da un soffocamento da asma.
La situazione, sottolinea Gian Guido Vecchiresta comunque critica, e la prognosi non può essere sciolta, «considerati l’età del Pontefice (88 anni) e il fatto che le difficoltà motorie ne hanno appesantito il fisico». Per cui «si continua a navigare a vista». Di sicuro, mercoledì 5, all’inizio della Quaresima, Francesco non sarà all’Aventino per la tradizionale messa con l’imposizione delle Ceneri.Bollette, decreto in arrivo

Dopo il duro scontro tra Meloni e Giorgetti – la premier aveva bocciato le misure in quanto «insufficienti e inefficaci» per i soggetti vulnerabili, il ministro aveva reagito facendo trapelare un «non si fa così» – il governo sembra aver trovato la quadra sul decreto bollette, che dovrebbe destinare quasi 3 miliardi alla riduzione dei costi per luce e gas delle famiglie e delle imprese.

L’intervento si è reso necessario, ricorda Enrico Marro, dopo che «negli ultimi sei mesi, il prezzo del gas è salito da circa 35 euro al megawattora al picco di 58 euro del 10 febbraio, per poi cominciare una lenta discesa (ieri ha chiuso a 45,10). Di conseguenza le bollette della luce e del gas sono aumentate. Secondo le stime di Facile.it, per una famiglia tipo la maggiore spesa nel 2025 nel mercato libero con contratto a tariffe variabili sarebbe di circa 350 euro».

Il bonus funzionerà a scaglioni, così: «Verrà aumentato il tetto Isee entro il quale si ha diritto al bonus sociale sulle bollette: dagli attuali 9.530 euro a 25 mila (e da 20 mila a 30mila per le famiglie con almeno 4 figli a carico). In questo modo la platea interessata allo sconto in bolletta (ora quello per la luce va da 13,8 a 19,8 euro al mese a seconda dei componenti del nucleo familiare) dovrebbe all’incirca raddoppiare arrivando a quasi 8 milioni. Il bonus, però, non sarà più di importo unico, ma modulato per fasce di Isee: lo sconto sarà più alto per chi ha un basso indicatore sintetico della situazione economica della famiglia e viceversa».

La breve durata delle misure non piace ovviamente alle associazioni dei consumatori: «Limitare a soli tre mesi la durata dei provvedimenti in tema di bollette è una presa in giro», protesta il Codacons.

Lo sciopero dei magistrati

L’Associazione nazionale magistrati esulta per il successo della protesta contro la riforma della magistratura che punta alla separazione delle carriere tra inquirenti e giudicanti: 80% di adesioni e iniziative di impatto come quella del Palazzaccio di Roma, con esponenti di tre generazioni di magistrati che si sono fatti fotografare con la Costituzione in mano.

«Abbiamo contraddittori forti, i cui interessi forse non collimano con i nostri, ma soprattutto con quelli dei cittadini» ha commentato il neo presidente dell’Anm Cesare Parodi. Per ora, spiega Giovanni Bianconi, il fatto che Parodi appartenga alla corrente di destra della magistratura non sembra avere spostato gli equilibri della partita, che vede «destra e sinistra togata unite (insieme al centro) in attesa della prossima mossa del governo».

L’esecutivo, da parte sua, continua a esibire disponibilità al «dialogo», una scelta della premier dopo gli scontri aspri degli ultimi mesi e le continue accuse di intenti «politici» ed «eversivi» rivolte dalla maggioranza (e dalla stessa leader) ai magistrati in occasione di sentenze sgradite. Il 5 marzo Meloni incontrerà Parodi: l’offerta di pace, scrive Marco Cremonesi, potrebbe contenere ritocchi della riforma come sorteggio «temperato» dei membri del Consiglio superiore della magistratura e allargamento dell’Alta corte disciplinare alle magistrature contabili e amministrative, ma nessun passo indietro sullo sdoppiamento del Csm (qui tutti i punti della riforma: cosa cambia e quali sono le criticità).

Difficile dunque che l’incontro segni una svolta: «Chiariremo che vogliamo difendere non qualche privilegio di casta bensì la Costituzione – annuncia Parodi -, sentiremo le ragioni della presidente del Consiglio e quello che avrà da dirci. Ma non mi aspetto granché».

I magistrati, intanto, incassano con soddisfazione il sostegno rinnovato da un principe del foro come Franco Coppi, già avvocato di Andreotti e Berlusconi. Ieri era presente all’iniziativa di Roma, dove è stata ricordata una sua frase: «Non ho mai perso un processo a causa della comune appartenenza di giudice e pm allo stesso ordine, mentre aspetto ancora di sapere quali vantaggi porterebbe separarne le carriere».

Il processo Saman

È iniziato ieri a Bologna il processo d’appello per il femminicidio di Saman Abbas, la ragazza italiana di 18 anni uccisa dalla sua famiglia pachistana nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021 perché non voleva accettare un matrimonio combinato. Nell’udienza si sono rivisti dopo oltre due anni Nazia Shaheen e Shabbar Abbas, i genitori di Saman, condannati in primo grado all’ergastolo ma senza l’aggravante della premeditazione. A uccidere materialmente la ragazza fu lo zio Danish Hasnain, condannato a 14 anni.

Il processo è iniziato con un colpo di scena: la Corte vuole risentire il fratello della ragazza, Ali Heider, all’epoca dei fatti minorenne, che nel processo di primo grado accusò anche due cugini ma fu ritenuto non credibile. Scrive Alessandro Fulloni che alla ripresa, il 6 marzo, si prospetta «un’udienza lacerante per Heider, forse in videocollegamento o forse al riparo di un paravento: ad ascoltarlo, il padre, che lo aveva minacciato, e la madre a cui era legatissimo. Lui le telefonava dall’Italia e lei insisteva: “Figlio, ritratta”».

Perché è importante? Perché, in tutta evidenza, il caso Saman non è chiuso e a distanza di due anni e mezzo dal ritrovamento del corpo mantiene tutta la sua valenza drammatica: oppressione, familismo e omertà come ostacoli alla liberazione di tante giovani italiane di seconda generazione. E libertà femminile come chiave contro tutti i fanatismi culturali e religiosi.

Fontana: «Lombardia declassata? Puttanate»

La classifica del ministero della Salute sulla qualità di cura nelle Regioni, che ha visto retrocedere la Lombardia dal primo al settimo posto, ha fatto infuriare il governatore leghista, che ha ipotizzato una sorta di complotto anti- lombardo, con l’inconveniente che sarebbe maturato all’interno di un governo di cui fa parte il suo partito: «Sono cose assolutamente inaccettabili. I parametri indicati non hanno niente a che vedere con il funzionamento della sanità, sono cose cervellotiche che hanno l’obiettivo di penalizzarci».

