HomeAttualitàUBICARE LA PAROLA DI OGGI A CURA DEL PROF. INNOCENZO ORLANDO
UBICARE LA PAROLA DI OGGI A CURA DEL PROF. INNOCENZO ORLANDO
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Ubicare
u-bi-cà-re (io ù-bi-co)
Significato Situare, collocare, in riferimento a edifici e fondi
Etimologiavoce dotta recuperata dal latino medievale ubicare, derivato di ubi ‘dove’.
«L’immobile non è ubicato in questa via.»
Fa parte di quelle parole che in pratica pare esistano solo per farsi intendere poco, buone quasi solo a staccarsi dalla semplicità della realtà. Addirittura, riesce a portare un significato del tutto superfluo.
Ubicare è un verbo del latino medievale, coniato nel lessico della filosofia scolastica a partire dall’avverbio ubi, cioè ‘dove’. Sarebbe rimasto serenamente lì, se la burocrazia ottocentesca, famelica di parole auliche, non l’avesse recuperato — e possiamo notare una prima biforcazione di significato.
In italiano il verbo ‘ubicare’ emerge come un ‘destinare una costruzione a un certo luogo’. Così si apre il tavolo per stabilire dove ubicare i nuovi fabbricati, l’amministrazione ha le idee chiare su dove ubicare tutta una serie di rotonde, e un cittadino dona il terreno in cui ubicare il nuovo parco. Il suo collocare è un porre, un situare dinamico. Ha un suo senso, ma non che non mostri problemi: è una parola pesante, senza però essere un tecnicismo — non denota niente di specifico, per gli addetti ai lavori. E quindi popola senza ragione semantica discorsi che tante volte dovrebbero avere una premura di trasparenza. Ma c’è di più.
Spesso l’ubicare prende una sostanza che fa sentire di più il suo peso e la sua superfluità — quello che porta vicino al trovarsi, all’essere. Il modo in cui è uno ‘specificare un luogo’ non è solo a fini fondativi, ma anche meramente identificativi.
Dire che un centro commerciale è ubicato nella periferia nord della città; indicare che il ponte è ubicato nel centro della tal cittadina; chiedere dove sia ubicato un immobile: lo sentiamo benissimo, sono frasi in cui potremmo tranquillamente espungere l’ubicato, avendo come unico effetto quello di rendere la frase più leggera e naturale. Il centro commerciale è nella periferia nord, il ponte è nel centro della cittadina, dove è l’immobile?
L’ubicare, qui, paluda la frase. Si prende lo spazio per premettere che stiamo localizzando. E per carità, non è un effetto illecito da ricercare, ma — come anticipavo prima — il fatto che sia un termine proprio del gergo burocratico, amministrativo, giuridico, lo rende meno accettabile: sono gerghi a cui è richiesta la precisione dello specialismo e la chiarezza della funzione pubblica, e che invece non di rado indulgono nel potere del gergo ostico gratuito.
Ma non buttiamo via l’ubicare.
Infatti un discorso analogo si potrebbe fare per il situare e il situato: sono parole appartenenti a un registro molto più andante, buono anche per… situazioni più normali, ma la zuppa non cambia. L’«immobile situato in via…» non è identificato più precisamente dell’«immobile in via…». E con qualche cambio di sfumatura e uso abbiamo anche il collocare e il collocato, il localizzare e il localizzato. Non è solo, invariabilmente un tic del burocratichese. A volte, prendersi il tempo per preparare, per segnalare l’arrivo imminente di un’informazione importante come spesso sono quelle topologiche, ha il suo senso — può servire da evidenziatore anche orale.
Se vogliamo marcare l’informazione su dove si trovi qualcosa, e lo vogliamo fare con serietà, forse anche con sussiego, e magari con ironia — senza il profilo tecnologico del localizzare, o quello più instabile del collocare, o quello più scontato del situare o del trovarsi — l’ubicare torna ottimo. Ad esempio parlando dell’appartamentuzzo ereditato dall’amica che è ubicato in piazza dei Miracoli a Pisa, o ribadendo che la residenza è ubicata in via del Glicine, non in via del Gelsomino, o notando che il tal negozio è ubicato fuori dal territorio comunale. Mica male, così.
Fa parte di quelle parole che in pratica pare esistano solo per farsi intendere poco, buone quasi solo a staccarsi dalla semplicità della realtà. Addirittura, riesce a portare un significato del tutto superfluo.
Ubicare è un verbo del latino medievale, coniato nel lessico della filosofia scolastica a partire dall’avverbio ubi, cioè ‘dove’. Sarebbe rimasto serenamente lì, se la burocrazia ottocentesca, famelica di parole auliche, non l’avesse recuperato — e possiamo notare una prima biforcazione di significato.
In italiano il verbo ‘ubicare’ emerge come un ‘destinare una costruzione a un certo luogo’. Così si apre il tavolo per stabilire dove ubicare i nuovi fabbricati, l’amministrazione ha le idee chiare su dove ubicare tutta una serie di rotonde, e un cittadino dona il terreno in cui ubicare il nuovo parco. Il suo collocare è un porre, un situare dinamico. Ha un suo senso, ma non che non mostri problemi: è una parola pesante, senza però essere un tecnicismo — non denota niente di specifico, per gli addetti ai lavori. E quindi popola senza ragione semantica discorsi che tante volte dovrebbero avere una premura di trasparenza. Ma c’è di più.
Spesso l’ubicare prende una sostanza che fa sentire di più il suo peso e la sua superfluità — quello che porta vicino al trovarsi, all’essere. Il modo in cui è uno ‘specificare un luogo’ non è solo a fini fondativi, ma anche meramente identificativi.
Dire che un centro commerciale è ubicato nella periferia nord della città; indicare che il ponte è ubicato nel centro della tal cittadina; chiedere dove sia ubicato un immobile: lo sentiamo benissimo, sono frasi in cui potremmo tranquillamente espungere l’ubicato, avendo come unico effetto quello di rendere la frase più leggera e naturale. Il centro commerciale è nella periferia nord, il ponte è nel centro della cittadina, dove è l’immobile?
L’ubicare, qui, paluda la frase. Si prende lo spazio per premettere che stiamo localizzando. E per carità, non è un effetto illecito da ricercare, ma — come anticipavo prima — il fatto che sia un termine proprio del gergo burocratico, amministrativo, giuridico, lo rende meno accettabile: sono gerghi a cui è richiesta la precisione dello specialismo e la chiarezza della funzione pubblica, e che invece non di rado indulgono nel potere del gergo ostico gratuito.
Ma non buttiamo via l’ubicare.
Infatti un discorso analogo si potrebbe fare per il situare e il situato: sono parole appartenenti a un registro molto più andante, buono anche per… situazioni più normali, ma la zuppa non cambia. L’«immobile situato in via…» non è identificato più precisamente dell’«immobile in via…». E con qualche cambio di sfumatura e uso abbiamo anche il collocare e il collocato, il localizzare e il localizzato. Non è solo, invariabilmente un tic del burocratichese. A volte, prendersi il tempo per preparare, per segnalare l’arrivo imminente di un’informazione importante come spesso sono quelle topologiche, ha il suo senso — può servire da evidenziatore anche orale.
Se vogliamo marcare l’informazione su dove si trovi qualcosa, e lo vogliamo fare con serietà, forse anche con sussiego, e magari con ironia — senza il profilo tecnologico del localizzare, o quello più instabile del collocare, o quello più scontato del situare o del trovarsi — l’ubicare torna ottimo. Ad esempio parlando dell’appartamentuzzo ereditato dall’amica che è ubicato in piazza dei Miracoli a Pisa, o ribadendo che la residenza è ubicata in via del Glicine, non in via del Gelsomino, o notando che il tal negozio è ubicato fuori dal territorio comunale. Mica male, così.