Fontana ha pensato di essere più chiaro aggiungendo questo concetto: «Sono tutte, se posso usare un termine giuridico, puttanate». E ancora: «Quello che succede a Roma ci riguarda fino a un certo punto. Anzi, non vogliamo neanche pensare che ci riguardi. La Lombardia, proprio perché è la migliore, sta sulle balle a tutti. Continuiamo a ricevere da Roma attacchi ingiustificati per crearci difficoltà. Qui prima le cose le facciamo. In altre parti del Paese se ne dicono tante».

Il ministero della Salute ha replicato così: «L’obiettivo del monitoraggio non è penalizzare le Regioni, ma assicurare ai cittadini l’erogazione delle prestazioni a cui hanno diritto. La reazione del governatore Fontana appare pertanto mal indirizzata e il linguaggio utilizzato comunque inopportuno».

L’addio alle armi di Ocalan«Tutti i gruppi devono abbandonare le armi, il Pkk deve sciogliersi. Mi prendo la responsabilità di questo appello». Con questo messaggio, letto nel corso di una conferenza stampa a Istanbul da esponenti del partito filo-curdo Dem, lo storico leader del Pkk (Partito dei lavoratori curdi) Abdullah Ocalan ha chiuso – almeno a parole – il conflitto con lo Stato turco, che in 40 anni ha causato 40 mila vittime. Le parole di Ocalan – che dal 1999, dopo il breve soggiorno in Italia, è incarcerato nell’isola di Imrali, a sud di Istanbul – sono il culmine del processo di pace avviato nei mesi scorsi dal nazionalista turco Devlet Bahceli, con la benedizione del presidente Erdogan. Sul piatto, in cambio della pace, potrebbero esserci la liberazione di Ocalan e una forma di autonomia per i curdi di Turchia. Da capire invece i possibili sviluppi in Siria, dove dopo la caduta del regime di Assad le forze filo turche continuano a fronteggiare i curdi siriani, che la Turchia vorrebbe isolare con una zona cuscinetto lungo il confine.Sullo sfondo, le manovre di Erdogan per restare al potere, conquistato nel lontano 2003. Il presidente, spiega Monica Ricci Sargentini, «deve trovare il modo di potersi candidare per un terzo mandato presidenziale nel maggio 2028 ma questo sarebbe possibile solo se si modificasse la Costituzione turca. A questo scopo gli farebbero gioco i voti dei curdi, il partito Dem, il cui leader Selahattin Demirtas è in prigione. In più, in questo modo, il Sultano, come viene chiamato, si presenterebbe all’elettorato come colui che ha posto fine al sanguinoso conflitto».Israele non lascia GazaIl premier Benjamin Netanyahu ha deciso di non ritirare le truppe dal corridoio Filadelfia, la lingua di terra a ridosso del confine tra Striscia di Gaza ed Egitto, che era previsto dalla tregua concordata con Hamas e richiesto con forza dal governo del Cairo. Netanyahu sembra ormai orientato a non passare alla fase 2 dell’accordo, che prevederebbe cessate il fuoco e ritiro israeliano definitivi: il premier insiste sul fatto che la guerra totale contro Hamas riprenderà. Intanto è disposto solo a estendere la fase 1 – che doveva terminare con la restituzione di 4 cadaveri di ostaggi, avvenuta nella notte tra mercoledì e ieri – fino alla consegna dei 59 ostaggi rimanenti, di cui meno della metà sarebbe viva.Intanto l’estrema destra continua a spingere per il piano Trump, ovvero il progetto di pulizia etnica dei palestinesi – altre possibili definizioni: deportazione di massa, crimine di guerra, crimine contro l’umanità – lanciato dal presidente americano, nella più vergognosa delle sue sortite di questo mese. Dice il ministro della Difesa Israel Katz: «Sto preparando il porto e l’aeroporto per permettere agli arabi di andarsene». Gli arabi, cioè i palestinesi, non lo faranno.In rete, intanto, è virale la risposta al video trumpiano su Gaza trasformata in una Miami del Mediterraneo: qui si vedono Trump, Netanyahu, Biden, Musk e anche Meloni cospargersi di creme e giocare sulla spiaggia di fronte a un mare di sangue.Ieri un palestinese di Jenin ha travolto a Haifa un gruppo di israeliani a una fermata dell’autobus, ferendone 14. La Cisgiordania, dopo la deportazione di 40 mila persone da tre campi profughi, è sull’orlo dell’esplosione. L’ultradestra israeliana non nasconde l’obiettivo di una deportazione di massa.Cordone sanitario anche in AustriaOvvero, si va verso un accordo tra liberali, conservatori e socialdemocratici per un’alleanza di governo che, come in Germania, escluda l’estrema destra di Herbert Kickl, che a settembre ha preso il 29% e sta crescendo ancora nei sondaggi grazie, scrive Irene Soave, a una «agenda populista e filorussa, programmi drastici sui migranti, posizioni no-vax durante la pandemia: un tesoro elettorale in un Paese che non è nella Nato, importa ancora il gas russo, e ha avuto uno dei tassi più bassi d’Europa di adesione alle campagne». Kickl ha provato a formare un governo con i conservatori ma resterà volentieri all’opposizione per lucrare ulteriormente sulle prevedibili difficoltà della nuova maggioranza.
Il caso Hackman
Ieri è stata a lungo la notizia dominante sui siti: la morte di Gene Hackman, 95 anni, e della moglie Betsy Arakawa, 63, fa impressione sia per la fama dell’attore, che aveva 95 anni, sia per circostanze della scomparsa: i corpi sono strati trovati nella villa di Santa Fe, in New Mexico, in due stanze diverse, lui in cucina lei in bagno, il flacone di pillole aperto, «senza segni di traumi», e già senza vita da almeno 24 ore. La polizia non esclude nessuna pista, «omicidio, suicidio, morte accidentale o cause naturali». Secondo la famiglia, la coppia sarebbe morta per avvelenamento da monossido di carbonio.Qui il ritratto dell’attore firmato da Paolo Mereghetti: «I ruoli che hanno reso celebre Gene Hackman, i mille volti e quell’inconfondibile lampo negli occhi»; qui il ritratto di Arakawa, di Renato Franco; qui il blob con tutte le migliori interpretazioni di Hackman.La sconfitta del MilanE la vittoria del Bologna, nel recupero che completa la classifica di Serie A: 2-1 per gli emiliani, che rimontano con Castro e Ndoye il vantaggio di Leao. La crisi del Milan si fa pesantissima: 8 punti di distacco dal quarto posto e l’allenatore Sergio Conceiçao che si dice pronto ad andarsene «senza un euro»: la cronaca di Carlos Passerini.Da leggere/ascoltareL’intervista di Andrea Laffranchi a Riccardo Cocciante (tra poco sul sito): «Margherita è un’allegoria e all’inizio non mi piaceva, avevo il complesso della statura e la musica è stata la mia rivalsa»,Il podcast Giorno per giorno, con Monica Ricci Sargentini su Ocalan, Paolo Valentino sul governo austriaco e Sara Bettoni sulla furia del governatore lombardo contro il ministero della Salute: potete sentirli qui.Il Caffè di GramelliniL’idiotaDoveva succedere ed è successo, anche molto in fretta. Javier Milei, il sodale argentino di Trump che vuole cambiare il mondo a colpi di motosega, ha ripristinato le parole «idiota», «imbecille» e «ritardato mentale» per definire i disabili cognitivi nei documenti del governo. Va detto che le aveva già ampiamente sdoganate contro i bersagli politici, a cominciare dal Papa suo connazionale. Siamo sprofondati in un circolo vizioso: il linguaggio di Milei è una reazione al politicamente corretto, che a sua volta nasceva come reazione al linguaggio di Milei (e di quelli come lui).Il politicamente corretto irrita per quanto è stucchevole, il linguaggio di Milei per quanto è violento. Entrambi fanno venire l’orticaria, ma il primo offende solo il buon senso, il secondo anche le persone. L’uno è ipersensibile, l’altro insensibile. Sarebbe auspicabile una via di mezzo affidata al buon gusto e all’umanità dei dicitori, ma sono materie che nella scuola della vita non si insegnano più. Così eccoci alle prese con l’eterno pendolo della stupidità umana, che adesso batte le ore della rivincita contro gli eccessi della cultura «woke». E non sorprende che sia una rivincita sguaiata, perché in chi la cavalca prevale un dispetto, se non un disprezzo, per qualunque forma di fragilità: psicologica, fisica, sentimentale. C’è una ostentazione aggressiva e tracotante delle proprie ricchezze e delle proprie certezze che sarà anche molto liberatoria, ma certo è ben poco liberale.Grazie per aver letto Prima Ora, e buon venerdì (qui il meteo).(gmercuri@rcs.itlangelini@rcs.itetebano@rcs.itatrocino@rcs.it)

testata
giovedì 27 febbraio 2025
Burattinai d’America, dubbi sul Jobs Act, cosa ci dice il caso Pelicot
Burattinai d'America, dubbi sul Jobs Act, cosa ci dice il caso PelicotElon Musk e Donald Trump nello Studio ovale
editorialista
di   Luca Angelini

 

Bentrovati.

 

Chi tira i fili Un esperto di tecnologia e comunicazione digitale è convinto che ci sia un metodo (comunicativo) dietro le sparate a raffica di Donald Trump. Ma siccome c’entrano le analisi dei dati e c’è di mezzo Elon Musk, gli viene qualche dubbio su quale dei due sia il burattino e quale il burattinaio.

Il referendum sul Jobs act Non è facilissimo, per usare un eufemismo, capire le ragioni a favore e contro l’abolizione del Jobs act e il ripristino dell’articolo 18. Si capiscono meglio quelle politiche e simboliche, tra lotta al «renzismo» e riavvicinamento alla Cgil. Alessandro prova a ricostruire la vicenda, che vede il Pd in una situazione difficile.

Gli stupratori della porta accanto Il processo per le violenze su Gisèle Pelicot si  è concluso a dicembre con condanne relativamente lievi per i co-imputati di Dominique Pelicot. La sentenza non è bastata a spiegare perché uomini «normali» abbiano potuto compiere simili reati, senza sentirsi colpevoli. Lo fa adesso, racconta Elena, un’analisi della filosofa Katie Ebner-Landy.

Braccio della morte Nell’appuntamento settimanale con Amnesty International, Riccardo Noury ci riporta negli Stati Uniti: la Louisiana, dopo 15 anni, ha ripristinato la pena di morte. E con un metodo atroce.

La Cinebussola Paolo Baldini ci parla di un film che per la regista bosniaca Mersiha Husagic è stato anche una terapia.

Buona lettura!

Rassegna americana
Ma tra Trump e Musk chi è il burattino e chi il burattinaio?
editorialista
Luca Angelini

 

I lettori di questa Rassegna sanno che abbiamo già espresso i nostri dubbi sul fatto che Donald Trump sia un novello Nixon, o un redivivo Kissinger, con una precisa strategia di politica estera. In compenso, dopo una giornata come quella di ieri, in cui ha mescolato insulti e promesse di dazi all’Unione europea («È nata per truffarci»), minacce ai dipendenti pubblici Usa, altolà a Zelensky («Si scordi la Nato»), il rilancio di un video sulla «Gaza Riviera» e altre cose che, da sole, avrebbero meritato titoli su titoli, siamo abbastanza propensi a credere a quel che ha scritto Luca De Biase, fondatore e Direttore di Nòva, settimanale di scienza, tecnologia e innovazione del Sole 24 Ore, sul fatto che probabilmente c’è del metodo (almeno comunicativo) in tanta apparente follia.

 

 

Per i suoi sostenitori, l’«incontrollabile flusso di opinioni» che Trump riversa a ogni ora del giorno e a volte della notte su social e media è il «frutto di una persona autentica che si esprime con grande spontaneità». Usando parole semplici e giudizi netti: quello che fanno gli avversari è quasi sempre «molto cattivo» e quello che realizzano gli amici è ovviamente «bellissimo». Meno precisi e netti sono numeri e contenuti, visto che le affermazioni imprecise o infondate fatte da Trump nel corso della sua prima presidenza si contano, stando a chi si occupa di fact checking, nell’ordine delle decine di migliaia.

 

 

Ma, a parte il fatto che già un anno fa un’analisi del Washington Post (pubblicata anche dal Foglio), segnalava che «Trump ha fatto passi significativi nel convincere i repubblicani che le sue bugie sono la verità», cosa che non costituisce un grande incentivo a darsi una regolata, secondo De Biase c’è di più: «Unendo i puntini e qualche informazione si possono riconoscere in effetti i tratti di una strategia di comunicazione organizzata in tre punti. Il primo capitolo di quella strategia è la massimizzazione dell’effetto delle dichiarazioni, da ottenere utilizzando un insieme di strumenti che aiutino nella scelta degli argomenti da sollevare, dei tempi per pubblicare e dei target ai quali rivolgere i messaggi. Gli strumenti disponibili per questo genere di operazioni sono numerosi. Si possono citare Sprout, Hootsuite, Planly e molti altri. Sicuramente incrociando modelli a base di intelligenza artificiale si possono ottenere risultati molto importanti». Per esempio X, di Elon Musk, ha sviluppato Radar, in grado di riconoscere, analizzando un’enorme mole di dati, gli argomenti più importanti in ogni momento della giornata, con una distinzione per tipo di audience. «Di certo – scrive De Biase – Trump, anche grazie appunto all’appoggio di Musk, può godere delle migliori informazioni possibili per massimizzare il traffico e l’efficacia dei messaggi da esternare».

 

 

Un secondo pilastro della strategia comunicativa di Trump è «l’analisi delle reazioni del pubblico alle sue esternazioni. È del tutto evidente che nella quantità di cose che il presidente dice, alcune vengono ribadite in continuazione, altre abbandonate. Questo non è solo una naturale volubilità umana. È anche frutto dell’analisi: se il pubblico si appassiona a un argomento vale la pena di insistere. Se una questione non interessa, si può tralasciare».

 

 

Il terzo pilastro, che sembra decisamente confermato da una giornata come quella di ieri, è stato ben spiegato, secondo De Biase, da Steve Bannon, ex stratega di Trump, riciclatosi come leader dei «Maga duri e puri», i trumpiani più radicali. «Bannon sosteneva che Trump deve dire ogni giorno molte cose, decidere su diversi argomenti: se Trump riesce ad avere ogni giorno almeno tre novità da proporre all’attenzione dell’elettorato, dei giornali e degli avversari politici, vincerà. Perché, sostiene Bannon, i Democratici e i giornali non riescono ad approfondire che un argomento alla volta. E dunque la quantità di novità renderà difficile per i critici bloccare l’azione del presidente».

 

 

Ci permettiamo di obiettare che i media e i lettori – americani e non – sono in grado, volendo, di approfondire più di un argomento alla volta (forse è anche per quello che Trump ne ha bandito più di uno dalle stanze del potere). Ma è innegabile che, a volte, si faccia davvero fatica a tenere il passo delle esternazioni a raffica sparate dall’inquilino della Casa Bianca.

 

 

De Biase fa un’altra osservazione interessante: «Probabilmente Musk la pensa in modo simile. Lo ha dimostrato durante la campagna elettorale. Sui social aveva potenzialmente avversari importantissimi, come Taylor Swift e le altre star del cinema e della musica che avevano deciso di appoggiare la candidata democratica Kamala Harris. Le centinaia di milioni di seguaci di Musk non erano certo di più della somma dei seguaci di quei personaggi amatissimi dal pubblico americano. Eppure, con tutta evidenza, Musk ha influito di più: ha scritto almeno cento post al giorno per la campagna e duecento l’ultimo giorno. Nella quantità non ha incontrato opposizione e ha spinto l’attenzione del pubblico nella direzione voluta».

 

 

Anche ammesso che la voce di Hollywood e dello star system non sia la più gradita alle orecchie di chi si sentiva e si sente «lasciato indietro», è difficile negare che Musk, come Trump, sappia come guadagnarsi – nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista – il centro della scena.

 

 

Tant’è che, a proposito della «variabile Musk» di cui abbiamo parlato nella Rassegna di ieri, De Biase si fa una domanda: «Se Musk è tanto avanti nella competenza e nella strumentazione necessaria a conoscere che cosa conviene dire per massimizzare l’effetto politico delle esternazioni, riuscirà a consigliare il presidente con tanta efficacia da convincerlo a dire quello che ritiene più giusto? Si può immaginare che l’imprenditore possa conquistare un’influenza sproporzionata sul discorso del presidente, guidandone le esternazioni? Molti, in effetti, si domandano chi tra i due sia il burattinaio. E la domanda resta aperta, come i sospetti che la risposta sia la meno ovvia».

 

 

Fermo restando che, mentre Trump può cacciare Musk, Musk non può cacciare Trump e nemmeno pensare un giorno di sostituirlo, essendo nato in Sudafrica e non negli Usa, forse vale la pena ricordare che, sul Corriere, il costituzionalista Sabino Cassese ha definito i«grandi oligarchi delle tecnologie digitali» come «gli unici sovrani autenticamente e geneticamente universali».

 

 

E Massimo Gaggi, commentando il video di Musk e Trump insieme dentro la Casa Bianca ha scritto, sempre sul Corriere: «Di fatto Musk rivendica pieni poteri con l’assenso di Trump e per la prima volta ammette quello che scriviamo da mesi: l’obiettivo dei tecnologi trumpiani era quello di trasferire nella macchina del governo di Washington la logica della rivoluzione imprenditoriale della Silicon Valley fissata nello slogan “muoviti velocemente e sfascia tutto”. (…) Ormai l’invettiva e la rivendicazione enfatica contano più della fredda, e assai meno attraente, realtà dei fatti. Così Musk può sostenere che l’azione del suo Doge è legittima anche perché assolutamente trasparente, anche se, in realtà, fin qui la task force si è mossa in segreto e lui ha definito addirittura un crimine la pubblicazione dei nomi di suoi membri da parte della stampa. E la trasparenza? La fa lui mettendo su X le informazioni che gli garbano. E il conflitto d’interessi, visto che le sue aziende hanno contratti miliardari col governo? Non c’è perché quei contratti non li firma personalmente lui».

 

 

Qualche riflessione aggiuntiva, che tocca anch’essa il ruolo di Musk e la questione della trasparenza, l’ha fatta, su Internazionale, Jayati Ghosh, mettendo a confronto le mosse di Donald Trump e quelle del premier indiano Narendra Modi, che ha imposto una svolta autoritaria al Paese, in nome del nazionalismo indù. «Per quanto possano sembrare diversi, i leader autoritari di oggi si studiano a vicenda, non per governare meglio, ma per esercitare una presa più stretta sul potere. Al centro di questi sforzi c’è il controllo dei dati, che conduce a un cambiamento epocale nell’accesso alle informazioni pubbliche. Anche se i cittadini di tutto il mondo sono sempre più spesso costretti a fornire i loro dati personali a leader autoritari e ai loro alleati – come Elon Musk e i suoi collaboratori del dipartimento per l’efficienza del governo (Doge) – non possono accedere alle informazioni necessarie per pretendere che quegli stessi leader si assumano le loro responsabilità».

 

 

Pensate, tanto per fare un esempio, all’estenuante tira e molla con cui Trump, durante la sua prima presidenza, si era opposto alla pubblicazione della sua dichiarazione dei redditi a paragone della leggerezza con cui si è cercato di dare dati personali degli americani in pasto alla squadra del Doge (leggerezza tale da provocare l’intervento dei giudici).

 

 

In India, prosegue Ghosh, «Modi ha trasformato in un’arma gli istituti di statistica, un tempo i più affidabili nel mondo in via di sviluppo. Il premier indiano ha politicizzato la commissione nazionale di statistica, in origine un organismo indipendente responsabile della verifica e della supervisione della raccolta dei dati ufficiali. Poi ha preso di mira l’Ufficio centrale di statistica, che raccoglie la maggior parte dei dati economici e ne ha distrutto la credibilità. Il governo ha talmente paura dei dati da aver cancellato perfino il censimento decennale del 2021, senza dire quando si farà».

 

 

La commentatrice indiana rimane convinta che gli Stati Uniti abbiano anticorpi più robusti per resistere all’uso politicizzato dei dati personali. Ma invita comunque a non abbassare la guardia: «Forse gli Stati Uniti non seguiranno la traiettoria politica dell’India. Le loro istituzioni, in particolare il sistema giudiziario, possono fornire una certa protezione, a patto che siano solide. In un contesto in cui l’autoritarismo è in crescita, però, dobbiamo contrastare i tentativi di trasformare i dati nelle mani dei governi in armi contro la democrazia».

 

Rassegna politico-sindacale
Jobs act, perché c’è un referendum e perché il Pd è diviso
editorialista
Alessandro Trocino

Il prossimo referendum primaverile sul Jobs act, che punta a ripristinare l’articolo 18 dei lavoratori, è una spina nel fianco del Pd, ma anche un problema per chi voglia capirsi qualcosa e voglia orientarsi al voto che ci aspetta. Proviamo a capire allora il percorso di queste norme, dal varo del 2015 della legge Renzi fino al prossimo referendum. Riepilogone, con analisi di quel che ha funzionato o meno ed epilogo sulla posizione scomoda del Pd. Cominciamo.

Cosa stabiliva il Jobs act e cos’è l’articolo 18?

Tecnicamente il quesito punta ad abolire la riforma introdotta dal governo Renzi nel 2015 e chiamata «Jobs act» per emulazione con un analogo provvedimento varato da Obama. L’obiettivo era quello della famosa, e per certi versi famigerata flessibilità. Con il Jobs act si introducevano molte novità, la più dibattuta di tutte era il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In sostanza fino ad allora le imprese medio-grandi (con oltre 15 lavoratori) non potevano licenziare, se non per motivi di discriminazione e simili. Nel caso di licenziamento illegittimo, c’era la «tutela reale», ovvero il reintegro obbligatorio nell’azienda. Con il Jobs act, in caso di licenziamento illegittimo entro i tre anni, il reintegro non è più obbligatorio e in caso di licenziamento si ha diritto solo a un indennizzo, da 4 a 24 mesi a seconda dell’anzianità.

Quanti erano i reintegri fino ad allora?

 

Bruno Anastasia, su Lavoce.info, spiega che non ci sono statistiche disponibili e che comunque il numero sembra molto basso. Più facilmente, dice, succedeva che c’era un lunghissimo iter giudiziario per ottenere indennizzi. Tanto lungo che alla fine, dovendo pagare anche le mensilità intercorse tra l’inizio e la fine della causa, questo iter spaventava le aziende «ed era un fortissimo effetto deterrente: non solo sui licenziamenti, anche sulle assunzioni a tempo indeterminato».

 

Cos’è successo dal 2015?

 

L’obiettivo di chi ha introdotto il Jobs act era ottenere più «flessibilità». Nel senso che, sapendo le aziende di non essere costrette a tenere lavoratori in caso di difficoltà o crisi economiche, avrebbero assunto più facilmente a tempo indeterminato. Le aspettative, dunque, erano due: l’incremento delle assunzioni a tempo indeterminato da un lato e un (modesto) incremento dei licenziamenti.

 

 

Cosa è successo dunque in questi anni? Lo spiega Anastasia: «Le assunzioni a tempo indeterminato esplodono: a fine 2015 sfioreranno i 2 milioni, record tuttora imbattuto e probabilmente imbattibile. Alle assunzioni si aggiungono oltre mezzo milione di trasformazioni da tempo determinato con un saldo complessivo di quasi 900 mila unità, anch’esso un valore mai più visto». Bene, ma è merito del contratto a tutele crescenti e quindi del jobs act? No, dice Anastasia. Due mesi prima era stato introdotto l’«esonero triennale». Senza entrare nei tecnicismi, a questo si deve soprattutto l’esplosione delle assunzioni a tempo indeterminato. Nel 2015 c’è stato il pieno di assunzioni e anche per questo nel triennio successivo la crescita è stata modestissima. Dal 2017, invece, aumentano i contratti a termine. Strano, non dovevano essere riassorbiti nel contratto a tutele crescenti? Ma non è così, perché «gli habitus mentali non si modificano con una norma».

 

Il decreto dignità

 

Poi, nel 2018, arriva il decreto «dignità». Come si evince dal nome, turbopopulista, è voluto dal governo giallo-verde (Lega-M5S). L’obiettivo è contrastare la precariatà e incentivare il tempo indeterminato, come sempre. La durata dei contratti a termine scende da 36 a 24 mesi, i rinnovi possibili da 5 diventano 4 (max 24 mesi). Sono introdotte le causali, dopo il primo contratto. Si dà un contributo addizionale dello 0,5 a chi assume a tempo indeterminato. L’indennità di licenziamento illegittimi prevista dal jobs act sale: da un minimo di 6 a un massimo di 36 mesi (prima era 4 e 24 mesi).

 

Che effetto ha questo decreto «dignità»?

 

Effettivamente le trasformazioni in tempo indeterminato salgono e superano, nel 2019, le 700 mila unità. I nuovi contratti a termine, però, restano stabili, sopra i 4 milione. «Abolire la precarietà», commenta Anastasia, «resta un programma troppo vasto».

 

E i licenziamenti?

Il rischio che si temeva con il Jobs act, abolendo il reintegro, era un boom dei licenziamenti. Anastasia dice che c’è stata una modesta risalita nei primi mesi del 2016, ma niente di che. E questa risalita è dovuta soprattutto a un cambiamento di comportamento delle aziende cinesi, che passano dalle dimissioni online (troppo complicate) ai licenziamenti. Al contrario, questi ultimi tendono a diminuire, per effetto del rialzo dell’economia. Poi arriva la pandemia, e cambia tutto.

Riassumendo

 

Stando a quello che dice Anastasia, ecco cosa è successo alle tre variabili da considerare dopo l’abolizione dell’articolo 18:

 

Licenziamenti: non c’è stato un boom, come temuto.
Assunzioni a tempo indeterminato: sono aumentate, ma non per effetto dell’abolizione.
Contratti a termine: c’è stato un aumento iniziale e poi un assestamento.

Pietro Ichino, uno dei punti di riferimento del riformismo, conferma e aggiunge: «Nell’ultimo decennio, da quando il Jobs act è in vigore, non soltanto è aumentato costantemente il tasso generale di occupazione (raggiungendo il record assoluto dei 24 milioni), ma è anche aumentato costantemente il tasso di occupazione a tempo indeterminato, mentre l’occupazione a tempo determinato è rimasta sostanzialmente ferma».

Ed eccoci al referendum

Ovvia la posizione di Anastasia, sulla base dei dati raccontati. I referendum saranno la strada maestra per migliorare le condizioni di lavoro, per ridurre la precarietà e aumentare la durata dei contratti? «Per pensarlo, ci vuole coraggio, ottimismo e soprattutto la ferrea determinazione a ignorare tutte le statistiche».

 

C’è anche una questione tecnica. Il Jobs act è stato già ampiamente ridimensionato dalla Corte costituzionale. E se venisse cancellato, tornerebbero in vigore norme peggiorative della legge Fornero (come quella che fa tornare da 36 a 24 mensilità l’indennizzo massimo, che era stato alzato dal decreto dignità).

 

E allora il Pd?

 

Mai come in questo momento, la situazione è delicata per il Pd. Il Jobs act fu introdotto da Renzi, allora segretario dem. Elly Schlein ha fatto esplicita campagna contro il Jobs Act e per il ripristino dell’articolo 18. Ha firmato il referendum, ben sapendo che sono molti dentro il Pd a rinnovare fedeltà a quella legge. La questione è anche simbolica: si tratta di seppellire la stagione renziana e di riavvicinarsi a sinistra, rimettendosi al fianco dei lavoratori e della Cgil. Se è così, un pezzo del partito non sarà d’accordo.

 

La materia, insomma, conta poco. Perché è confusa, come abbiamo visto, contraddittoria, con valenza più simbolica che reale. E con il concretissimo rischio che non si raggiunga il quorum (mai come stavolta si può parlare di uso improprio dei referendum abrogativi, che dovrebbero essere riservati a questioni di principio). A dare consistenza al sospetto che si tratti di una manovra in qualche modo ideologica, c’è il discorso che fa Marco Sarracinointervistato da Andrea Carugati sul manifesto: «Nella stagione del Jobs act rompemmo non solo con il sindacato ma anche con il mondo della scuola e con chi votò per il referendum delle trivelle. Tutti ricorderanno il famoso “ciaone”. Fu uno dei punti più bassi della nostra storia politica, la causa di una saldatura sociale che ci mise all’angolo. Ora c’è stata una riconnessione sentimentale con mondi che ci avevano abbandonato. I referendum sono una opportunità per sanare definitivamente quelle ferite».

 

Dice una cosa simile Andrea Orlando, che pure non ha firmato il referendum: «Penso che se noi non fossimo chiari nell’esplicitare la nostra adesione ai referendum comprometteremmo un riposizionamento che dal punto di vista dei risultati elettorali ha consentito di ricostruire un rapporto con un pezzo del mondo del lavoro, che è parte di quel risultato delle europee».

 

 

Alla Direzione del partito di ieri, dopo un’intensa trattativa con la minoranza di Energia popolare (la corrente riformista), Schlein ha confermato l’appoggio suo e del partito al referendum, ma ha aggiunto: «So bene che nel partito c’è anche chi non li ha firmati tutti e non chiediamo abiure a nessuno. Con rispetto di chi non li ha firmati tutti, la posizione del partito deve essere chiara e lineare».

 

Rassegna di genere
Il vero motivo che ha spinto 50 uomini a stuprare Gisèle Pelicot
editorialista
Elena Tebano

 

Il processo sulle violenze di Mazan si è concluso il 20 dicembre: Dominique Pelicot, 72 anni, è stato condannato a 20 anni di carcere (ha già annunciato che non farà ricorso) per aver più volte drogato e violentato la moglie Gisèle Pelicot, 72, nel corso di un decennio, invitando decine di sconosciuti a stuprarla mentre era priva di sensi e lui assisteva e li riprendeva. Con Pelicot sono stati condannati i 50 uomini co-imputati: per stupro, tentato stupro o aggressione sessuale. Hanno però ricevuto condanne molto più basse di quelle chieste dalla procura: tra i 3 e i 15 anni, alcuni con una parte della pena sospesa. Sei di loro sono usciti dal processo come uomini liberi, avendo già scontato la pena in detenzione preventiva.

 

 

È un esito per molti versi sorprendente, visto che sulla loro colpevolezza non c’erano dubbi: Dominique Pelicot si è subito dichiarato colpevole e ha testimoniato ricostruendo le loro azioni; le loro violenze sono state riprese in video; sia Dominique che Gisèle Pelicot hanno testimoniato che lei non era consenziente. Come ha notato la filosofa Katie Ebner-Landy, l’oggetto del processo non è mai stato ciò che hanno fatto, ma piuttosto il motivo per cui lo hanno fatto.

 

 

E infatti i 50 uomini condannati hanno usato il «perché» come uno scudo, sostenendo per lo più di essere convinti di partecipare a un «gioco» erotico consensuale tra i due coniugi (ora ex), o di essere stati succubi di Pelicot marito, e quindi negando la loro responsabilità. Condannandoli a sentenze relativamente basse, i cinque giudici del processo hanno in qualche modo dato loro ragione: la motivazione delle condanne, come racconta Le Monde, «mostra come i magistrati si siano convinti del ruolo centrale svolto da Dominique Pelicot, giustificando una differenza di cinque anni tra la pena massima che gli è stata inflitta (…) e le altre sentenze, molto più leggere rispetto alle richieste dell’accusa».

 

 

Ebner-Landy ha seguito il processo per il New Yorker, che ha una lunga tradizione nel mandare filosofe ai processi: La banalità del male di Hannah Arendt è nato dal reportage fatto dalla pensatrice ebreo-tedesca al processo di Gerusalemme del 1961 in cui Adolf Eichmann fu condannato per aver organizzato lo sterminio nazista degli ebrei. E forse non è un caso che la «banalità del male», spesso parafrasata come «banalità del maschio» (un gioco di parole tra le espressioni francesi la «banalité du mal» e «la banalité du mâle») sia stata una delle spiegazioni più usate per il comportamento degli stupratori della porta accanto nel caso Mazan.

 

 

In una lunga analisi appena pubblicata sul New Yorker, però, la filosofa Ebner-Landy offre una spiegazione più convincente, sia per il comportamento degli stupratori di Mazan, sia per le sentenze relativamente clementi che hanno ricevuto. Ha a che fare con il modo in cui il web cambia la percezione delle proprie azioni e, in ultima analisi, con l’incapacità di (molti) uomini di accettare la frustrazione dei loro desideri.

 

 

Al processo le violenze dei 51 uomini sono state in parte spiegate dai loro avvocati, in una sorta di determinismo psico-sessuale, con quelle subite da alcuni di loro quando erano bambini: circa uno su quattro (tra cui Dominique Pelicot) è stato vittima di stupri da parte di estranei o familiari. Una circostanza «straziante» ma non sufficiente: «Dopo tutto, non tutte le persone che subiscono eventi del genere finiscono per commettere uno stupro», nota Ebner-Landy. Per altro solo otto dei 51 uomini condannati avevano precedenti per violenze sessuali o domestiche: gli altri hanno compiuto per la prima volta questi reati quando si sono trovati di fronte una donna incosciente e la sensazione di impunità.

 

 

Tutti e 51 però, sono stati reclutati da Dominique Pelicot in un forum online completamente anonimo dedicato alle fantasie sugli stupri, ora chiuso, Coco (la cosa agghiacciante è che i giudici durante il processo l’hanno descritto come un «sito di incontri», dimostrando di non sapere di cosa si stesse parlando).

 

 

«Anh P., cofondatrice della sezione di Avignone di un’organizzazione per i diritti delle persone trans, mi ha raccontato che i temi tipici dei gruppi di discussione attorno ai quali Coco era strutturato includevano incontri trans e porno, hentai, B.D.S.M., lavoro sessuale, zoofilia e droghe da stupro (alcune delle quali erano nascoste sotto altri nomi). (…) Il forum utilizzato da Dominique si chiamava “Without Her Knowledge” ed era attivo da almeno dieci anni. La sua prima mossa online (…) era quella di chiedere ai partecipanti alla chat se, proprio come lui, si divertissero in “modalità stupro”» racconta Ebner-Landy.

 

 

Coco, oltre a non avere moderazione e non richiedere nessun dato agli utenti, non conservava neppure le loro chat, facendo sparire ogni traccia dell’attività online dopo la disconnessione. Questo ha favorito il cosiddetto «effetto dell’invisibilità».

 

 

«La teoria più canonica dell’effetto dell’invisibilità sul comportamento è forse l’Anello di Gige: il dispositivo di invisibilità citato nella Repubblica di Platone. Quando Gige si rende conto che con una semplice rotazione dell’anello può scomparire, stupra la moglie del re, uccide il re e si impadronisce del regno. Su Coco, la psicologia dell’invisibilità ha incontrato il potere della folla. Gli utenti non solo sono stati invitati a parlare senza essere controllati, ma sono stati anche introdotti a persone che parlavano nello stesso modo e nello stesso momento. È come se, quando Gige ha girato il suo anello per diventare invisibile, avesse improvvisamente incontrato altri invisibili che alimentavano i suoi desideri» scrive Ebner-Landy.

 

 

Secondo la filosofa, l’uso continuo del forum spinge alcuni utenti a vivere anche offline, nella vita normale, l’effetto di invisibilità. Tra il gennaio 2021 e il maggio 2024 ci sono stati almeno 23 mila casi penali, in Francia, in cui è stato citato il forum di Coco. Un documentario di Mediaparte del 2023 riporta che circa 300 persone gay o trans in cinque anni, in media una a settimana, sono state attaccate da aggressori che avevano organizzato incontri online sul sito con le loro vittime.

 

 

Dopo che l’associazione SOS Homophobie ha sporto denuncia, il governo francese ha aperto un’indagine su Coco e poi lo ha chiuso, accusando il suo fondatore di aver favorito gruppi di aggressori che pianificavano agguati violenti. Altri forum simili, però rimangono in attività.

 

 

Ebner-Landy nota che nelle testimonianze sulle aggressioni alle vittime degli agguati e in quelle del processo Pelicot compare un linguaggio simile, che tende a obliterare la responsabilità degli aggressori, come se la violenza non fosse tale, o non fosse opera loro. «Un uomo che è stato aggredito da dodici persone a Besançon nel 2018 ha detto che ai suoi aggressori è sembrato “un gioco”, solo uno di loro alla fine ha riconosciuto la sua colpa. “Non sembrava affatto che stessero commettendo un atto di violenza”, ha detto la vittima. Molti imputati del processo Pelicot hanno espresso la stessa sensazione che le scene che hanno vissuto fossero immaginarie. Ghabi e Venzin (due dei condannati, ndr) hanno detto di aver pensato che le loro visite fossero, rispettivamente, uno “scenario” e una “fantasia”. Vandevelde (un altro condannato, ndr), che si è recato a casa Pelicot sei volte tra il 2019 e il 2020, si è descritto come “uno zombie autodiretto”. Alla finzione si è aggiunta la percezione di una mancanza di agency» (con «agency», in filosofia si intende la capacità di un soggetto di agire in modo indipendente e sulla base di scelte libere). Anche i giudici, addossando gran parte della responsabilità a Pelicot, hanno in qualche modo avallato l’idea che gli altri condannati non abbiano davvero voluto la violenza.

 

 

«Per gli psicologi, questa mentalità è in accordo con le ricerche su altri tipi di uso di Internet. Scrivendo di pornografia online, la psicologa clinica Alessandra Lemma ha sostenuto che, rispetto al porno distribuito attraverso i media tradizionali, il porno online non rappresenta una differenza di scala ma di genere. Ciò è dovuto in parte al modo in cui Internet ha rimodellato la struttura di base del desiderio. Secondo Lemma, Internet ha spostato la società da un modello di desiderio “3(D)”, che implica “desiderio, ritardo e soddisfacimento”, a un modello “2(D)”, che va direttamente dal desiderio al soddisfacimento. In questo nuovo modello, appaghiamo i nostri desideri così rapidamente che non abbiamo il tempo di metterli in discussione. Se non posticipiamo, non abbiamo la possibilità di interrogarci» scrive ancora Ebner-Landy.

 

Un desiderio subito soddisfatto non deve essere messo in discussione proprio perché si realizza. Online è più facile non solo superare i propri tabù e quelli della società (grazie all’anonimato e alla distanza dello schermo), ma anche dissociarsi dalle proprie azioni. Sentirsi come zombie etero-diretti, per usare le parole di uno degli stupratori di Mazan. Il fatto che gli stupri avvenissero di notte, mentre Gisèle Pelicot era incosciente, ha contribuito a replicare nel mondo fisico questo stato di dissociazione dalla realtà. Ma anche se i loro autori le sentivano come irreali, le violenze erano reali.

 

Dal processo, inoltre, è emerso che Pelicot (un uomo economicamente fallito costretto a prendere soldi in prestito dai figli) e alcuni degli imputati avevano un’altra cosa in comune: «si trattava di uomini che non avevano ottenuto ciò che volevano dalla vita». Uomini i cui desideri venivano costantemente frustrati. E che per una volta (o per più volte) proprio grazie al forum online in cui si sono conosciuti hanno “finalmente” potuto realizzare i loro desideri.

 

 

«Ci sono molte cose che possiamo imparare da questo caso – scrive la filosofa Ebner-Landy -. Non solo sulla persistenza della violenza contro le donne, ma anche sulle confusioni presenti nelle nostre società. Non sappiamo ancora dove tracciare il confine tra desiderio normale e patologico, in che modo il desiderio viene alterato dal mondo virtuale o come giudicare la responsabilità per il comportamento che ispira. Quando liquidiamo questi uomini come malvagi, ci liberiamo dalle nostre responsabilità». Invece è fondamentale che ognuno venga richiamato alle proprie responsabilità – online e offline.

 

Il Punto con Amnesty International
Torna la pena di morte in Louisiana, con il metodo più atroce
editorialista
Riccardo Noury

 

«Per troppo tempo, abbiamo tradito la promessa fatta alle vittime dei crimini più efferati. Ma ora questo fallimento è alle nostre spalle». Con queste parole il governatore dello Stato della Louisiana, Jeff Landry, repubblicano, ha deciso di porre fine a una pausa di 15 anni sulle esecuzioni capitali e di farlo attraverso il metodo più recente e atroce, già sperimentato nello stato dell’Alabama: l’ipossia da azoto, in termini più comprensibili il soffocamento indotto da assenza di ossigeno a causa di quantità di azoto pompate nell’organismo attraverso una mascherina da inalazioni. Secondo i giudici, non si tratta di una «punizione crudele e insolita», ossia di quelle vietate dall’Ottavo emendamento della Costituzione americana. L’ultima esecuzione era stata, nel 2010, quella di Gerard Bordelon, un «volontario» che aveva rinunciato a ricorrere contro la condanna a morte.

 

 

Subito dopo l’annuncio del governatore Landry, molte procure locali si sono affrettate a richiedere una data d’esecuzione per i «loro» condannati a morte. Il primo nella lista sarebbe stato, il 17 marzo, l’ottantunenne Christopher Sepulvado, in sedia a rotelle e con cuore e polmoni irreversibilmente rovinati, ma è deceduto il 24 febbraio. Resta fissata la data del 18 marzo per Kessie Hoffman. Avrebbe potuto esserci un’ulteriore esecuzione il 19 marzo ma nella fretta il procuratore si è dimenticato che Larry Roy aveva ancora degli appelli a disposizione. Ci riproverà, ha chiarito.

 

 

Il metodo dell’ipossia da azoto è stato approvato dallo Stato della Louisiana nel 2024, dopo la prima esecuzione del genere, avvenuta all’inizio di quell’anno nello stato dell’Alabama. Nonostante le fonti ufficiali avessero assicurato che il prigioniero, Kenneth Smith, «aveva perso conoscenza in pochi secondi», giornalisti testimoni dell’esecuzione riferirono che Smith si era mosso, aveva tremato e rantolato in cerca d’aria per almeno quattro minuti. Da allora, in quello Stato, è successo altre tre volte. Le testimonianze sull’agonia del condannato a morte sono state le stesse.

 

 

Dunque, se la data di esecuzione del 18 marzo non sarà fermata, Hoffman sarà condotto nella stanza delle esecuzioni e immobilizzato su una barella, con un pulsiossimetro, un collare cervicale e una maschera per inalazioni. Sarà costretto a respirare azoto fino a quando il pulsiossimetro non avrà confermato l’assenza di ossigeno. «Ispirati» dall’esempio dell’Alabama, altri Stati hanno adottato il metodo di esecuzione dell’ipossia da azoto: il Mississippi, l’Oklahoma e per l’appunto la Louisiana. Questo Stato ha anche adottato una legge sulla «privacy», chiamiamola così, che impedisce di conoscere i nomi delle persone coinvolte nell’esecuzione e, soprattutto, del fornitore del prodotto mortale. Mentre altrove negli Usa si sta valutando se utilizzare questo metodo di esecuzione, tre delle principali aziende produttrici di azoto hanno deciso di non venderlo più agli Stati che mantengono la pena capitale.

La Cinebussola

Un film sugli orrori in Bosnia che per la regista è anche una terapia

editorialista

Paolo Baldini

«Sono fortunata perché sono sopravvissuta alla guerra o maledetta perché l’ho vissuta?», si chiede la dolce Selma, sceneggiatrice di Sarajevo, la capitale della Bosnia – Erzegovina, riferendosi ai conflitti armati che hanno insanguinato l’ex Jugoslavia tra il 1991 e il 2001, una decina di anni dopo la morte di Tito. Selma è in realtà l’alter ego della debuttante regista bosniaca Mersiha Husagic, 36 anni, oggi residente a Parigi, che bambina dovette rifugiarsi ad Amburgo a causa delle persecuzioni razziali.

 

Selma, dunque, si appresta a girare un film sul dramma balcanico. Interpretata dalla stessa Husagic, vive in solitudine, compressa in una stasi emotiva da cui rischia di essere travolta. Al supermercato compra sigarette, biscotti, succo di ciliegia e vodka per il Cherry Juice. «Quando una guerra finisce, ti continua dentro», ripete Selma / Mersiha. Il film è per lei come una terapia: serve ad uscire dal molesto ricordo degli orrori e a rimuovere il senso di colpa che prova nei confronti del padre, descrivendo il caos post liberazione e il tarlo rimasto nella coscienza collettiva del Paese.

 

«Su 60 mila pensieri al giorno, il 90 per cento riguarda il passato». I ricordi partono dal 1992 e sono impressi sul nastro di un vecchio VHS. Ma il film tanto desiderato non si farà e Selma, che per vivere fa la barista e prepara script per la tv che nessuno leggerà mai, deve dare la brutta notizia al cast e alla troupe, mentre viene raggiunta dall’attore tedesco che ne doveva essere il protagonista, Niklas (Niklas Loffner). Con lui divide una notte di tormenti, confessioni, rivelazioni. Il Luna Park, la passeggiata a 10 gradi sotto lo zero, il laghetto gelato, l’aggressione dei ladruncoli e la rincorsa nelle strade deserte di Sarajevo, l’ultimo bicchiere, i discorsi sulla fluidità sessuale, i baci, la disperazione. Poi da New York arriva una chance. Il film si può fare. Ma Selma dovrebbe trasferirsi in America.

Selma e Niklas citano Shakespeare: «Non c’è niente che sia bene o male. È il pensiero che lo rende tale». La rimozione del dolore passa attraverso le pagine della sceneggiatura, scena per scena, mentre Selma tira di boxe e Niklas, in un intersecarsi tra fiction e realtà, divide pane e aringa con i gabbiani del porto. Un film nel film, alla Truffaut. Il dramma intimo diventa universale. «Ci sono due modi di vivere: per paura o per amore. Se vivi per amore non avrai paura di nulla». L’amore di cui Selma parla è 1) quello sorgente per Niklas, 2) per il padre che le ha insegnato il cocktail con il succo di ciliegia (ecco il titolo), 3) per la città martoriata.

Mersiha Husagic utilizza un linguaggio che spazia dalla commedia al dramma, attraverso i filmati d’archivio e disegni che accompagnano l’azione. «L’immaginazione, quando ero piccola, era il mio personale argine contro la guerra e gli stenti». Cherry Juice è stato prodotto, con molti tormenti, anche grazie a un crowdfunding. «Tutti dicevano che ero pazza a fare una fiction con il budget di cui dispone uno studente per realizzare un corto, praticamente zero».
Un film pacifista, sulla memoria di quel che accadde e la rinascita possibile di chi subì l’onda del genocidio, con panorami sonori che rimandano alla musica dei Pink Floyd.

Racconta Mersiha Husagic: «Da un giorno all’altro, i soldati si sono introdotti nelle nostre case, i nostri vicini volevano eliminarci solo perché avevamo nomi diversi dai loro. Non eravamo più esseri umani. I bambini venivano uccisi, le donne violentate. Abbiamo perso le nostre case, le nostre radici, le nostre famiglie. Per molti anni non sono riuscita a trovare un senso alla vita e alla parola giustizia. Il disastro che la guerra lascia dietro di sé è irreversibile. Spero che il linguaggio universale dell’arte possa contribuire a far superare una ferita tuttora aperta».

CHERRY JUICE di Mersiha Husagic
(Bosnia-Erzegovina, 2023, durata 90′, Lo Scrittoio)

con Mersiha Husagic, Niklas Loffler, Malte Arnold, Aline de Oliveira)
Giudizio: 3 ½ su 5
Nelle sale